Oddino Morgari nacque a Torino il 16 novembre 1865 da Paolo Emilio e da Clementina Lomazzi: una famiglia di artisti, di estrazione piccolo borghese.

Da giovane si avvicinò alle idee mazziniane, un’adesione che nel clima politico dell’Italia liberale gli valse nel 1885 l’espulsione dall’Istituto geografico militare, dove stava svolgendo il servizio militare. Si recò dunque a Parigi e in seguito a Marsiglia, dove nel 1890 diresse un circolo mazziniano. La sua formazione politica conobbe una svolta nel 1891, quando incontrò a Torino il futuro dirigente socialista (e amico di Filippo Turati) Claudio Treves, col quale si avvicinò al socialismo, tanto che, quando nel novembre 1892 venne creata nel capoluogo piemontese la sezione locale dell’appena fondato Partito socialista dei lavoratori italiani, ne divenne il segretario. Iniziava così una milizia che sarebbe durata tutta la vita e cominciavano anche le collaborazioni giornalistiche con gli interventi su La Parola del Popolo, supplemento de Il Grido del Popolo.

Sul movimento proletario organizzato si stavano però per abbattere i fulmini della repressione di Francesco Crispi e Morgari non ne fu immune. Già nell’agosto 1893 fu arrestato nel corso di una manifestazione e condannato a dieci giorni di detenzione, mentre nel 1894, sottoposto a processo insieme a Treves per un suo articolo (considerato «sovversivo») sul Grido, fu condannato a tre mesi di confino ad Aosta.

Caduto Crispi e ripristinate – almeno momentaneamente – le principali libertà civili e politiche, Morgari poté tornare alla sua attività di dirigente politico e pubblicista. In questo periodo mise a punto la propria visione del socialismo di natura positivista, fondata sulla fiducia in un moto lineare di sviluppo verso un nuovo ordine sociale: il socialismo sarebbe giunto grazie a una spontanea spinta evolutiva, mediante i progressivi successi delle forze proletarie e l’espansione delle loro organizzazioni. Intanto rivelava le sue doti di propagandista, impegnandosi nella duplice attività di pubblicista e di conferenziere, con periodici giri a tutte le latitudini della penisola, dove sapeva rivolgersi alle masse popolari con parole semplici e persuasive.

Grazie alla raggiunta notorietà, nel 1897 fu eletto deputato del Partito socialista italiano (PSI) a Torino, avviando così una lunga carriera parlamentare, che si protrasse ininterrottamente dalla XX (1897- 1900) alla XXVI legislatura (1921-24). Con la crisi di fine secolo sul partito si abbatté una nuova tempesta. Giunto a Milano nel maggio 1898, nei giorni della rivolta popolare e della brutale repressione, Morgari fu arrestato con l’accusa di aver incitato all’odio di classe. Sottoposto a processo presso la corte marziale, fu però assolto per insufficienza di prove e tornò alla sua attività di parlamentare e di propagandista, che svolse anche sulle pagine del Sempre avanti!, periodico per gli umili e i pratici, il settimanale da lui fondato nel febbraio 1900. Scosso dalle drammatiche vicende milanesi del 1898 e sulla scorta delle già acquisite convinzioni gradualiste, appoggiò l’alleanza elettorale del PSI con le forze radicali-democratiche per le elezioni politiche del 1900 e accolse con favore la svolta liberale guidata da Giovanni Giolitti nel 1901. Ciò nondimeno non aderì mai a posizioni che all’epoca venivano definite ‘ministerialiste’. Pur condividendo l’occasionale voto favorevole del gruppo parlamentare socialista verso singoli provvedimenti del governo, denunciò infatti instancabilmente il trasformismo di Giolitti e i metodi spregiudicati dei deputati giolittiani, soprattutto al Sud. Tanto che nel 1902 svolse un giro di conferenze proprio nel Meridione e pubblicò poi un pamphlet dal titolo Un lupo in mitria. Requisitoria contro sua eccellenza rev.ma monsignore dottor don Gaetano D’Alessandro vescovo e parroco di Cefalù in Sicilia (Corigliano Calabro 1905), un vero e proprio libro- inchiesta nel quale, anticipando i toni di lì a poco usati da Gaetano Salvemini su Critica sociale, lanciava un’accorata nonché documentata denuncia contro la mafia e invocava il suffragio universale maschile come l’unico strumento che – a suo giudizio – avrebbe posto dei limiti alla corruttela dei notabili e consentito l’ascesa delle masse popolari. Intanto nel 1906 fu eletto segretario della Camera del lavoro di Torino, dove accrebbe ulteriormente la sua popolarità, anche perché con grande pragmatismo condusse la lotta per le dieci ore di lavoro. Fu proprio questa peculiare combinazione di duttilità politica e rigore morale a porre le basi per una nuova, e forse più importante, svolta nella sua vita di militante.

Nel PSI ferveva infatti lo scontro tra i riformisti di Turati e le correnti intransigenti di Arturo Labriola e Costantino Lazzari, i quali, grazie all’appoggio del carismatico direttore dell’Avanti! Enrico Ferri, nel 1904 avevano conquistato la guida del partito, con una maggioranza però ristretta e fragile, perché Ferri, resosi ben presto conto di non poter manovrare come sperava i suoi temporanei alleati, se ne stava distaccando. Morgari, da tempo angustiato per le fratture politicoideologiche che laceravano il partito, nonché interprete delle analoghe preoccupazioni della base, cui apparivano spesso incomprensibili le divisioni del vertice, si mise all’opera per sanare tali spaccature. Nacque così una nuova corrente, definita ‘integralista’, che vide in Morgari il promotore e il protagonista, con lo scopo di favorire la convergenza tra Ferri e i riformisti di Turati e Leonida Bissolati. L’operazione riuscì e al congresso del PSI del 1906 la vittoria arrise proprio alla corrente integralista, sulla quale confluirono i voti dei riformisti, intenzionati con tale atto ad emarginare la sinistra rivoluzionaria e a porre le basi per la piena riconquista del partito. Benché la piattaforma integralista fosse in realtà molto vaga e generica, tale successo valse a Morgari l’ascesa ai vertici della politica nazionale. Si trasferì quindi a Roma e venne poco tempo dopo nominato capo del gruppo parlamentare socialista alla Camera. Dal febbraio al settembre 1908, in seguito alle dimissioni di Ferri, assunse anche la direzione dell’Avanti!, che avrebbe lasciato a Bissolati dopo il congresso di Firenze del 1908, quando i riformisti riconquistarono la maggioranza del partito.

Morgari si dedicò all’incarico parlamentare e a quello giornalistico con un impegno notevolissimo, associato però – come testimoniano le lettere del suo archivio personale – a una crescente insofferenza verso lo spirito di compromesso, che riteneva eccessivo, di molti deputati socialisti. La sua intransigenza emerse in modo particolare nel 1909, in occasione della visita dello zar Nicola II in Italia. Già indignato per gli onori offerti a un despota tirannico, Morgari ricevette numerose lettere di militanti e semplici cittadini di estrazione popolare, pronti a esprimere tutta la propria avversione verso quello che veniva definito un «boia» e un «assassino». Dall’alto dell’autorevole ruolo di capogruppo parlamentare Morgari decise perciò di organizzare una protesta molto ampia, con tanto di comitati locali e manifestazioni cittadine. La sua iniziativa si infranse però contro la freddezza di molti compagni di partito e l’aperta ostilità della Confederazione generale del lavoro diretta dal riformista Rinaldo Rigola, da sempre ostile a scioperi politici, privi di un preciso obiettivo economico. Alla fine la protesta fu ugualmente organizzata, ma in tono minore e trovò il suo culmine solo in una manifestazione dinanzi al castello di Racconigi, dove alloggiava l’ospite straniero.

Il distacco di Morgari dai dirigenti riformisti andò progressivamente aumentando. Al congresso di Milano del 1910, che confermò la vittoria della corrente turatiana, presentò la piattaforma dei ‘riformisti di sinistra’, insieme a Salvemini e a Giuseppe Emanuele Modigliani, contraria alla linea di Turati e del gruppo di Critica sociale. Pochi mesi dopo, nel 1911, disapprovando ormai apertamente l’azione parlamentare del partito, prese una decisione davvero radicale: lasciare l’Italia e partire per un lungo viaggio in Estremo Oriente.

Iniziò così una nuova fase della sua vita. Grazie a quel viaggio cominciò infatti la sua attività di ‘diplomatico’ del socialismo italiano, che si sarebbe intensificata negli anni a venire e che aveva avuto peraltro un antecedente nel 1903, quando si era recato in Macedonia per combattere a fianco degli insorti. Tornò in patria nel 1913 e fu rieletto segretario del gruppo parlamentare, carica nella quale venne confermato anche dopo il congresso di Ancona del 1914 che vide la vittoria della corrente intransigente. Impegnato fin da subito nella campagna contro la guerra, dopo la scelta interventista dell’Italia dedicò le sue energie a ripristinare i contatti, perduti per il crollo della II Internazionale, fra i partiti socialisti europei, diventando così di fatto il rappresentante internazionale del socialismo italiano durante la Grande guerra. Già nell’aprile del 1915 propose una conferenza internazionale socialista, cogliendo l’occasione per stringere i primi contatti anche con Lev Trotskij e Julij Martov. Quindi nel luglio seguente si recò a Berna, dove si incontrò con Robert Grimm, Pavel Axelrod e Angelica Balabanoff in una riunione che pose le basi per il successivo convegno di Zimmerwald. Lì svolse un ruolo di primo piano durante la discussione, ma votò con molta esitazione il documento finale, in disaccordo con parte dei contenuti che riteneva eccessivamente radicali. Tale disaccordo non preludeva però a un ammorbidimento delle sue posizioni: al contrario, nel luglio del 1916 prese la parola alla Camera per pronunciare contro la guerra un discorso durissimo, tale da provocare attacchi violenti da parte dei suoi avversari nazionalisti nonché l’ammirazione di alcuni giovani socialisti emergenti, tra i quali Antonio Gramsci. Sicché, sulla scorta dell’esperienza maturata sul campo, la direzione del PSI lo designò ufficialmente come proprio rappresentante nella Commissione socialista internazionale. Fu in questa veste che si recò alla conferenza di Kienthal del 1916.

Proprio per questo incessante impegno volto a ricostituire le basi dell’internazionalismo proletario, non meraviglia il suo entusiasmo al giungere delle prime notizie della rivoluzione russa. Ebbe perciò l’incarico dal partito di recarsi in Russia, ma il tentativo fallì a causa degli insormontabili ostacoli nei trasporti in Europa. I primi mesi dopo la fine della guerra lo videro quindi spostato su posizioni di sinistra, tanto che nell’aprile del 1919 inviò il messaggio in cui si annunciava l’adesione del PSI all’Internazionale comunista. Sempre più fiducioso nella prospettiva di una imminente rivoluzione europea, si recò allora in Ungheria, per partecipare al locale moto rivoluzionario condotto da Bela Kun, che conobbe personalmente. Ma gli entusiasmi stavano per spegnersi rapidamente: il fallimento della rivolta ungherese, la repressione dei moti rivoluzionari in Germania e le prime notizie delle spinte autoritarie che prevalevano nel governo bolscevico russo, lo indussero a un crescente pessimismo, che manifestò in una lettera aperta «ai cari compagni della direzione del partito».

Tornò così ad affermare la sua fiducia nelle tesi gradualistiche e a partire dal 1920, terminata la fase internazionale della sua attività politica, riprese a occuparsi in prima persona delle vicende interne del PSI, riavvicinandosi alla corrente di Turati e del vecchio amico Treves. Il momento non risultava tuttavia favorevole, per lo scatenarsi dello squadrismo fascista e per le divisioni sempre più profonde che laceravano il PSI. Contro lo squadrismo manifestò il consueto coraggio, sfidando apertamente sul campo, a rischio della vita, i fascisti e scrivendo un opuscolo nel 1924, La libertà di voto sotto il regime fascista, nel quale denunciò la violenza e il terrore diffusi dalle camicie nere. Nella polemica interna del PSI decise di schierarsi sempre più decisamente a favore dei riformisti, sia contro la scissione comunista del 1921, sia contro la politica dei massimalisti di Giacinto Menotti Serrati, cui rimproverava un rivoluzionarismo tutto verbale e inconcludente. Perciò, quando nel 1922 maturò la seconda scissione, seguì Turati, Treves e Giacomo Matteotti nel Partito socialista unitario.

La situazione in Italia stava tuttavia precipitando. Dopo la crisi seguita al delitto Matteotti, la progressiva stretta autoritaria del regime stava rendendo impossibile la vita per gli oppositori. Nel 1926 Morgari, alla non più giovane età di 60 anni, decise, poco prima della emanazione delle «leggi fascistissime», di abbandonare l’Italia per recarsi in esilio volontario in Francia. Cominciò così l’ultima fase della sua vita, quella dell’esule. Ma non diminuì il suo impegno politico. Partecipò alla riunificazione socialista del 1930 e quindi nel 1934 appoggiò la proposta, di cui era alfiere Pietro Nenni, del patto di unità d’azione tra comunisti e socialisti, perché riteneva l’unità politica del proletariato un mezzo indispensabile nella lotta contro il fascismo. Si riavvicinò all’Unione sovietica, dove si recò in visita a metà degli anni Trenta e durante il viaggio giunse a sposare un’interpretazione filostaliniana delle ‘purghe’. Ma cambiò presto idea, esprimendo le prime perplessità che ne provocarono l’espulsione dal paese. I dubbi divennero infine aperta opposizione in occasione della firma del patto di non aggressione tra Hitler e Stalin nel 1939, quando attaccò apertamente e senza riserve lo stalinismo. Si trattò di una presa di posizione così netta da indurre il nuovo, oltre che ultimo, ritorno di Morgari al vertice del partito. Poiché infatti Nenni, che del patto coi comunisti restava il più importante sostenitore, si dimise da segretario del PSI e da direttore dell’Avanti!, Morgari venne eletto con Angelo Tasca e Giuseppe Saragat nel comitato di reggenza del partito e del giornale.

Fu l’ultimo incarico di rilievo di una vita molto intensa: ormai la vecchiaia ne riduceva le forze e la mancanza di un lavoro stabile lo stava conducendo alla povertà. La guerra lo colse perciò malato e senza mezzi di sostentamento, al punto che riuscì a sopravvivere solo grazie all’occasionale aiuto dei compagni di partito. Stanco e sfiduciato, nel 1940 chiese al governo fascista di tornare nella natia Torino. La richiesta fu accolta e Morgari poté quindi spendere gli ultimi anni della sua vita in Italia.

Morì a Sanremo il 24 novembre 1944.

Fra i suoi scritti, oltre a quelli citati: Per chi dovete votare: consigli agli uomini che vivono del loro lavoro, Torino 1895; L’arte della propaganda socialista, Milano 1896; Il processo ad un fulmine, Imola 1905; Fiori di maggio, Roma 1905; I socialisti al Comune: parole semplici all’elettore proletario, ibid. 1906; Nicola II czar di tutte le Russie, Mantova 1909; La più internazionale delle internazionali, S. Vito al Tagliamento 1915.

Fonte: Paolo Mattera