di Carlo Felici
Parlare di Ernesto Che Guevara a 50 anni dalla sua morte è come contemplare un cielo stellato, non si sa da dove cominciare né dove finire.
I mortali, infatti, dovrebbero limitarsi, in questi casi, a tacere di fronte all’incommensurabilità degli immortali.
Ma anche un mortale può, come Kant scrisse efficacemente, considerare la morale che c’è in lui e oltre ad essa il cielo stellato che permane sopra di lui.
Perciò, nonostante il fiume di inchiostro che è stato versato, narrando la vita ed il pensiero del Che, fino a farlo divenire una icona rivoluzionaria, cercheremo di capire che la sua rivoluzione fu soprattutto etica e morale, prima ancora che sociale, economica o politica. E che fu, anche per questo, una delle vittime più illustri di un comunismo divenuto artificio e negazione della stessa morale su cui esso avrebbe dovuto fondarsi.
Il Che scoprì fin da bambino la ribellione e l’ingiustizia e fu spinto a trovare un modo per combatterle nell’immediato, anche dall’urgenza di una vita incalzata da una malattia che gli consentì di essere riformato nel servizio militare, nonostante poi sia diventato un grandissimo Comandante militare rivoluzionario, così sembra che anche il destino abbia voluto unire la sua ironia a quella proverbiale del Che. La sua vita, infatti, non bruciò lentamente come una candela, ma arse di un fuoco impetuoso e trascinante dall’inizio fino alla fine, espandendo la sua luce ed il suo calore oltre i confini dello spazio e del tempo. Tanto che ancora oggi essa perdura intatta nella sua fulgida essenza, infatti per quelli come lui, finisce sempre una vita terrena per iniziarne una leggendaria, che sicuramente anche gli esploratori spaziali o i futuri combattenti di guerre stellari di liberazione non potranno fare a meno di ricordare e tramandare.
Le tappe di questa vita straordinaria sono arcinote, per cui faremo a meno di ricordarle, lasciando ai biografi la narrazione dettagliata di questo percorso, dall’inizio fino alla fine, e raccomandando, però, a coloro che davvero vogliono pensare al Che e non limitarsi a parlarne o a scriverne o a sproloquiare su di lui, di leggere queste biografie, magari mettendole a confronto, per scoprirne anche le autenticità e le incongruenze.
Tra le migliori, ci sentiamo di raccomandare quella di Paco Ignacio Taibo II e di Castaneda, gli scritti di Moscato, quella di Massari (purtroppo mutila dell’ultimo periodo, dato il tempo in cui fu scritta) oltre a quella di Anderson, che però invitiamo a leggere per ultima dato che, apparentemente può sembrare la più documentata e celebrativa oltre che la più famosa, ma concretamente risulta una delle più mistificatorie, a partire dalla data di nascita e dalle circostanze della morte del Che.
Anderson, infatti, scrive che il Che nacque un mese prima, di quanto lui stesso ricordò persino nel suo diario boliviano, adducendo solo delle prove testimoniali, quasi volendo fare intendere che la sua vita sorse da una bugia. Un modo direi alquanto subdolo di fondare la biografia di un rivoluzionario, e conclude narrando una sorta di riappacificazione nell’abbraccio tra il suo carnefice e la sua vittima, lasciando intendere che la CIA volesse il Che più vivo che morto, tutte panzane per altro smentite da un rapporto dettagliato di due scrittori e storici cubani: Adys Cupull e Froilàn Gonzàles, intitolato
“La CIA contra el CHE” e pubblicato in italiano da Edizioni Achab nel 2007.
Anche i film di recente usciti anche in Italia, per la regia di Steven Soderbergh, rivelano più o meno lo stesso intento, forse meno nel primo sulla vicenda rivoluzionaria cubana, ma sicuramente di più nel secondo sull’impresa boliviana: rappresentare il Che come un rivoluzionario straordinario ma molto donchisciottesco, cioè utopistico e sostanzialmente poco cosciente della realtà e della contingenza in cui si trovò ad operare, insomma una sorta di eroe e Cristo solitario, immortalato dalla sua ultima immagine cadaverica del lavatoio di Vallegrande. Una icona da venerare ed esaltare ma concretamente sempre fuori dal tempo.
Nonostante i tentativi di depistaggio e demistificatori messi in atto anche mediante film e opere monumentali, la realtà è però nota da tempo, e fu edita anche in un libro: Che Guevara and the FBI, con documenti reperiti negli archivi dell’FBI da due illustri giuristi americani Micahel Ratner e Michael Steven Smith, due casse con circa mille rapporti della CIA dal 1954 al 1968. Da essi si evince che la CIA era interessata ad ogni debolezza anche fisica del Che, per poterla sfruttare anche in ogni eventuale complotto, al punto da ostacolare il rifornimento di inalatori che gli erano necessari per l’asma o addirittura per potere infilarci dentro del veleno. Nello stesso rapporto si evidenziava che il Che era seguito con molta attenzione da prima che incontrasse Castro, dai tempi del Guatemala e del colpo di Stato contro Arbenz. Già da allora si segnalava che il Che aveva cercato di resistere al colpo di Stato e che “La cosa migliore è cominciare a far guerra a quest’uomo”. Così la CIA non lo mollò mai, con precisione ed efficienza certosina, spiandolo anche durante la sua lotta sulla Sierra Maestra e considerandolo effettivamente per quello che era, cioè un uomo senza particolari ambizioni personali, che combatteva in maniera disinteressata per una causa di liberazione senza ulteriori ambizioni politiche, dotato di grande coraggio, privo di paura, in grado di riscuotere molta fiducia da coloro che lo circondavano e seguivano, soprattutto un intellettuale. Un agente che lo seguiva descrisse anche il suo modo di fumare i sigari, di leggere libri ai suoi uomini e addirittura di fare il bagno.
Le truppe boliviane che avevano catturato il Che avevano ricevuto un addestramento da militari statunitensi che erano appena arrivati dal Vietnam e quando il Che venne assassinato, sul posto vi erano Eduardo Gonzalez e Felix Rodriguez, agenti cubani della CIA che avevano avuto già esperienza militare a Cuba, Salvador ed in Iran. Il giorno successivo alla morte del Che, arrivò un rapporto dettagliato degli eventi dal ministero degli esteri boliviano alla CIA stessa, che perse le sue tracce solo durante la parentesi del viaggio in Africa da cui il Che fu convinto a tornare a Cuba per l’impresa boliviana.
Ma come fu catturato e morì veramente il Che?
Vediamo di seguire i passaggi essenziali di tali eventi, senza le solite mistificazioni aggiunte artificiosamente da certa vulgata subdolamente propagandistica e denigratoria.
La mattina dell’ 8 di Ottobre 1967, il Che e i suoi guerriglieri erano imbottigliati in una gola che offriva scarse possibilità di fuggire e di nascondersi, in seguito a varie delazioni, l’esercito boliviano manovrato dalla CIA era già arrivato a circondarlo, ottenendo la certezza della sua presenza grazie alla spiata di un contadino.
Di mattina non vi era alcuna prospettiva di fuga o di poter sfuggire a quella morsa, l’unica speranza poteva essere quella di iniziare un combattimento solo nel pomeriggio inoltrato, con lo scopo di eludere l’accerchiamento durante la notte, ma la morsa si stava stringendo attorno ai guerriglieri del Che. La gola era lunga circa 1500 metri e larga 60, fino a restringersi a due circa, in presenza di un ruscello. La battaglia iniziò alle 13, 30 quando una pattuglia del Che cercò di avvertire un’ altra di ripiegare perché l’esercito boliviano stava spezzando in due, con la sua avanzata, lo schieramento del Che. I pendii scoscesi non consentivano sortite né vie di fuga, quindi non restava che resistere sperando nella notte.
Quando l’esercito avanzò nella gola, il Che decise di ritirarsi, consapevole che con sé recava un gruppo di compagni non più in grado di combattere.
A quel punto, la sua proverbiale generosità e il suo sprezzo per il pericolo gli fecero prendere la decisione di dividere il suo gruppo, cercando di salvare la vita ai malati e ai feriti. Restò a fronteggiare il suo nemico, coprendo la fuga dei suoi compagni, ma l’esercito aveva chiuso il cerchio e usava anche mitragliatrici pesanti, così il Che fu ferito e le sue armi furono rese inutilizzabili. Tre dei suoi compagni restarono a frenare i soldati mentre lui e Willy si diressero verso una altura, forse proprio per alleggerire lo scontro e depistare i soldati. Ma i tre compagni furono investiti da una granata e lui con Willy vennero scoperti e catturati. La favola che il Che si fece riconoscere dicendo “valgo più da vivo che da morto” è una ulteriore mistificazione, in realtà fu Willy che espressamente disse chi era per evitare che fosse ammazzato sul posto. Poi venne chiamato il comandante Prado e i due prigionieri furono portati in una scuola nella frazione di Higuera dove furono rinchiusi in una scuola che allora aveva due stanze adibite ad aule.
Fu il colonnello Anaya a mantenere in vita il Che quella notte, in attesa del suo arrivo il giorno seguente, con un messaggio mandato a La Higuera alle 8 di sera. Il governo boliviano non sapeva cosa fare e chiese immediatamente istruzioni a Washington, in Bolivia allora la pena di morte era stata abolita. Che gli USA o la CIA volessero vivo il Che è una favola smentita da centinaia di documenti, che non possono certo essere sostituiti da qualche incartamento emesso post mortem con vari omissis.
Già dopo il fallimento dell’operazione di sbarco a Playa Giròn, la CIA aveva pianificato di far fuori Fidel e Raul Castro insieme al Che.
A tal scopo, nel 1962 era stato creato a Washington un gruppo speciale per eseguire tale progetto denominato semplicemente “Cuba”, composto da George McBundy, consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale, Alexis Johnson, del Dipartimento di Stato, Roswell Gilpatrick, del Pentagono; John Mc Cone, della CIA e Lyman Lemnitzer dello Stato Maggiore. Come si vede bene, tutto il gotha dell’amministrazione USA era impegnato a neutralizzare la rivoluzione cubana e ad eliminare i suoi principali artefici. Negli anni seguenti l’intento non venne mai meno ma, semmai, fu incrementato con mezzi ulteriori ed ulteriori campi di indagine.
La decisione quindi di eliminare il Che, non fu presa all’ultimo momento, ma era stata programmata da anni, si trattava ora solo di metterla in pratica, una volta accertato che lì in quella scuola ci fosse veramente lui. Quindi già alle 23 dell’8 ottobre, prima che a La Higuera spuntasse l’alba, arrivò in Bolivia al presidente Barrientos dagli USA l’ordine di esecuzione, che doveva essere solo trasmesso a La Higuera ed eseguito. L’amministrazione americana allora era in gran parte preoccupata di poter mostrare al più presto un suo trofeo della lotta al comunismo, in un periodo di grande difficoltà per le spese crescenti e dispendio di vite umane nella guerra del Vietnam, in cui l’escalation militare era pienamente in atto, suscitando proteste sempre più diffuse presso l’opinione pubblica americana. Così il trofeo, come sappiamo, venne poi mostrato ampiamente nel lavatoio di Vallegrande, anche se il governo boliviano cercò disperatamente di far credere che il Che fosse stato ucciso in battaglia e non a sangue freddo, ma, dati i numerosi testimoni, come sappiamo, con ben miseri risultati.
Durante la notte tra l’8 e il 9 ottobre, fuori dalla scuola, vari soldati ubriachi schiamazzarono e insultarono il Che denigrandolo come “mito, mito”..impotente, sembra che cercassero anche di entrare ma furono fermati, tra di loro c’era anche Teran, il suo esecutore che tuttora pare si nasconda in preda agli incubi. Per il resto della notte, il Che conversò con il soldato Huerta che era di guardia, ma la sua testimonianza sul fatto che il Che dopo avergli spiegato gli intenti della sua impresa, lo invitasse a slegarlo e ad aiutarlo a fuggire, non ci pare del tutto attendibile viste le condizioni del Che, impedito a muoversi per la sua ferita alla gamba, e dato che il campo era pieno di soldati che avrebbero immediatamente reagito. Forse quella del Che fu l’ennesima provocazione ironica per mettere alla prova il soldatino boliviano.
La mattina seguente anche la maestra che egli incontrò lì inizialmente prese ad insultarlo, poi però cominciò a discutere con lui, e si persuase che il personaggio che aveva di fronte era radicalmente diverso da quello che le avevano descritto, così decise di dare una sua testimonianza coraggiosa, mettendo anche a rischio la sua vita e la sua reputazione.
Alle 6,30 del mattino del 9 Ottobre, arrivarono in elicottero Anaya e l’agente cubano della CIA che si faceva chiamare Felix Ramos (alias Rodriguez), il quale aveva sostituito nell’elicottero da due posti il capo dell’intelligence boliviana (questo la dice lunga su quanto contasse allora il governo boliviano).
Zenteno Anaya lesse i bollettini militari e poi si diresse con Felix dal Che, parlandogli brevemente. Dopo entrò Felix e gli stessi militari hanno raccontato che pareva che i due si conoscessero, ma non fossero affatto disposti a fraternizzare come lo stesso Felix e certe biografie mistificatorie hanno raccontato. L’agente della CIA cominciò infatti secondo tali testimonianze, ad insultarlo e il Che replicò con disprezzo chiamandolo mercenario e traditore.
Alle 8,30, venne istallato un impianto radiofonico a lungo raggio per inviare messaggi cifrati e si cominciò a fotografare tutto quello che era stato trovato insieme al Che.
A La Paz ormai, nelle prime ore del mattino, era stata già presa la decisione esecutiva e qualcuno aveva già diramato la morte del Che in combattimento, si trattava a quel punto solo di confermarla con il suo cadavere. Venne pertanto inviato un messaggio cifrato all’agente cubano della Cia Felix Ramos con l’ordine di eliminare il Che.
Il soldato Huerta che aveva conversato con il Che durante la notte e gli aveva anche dato una coperta, racconta che lo stesso Felix, a quel punto, entrò nella scuola e gli ordinò di uscire, poi prese il Che per le spalle , lo percosse, gli tirò la barba e gli urlò che stava per ammazzarlo (altro che abbracci e raccomandazioni famigliari come egli stesso ha raccontato con Anderson, e come continua a millantare) Huerta raccontò che, in quanto aveva l’incarico di preservare l’incolumità del Che, entrò e si mise in mezzo, facendo anche cadere l’agente CIA, il quale da terra gli gridò “Me la pagherai presto, boliviano di merda, indio selvaggio, idiota!” A quel punto Huerta stava per colpirlo, ma Selich si mise in mezzo.
La
foto che ritrae Felix con il Che prigioniero, con un presunto scatto poco prima della sua esecuzione, è di dubbia autenticità, basti solo osservare le ombre di Felix Ramos (alias Rodriguez), del Che e dei soldati che vanno in direzioni diverse. Con ogni probabilità, la foto al Che fu scattata al momento della cattura anche perché, prima della sua esecuzione le mani gli erano state legate dietro la schiena, e sovrapposta in seguito, con un fotomontaggio, per mostrare una sorta di trofeo di guerra.
Alle 11 del mattino, la decisione fu presa e si programmò l’esecuzione, l’agente CIA aggiunse solo che l’avrebbe messa in atto con piacere, Anaya chiese quindi a Felix di occuparsene personalmente. Poco dopo, venne portata al Che ed agli altri guerriglieri nella stanza attigua e destinati alla stessa fine, una zuppa di arachidi, dalla maestra che aveva conversato con lui. Tre soldati addestrati dalla CIA si resero disponibili ad eseguire l’ordine e tra di loro vi era Teran, che voleva vendicare alcuni compagni morti ed era stato tra quelli che avevano urlato al Che la notte prima..mito! mito!..in senso denigratorio. Il resto lo ha raccontato lui stesso, aveva ricevuto solo l’ordine di non deturpare il Che in faccia, affinché fosse ben riconoscibile.
Bevve parecchio prima di entrare e fu suggestionato dal Che che pretese di morire in piedi e non seduto sulla sua sedia, lui lo fece alzare, poi arretrò quasi impaurito dal suo sguardo, allora gli altri da fuori gli gridarono: “spara coglione!”..e il Che quasi amabilmente ed ironicamente gli disse.. “Mira bene..lo vedi che non sono un mito ma solo un uomo?” una battuta che evidentemente si riferiva alle grida della notte precedente, l’ultima della sua vita.
E così Teran colpì l’uomo e fece nascere il vero mito. Non si sa bene se il Che morì con quella raffica o venne fatto morire lentamente, con un colpo alla volta, l’ultimo dei quali riservato proprio a Felix, come fu detto al regista Roberto Savio durante la realizzazione del suo
documentario che gli costò l’espulsione dalla RAI ma che, tuttora, realizzato pochi anni dopo la morte del Che, rappresenta il migliore documento storico filmato su quella vicenda.
In ogni caso, da allora il Che, lasciato il mondo terreno ha cominciato a percorrere l’universo della leggenda e dell’epopea, rappresentando per decenni e tuttora il principale punto di riferimento di tutti i movimenti rivoluzionari ed antimperialisti del mondo, tanto che, per la sua “icona”, si è parlato e si parla tuttora di “
seconda vita del Che”
La CIA, a quel punto, data l’enorme popolarità di una figura e di un mito stavolta vero e globale, non ha potuto far altro che cercare di imbalsamarlo e ridurlo a gadget, a fenomeno letterario e romantico, con l’ultima trovata alquanto di pessimo gusto, di assimilare la sua figura a quella di Gesù Cristo, tanto per rilevare che non sarà mai di “questo mondo”. E’ una strategia che perdura ancora oggi, 50 anni dopo il suo sacrificio e che tende a “vendere” la sua immagine in tutti i gusti e in tutte le salse, nascondendo accuratamente ciò che egli scrisse e fece davvero. Tanto che persino alle feste del redivivo PCI, troviamo tuttora le tazzine, i portachiavi, le magliette, le felpe con l’immagine-icona del Che, piuttosto che i suoi libri i quali dovrebbero invece essere ristampati. Ma…quelli più interessanti, non sono stati nemmeno tradotti..
A ripercorrere le tappe del suo pensiero, si rischia di scrivere un libro e non un articolo che, come abbiamo già detto all’inizio, appare già come un misero spiraglio sull’universo..ma sarà il caso di mettere comunque a fuoco alcuni passaggi.
Il Che era un lettore ed uno scrittore spasmodico, ovunque fosse e ovunque andasse, portava con sé sempre carta per scrivere e carta per leggere, tanto che addirittura in Bolivia avrebbe voluto leggere, tra l’altro, l’opera monumentale di Gibbon sulla caduta dell’Impero Romano che aveva chiesto a Debray di procurargli, prima di accompagnarlo nel suo ritorno e dividere così rovinosamente le sue forze che non riuscirono più a ricongiungersi in Bolivia, vero ed unico mastodontico errore di quella impresa che, fino ad allora, aveva pure conseguito degli importanti successi, come alcune vittorie sul campo e la rivolta dei minatori, purtroppo non raggiunti dai guerriglieri, solo perché il Che, che avrebbe dovuto inizialmente recarsi in una sede vicina ad essi, era stato depistatato dal capo del partito comunista boliviano in una delle zone peggiori e più impervie della Bolivia, solo con la scusa che da lì l’Argentina era più raggiungibile e la rivoluzione avrebbe potuto dilagare anche nel suo paese. Altro errore macroscopico, ma giustificabile almeno solo con il fatto che il Che non sapeva nulla del territorio boliviano, e non dette molta importanza alla sede, perché la sua impresa non era mirata a far sorgere una rivoluzione in Bolivia, dato che i contadini, tra l’altro, parlavano una lingua spesso ai guerriglieri incomprensibile e che già in quel luogo vi erano state delle riforme agrarie, ma era stata concepita piuttosto come una scuola di azione rivoluzionaria per tutto il continente sudamericano e avrebbe dovuto, per questo, essere solo una sede di coordinamento per imprese da svolgersi altrove.
La CIA sapeva che il Che era in Bolivia? Inizialmente no, ma sicuramente lo sapeva l’URSS, già da prima che il Che partisse, e con ogni probabilità fu avvertita da Cuba, se non direttamente da Fidel, probabilmente da chi in quel momento era “fraternamente” vicino a lui, che allora era tra i più filosovietici personaggi dell’amministrazione cubana, il quale aveva criticato aspramente il Che al suo ritorno da Algeri, mentre ora..ha avviato le riforme filoccidentali con l’aiuto di vari papi.
La CIA fu avvertita dall’URSS che in quel periodo con gli USA stava raggiungendo degli accordi non tanto di coesistenza pacifica, quanto piuttosto di delimitazione delle reciproche sfere di influenza? Se uscisse un documento a comprovarlo, sarebbe davvero uno scoop, ma non ci sorprenderebbe del tutto, dato che i suoi ordini per il partito comunista boliviano sicuramente partirono prima che il Che arrivasse in Bolivia e contribuirono ad isolarlo completamente soprattutto da ogni rete urbana.
Gli USA, in ogni caso, ebbero quasi da subito, il sentore che il Che operasse in Sudamerica, molto di più di quanto erano riusciti a capire in precedenza sul suo soggiorno africano e postafricano, ma mancò loro la prova effettiva, fino alla cattura di Bustos e di Debray, così da allora si attrezzarono concretamente per eliminarlo. Anzi, c’è il sospetto fondato che proprio l’invio di Debray fosse inserito in una precisa strategia di caccia al “tesoro”, anche perché egli fu accompagnato da un giornalista che con tutta probabilità era una spia.
Abbiamo detto inizialmente che il Che fu la “vittima più illustre del cosiddetto comunismo reale” e in effetti, considerando l’isolamento a cui fu sottoposto già dal suo famoso discorso di Algeri e la sorte che gli toccò sia in Africa che in Bolivia, proprio a causa sia della impreparazione che del depistaggio di coloro che avrebbero dovuto aiutarlo sul campo, di fatto, questa definizione non appare poi così stravagante, anche se essa evidentemente non intende avvalorare la tesi che Fidel lo mandò allo sbaraglio o volle farlo fuori.
Fidel, infatti, “creò” il Che, come personaggio rivoluzionario, sia dandogli l’opportunità di partecipare alla sua impresa cubana, sia dandogli incarichi prestigiosissimi, come la direzione del Banco Nacional, e il Ministero dell’Industria che, di fatto, era anche un Ministero degli Esteri, facendo cioè del Che il principale testimonial e sponsor nel mondo di una rivoluzione che avrebbe dovuto essere più umanista che comunista e che divenne tale, perché allora, alla logica ferrea dei due blocchi geostrategici, nessuno poteva sfuggire anche da non allineato.
Tra i tanti errori commessi da Fidel, sul quale non ci soffermiamo, perché lo
abbiamo già fatto quando morì, ci fu quello di leggere la
lettera di addio del Che quando il Che era ancora vivo ed in Africa, condannandolo così ad un esilio “rivoluzionario” permanente. La famossissima canzone di Puebla uscì in contemporanea, apparentemente celebrativa, ma sostanzialmente come un lamento funebre. Però Fidel non fu mai avverso al Che nel suo internazionalismo, anche se i due avevano due visioni diverse dell’internazionalismo stesso. Per il primo, era un modo per salvare Cuba da un assedio sempre più stringente, in particolare dopo il ritiro delle armi atomiche dall’isola, per il secondo, invece, era una metodologia rivoluzionaria indispensabile e permanente, per combattere l’imperialismo ovunque nel mondo.
Non ci sono documenti o prove che Guevara fosse trozkista oppure filocinese, i cinesi dedicarono alla morte del Che solo un misero trafiletto di giornale e non ci risulta che il Che fosse mai stato un ammiratore di Trozskij nel corso della sua vita, anche se di sicuro aveva letto alcuni dei suoi libri, forse al contrario lo fu di Stalin (sopratutto come salvatore del Socialismo e combattente contro il nazismo, lui era un
appassionato lettore de “I giorni e le notti” sulla battaglia di Stalingrado) ma solo nei primi momenti della sua formazione marxista leninista che ebbe varie ulteriori fasi di sviluppo.
La più cruciale di queste tappe si svolse negli anni del Gran Debate, quando a Cuba si discusse e si decise il destino futuro dell’isola. Durante quel confronto tra economisti che si svolse tra il 1963 e il 1964 e che vide la partecipazione, tra gli altri, di Ernesto Che Guevara, Marcelo Fernández Font, Alberto Mora, Luis Álvarez Rom, Joaquín Infante Ugarte, Alexis Codina, Mario Rodríguez Escalona, Miguel Cossío, Ernest Mandel y Charles Bettelheim, la posizione del Che uscì sostanzialmente perdente.
Si trattava, infatti, in estrema sintesi, allora di decidere se l’economia cubana dovesse andare verso una grande industrializzazione basata sullo sviluppo economico e sociale derivante da incentivi morali più che materiali, oppure se la sua economia dovesse continuare a giovarsi delle importazioni e della esportazioni, continuando a privilegiare la monocoltura, specialmente della canna da zucchero.
La controversia però non si limitò allora alla comodità di autogestione o al sistema di finanziamento, alle relazioni tra stimoli materiali e morali, a questioni di pratica economica come il ruolo del banking, dei costi di produzione, delle relazioni tra le imprese statali , e altri. Il dibattito coinvolse il carattere ed i ruoli della legge del valore e del piano nel periodo della transizione socialista, il problema di una corrispondenza forzata tra il “livello” assegnato alle forze produttive economiche e le relazioni esistenti di produzione o per stabilire la portata del lavoro con la coscienza nella costruzione socialista. Per la prima volta in America, si svilupparono concetti fondamentali del marxismo, dell’economia politica, dei possibili sistemi di gestione economica socialista, messi in relazione con idee più generali della politica economica, in un dibattito tra i leader di un paese socialista ed altri organismi centrali per la sua economia, tra i quali gli economisti teorici noti nell’Europa occidentale.
Il Che in quella occasione attaccò i punti deboli della discussione soprattutto in ambito teorico, riaffermando la grande fiducia indispensabile nelle capacità degli esseri umani di cambiare il mondo senza ulteriori posizioni compromissorie e ponendo come ineludibile la necessità di collegare teoria e pratica, valutando le condizioni specifiche nel contingente ovunque nel mondo, e dicendo esplicitamente “il compito di costruire il socialismo a Cuba deve essere affrontato evitando il meccanismo (di una dottrina economica predefinita) come la peste”.
Iniziò così il suo attacco ad una concezione dogmatica del marxismo leninismo, in nome di una analisi specifica che possa portare a considerare ogni formazione sociale in base alla sua storia da un punto di vista induttivo.
Il Che considerava quindi l’economia della transizione socialista centrale ma non indipendente, era consapevole che non si può sostituire il realismo dell’economia con l’idealismo della coscienza. Comprendeva l’importanza degli sviluppi economici della società e l’urgenza di promuovere efficacemente un modello di sviluppo nuovo basato sulla centralità e responsabilità etica e culturale dell’essere umano, sul governo consapevole dell’economia e non sulle sue astratte leggi economiche
Il Che però uscì sostanzialmente sconfitto da questo dibattito e con tale sconfitta iniziò sia il suo progressivo processo di emarginazione dall’ambito politico ed economico, sia la sua maturazione di proseguire il suo intento rivoluzionario in altro ambito: culturale e internazionale. Cuba, da allora, legò sempre più strettamente le sue sorti economiche all’URSS passando, di fatto, dalla condizione di paese non allineato a quella di paese satellite.
Il Che avrebbe potuto prendere coscienza di tale sconfitta ed emarginazione, e ritagliare per sé un altro incarico che gli sarebbe stato del tutto pienamente congeniale: quello di Ministro della Cultura, egli era a tutti gli effetti un intellettuale organico, avrebbe potuto restare dedicandosi a diffondere ed incrementare oltre che ad allargare la dimensione culturale e popolare dell’isola. C’è anche un documento che prova che il suo intento era anche quello, e per questo, cercava di procurarsi sempre più libri. Ma la sua stoffa rivoluzionaria doveva portarlo altrove.
Non senza, però, levarsi una duplice soddisfazione, quella di portare a compimento, prima con i discorsi e poi con l’azione, la sua tenace ed indefessa lotta contro l’imperialismo di cui, come disse testualmente:
“non ci si può fidare nemmeno che per una inezia”.
I celebri discorsi che pronunciò prima di uscire di scena furono due: il primo
alla Assemblea delle Nazioni Unite l’11 dicembre 1964, contro l’imperialismo statunitense, ne ricordiamo un passaggio cruciale:
“I nostri occhi liberi si aprono oggi su nuovi orizzonti e sono capaci di vedere quello che ieri la nostra condizione di schiavi coloniali ci impediva di osservare: cioè che la “civiltà occidentale” nasconde sotto la sua vistosa facciata una realtà di iene e di sciacalli.
Perché non possiamo chiamare diversamente quelli che sono andati a compiere azioni cosi “umanitarie” nel Congo. Animale carnivoro che si nutre di popoli inermi; ecco a che cosa riduce l’uomo l’imperialismo, questo è ciò che distingue il “bianco” imperiale.
Tutti gli uomini liberi del mondo debbono prepararsi a vendicare il crimine del Congo.
Forse molti di quei soldati, trasformati in subumani dalla macchina imperialista, pensano in buona fede di difendere i diritti di una razza superiore; ma in questa Assemblea la maggioranza è costituita da popoli che hanno la pelle abbronzata da diversi soli, colorata da diversi pigmenti, e che hanno capito perfettamente che le differenze fra gli uomini non vengono dal colore della pelle, ma dal tipo di proprietà dei mezzi di produzione, dai rapporti di produzione.”
E ancora: “Questa epopea che sta davanti a noi la scriveranno le masse affamate degli indios, dei contadini senza terra, degli operai sfruttati; la scriveranno le masse progressiste, gli intellettuali onesti e brillanti che sono cosí abbondanti nelle nostre sofferenti terre d’America latina. Lotta di masse e di idee, epopea che sarà portata avanti dai nostri popoli maltrattati e disprezzati dall’imperialismo, i nostri popoli sconosciuti fino ad oggi, che già cominciano a non farlo più dormire. Ci considerava come un gregge impotente e sottomesso e già comincia ad aver timore di questo gregge, gregge gigante di duecento milioni di latinoamericani nei quali il capitalismo monopolistico yankee vede già i suoi affossatori.
“L’ora della sua rivincita, l’ora che essa stessa si è scelta, viene indicata con precisione da un estremo all’altro del continente. Ora questa massa anonima, questa America di colore, scura, taciturna, che canta in tutto il continente con la stessa tristezza e disinganno; ora questa massa è quella che comincia ad entrare definitivamente nella sua storia, comincia a scriverla col suo sangue, comincia a soffrirla e a morire; perché ora per le campagne e per i monti d’America, per le balze delle sue terre, per i suoi piani e le sue foreste, fra la solitudine o il traffico delle città, lungo le coste dei grandi oceani e le rive dei fiumi comincia a scuotersi questo mondo ricco di cuori ardenti, pieni di desiderio di morire per ‘quello che è suo,’ di conquistare i suoi diritti irrisi per quasi cinquecento anni da questo o da quello. Ora sì la storia dovrà prendere in considerazione i poveri d’America, gli sfruttati e i vilipesi, che hanno deciso di cominciare a scrivere essi stessi, per sempre, la propria storia. Già si vedono, un giorno dopo l’altro, per le strade, a piedi, in marce senza fine di centinaia di chilometri, per arrivare fino agli ‘olimpi’ dei governanti e riconquistare i loro diritti. Già si vedono, armati di pietre, di bastoni, di machetes, dovunque, ogni giorno, occupare le terre, immergere le mani nelle terre che gli appartengono e difenderle con la loro vita; si vedono con i loro cartelli, le loro bandiere, le loro parole d’ordine, fatte correre al vento, per le montagne e lungo le pianure.
E quest’onda di commosso rancore, di giustizia reclamati, di diritto calpestato, che comincia a levarsi fra le terre dell’America latina, quest’onda ormai non si fermerà. Essa andrà crescendo col passar dei giorni; perché formata dai più; dalle maggioranze sotto tutti gli aspetti, coloro che accumulano con il loro lavoro le ricchezze, creano i valori, fanno andare le ruote della storia e che ora si svegliano dal lungo sonno di abbrutimento al quale li hanno sottomessi.
“Perché questa grande umanità ha detto basta e si è messa in marcia. E la sua marcia, di giganti, non si arresterà fino alla conquista della vera indipendenza per cui sono morti già più di una volta inutilmente. Ora, ad ogni modo, quelli che muoiono, moriranno come quelli di Cuba, quelli di Playa Girón; moriranno per la loro unica, vera e irrinunciabile indipendenza.”
Poi fu la volta, l’anno successivo, del suo secondo ed ultimo memorabile
discorso di Algeri che gli fu fatale, perché in esso denunciò apertamente l’URSS e le condizioni diseguali nel rapporto tra quella superpotenza e i suoi paesi satelliti.
Anche in questo caso, riportiamo alcuni passaggi significativi: “La pratica dell’internazionalismo proletario non è soltanto un dovere per i popoli che lottano per un futuro migliore, è anche una ineludibile necessità…Non può esistere il socialismo se non si opera prima un cambiamento nelle coscienze che determini un atteggiamento di fratellanza nei confronti dell’umanità, sia sul piano individuale, in seno alla società che costruisce o ha costruito il socialismo, sia sul piano mondiale, nei confronti di tutti i popoli che subiscono l’oppressione imperialista…
Crediamo che questo sia lo spirito con cui si deve assumere la responsabilità si aiutare i paesi sottomessi, e non si deve parlare di reciproco vantaggio basato sui prezzi che la legge di mercato e le relazioni internazionali impongono ai paesi sottosviluppati poiché lo scambio non è alla pari.
Come si può definire “vantaggio reciproco”, l’atto di vendere a prezzi di mercato le materie prime che costano ai paesi sottosviluppati sforzo e sofferenza immensi, e quello di comprare al prezzo di mercato i macchinari prodotti nelle grandi fabbriche automatizzate di oggigiorno?
Se queste solo le relazioni i paesi socialisti sono, in un certo senso, complici dello sfruttamento imperialista…
I Paesi Socialisti hanno il dovere morale di porre fine alla loro tacita complicità con i Paesi sfruttatori dell’Occidente. Il fatto che gli scambi siano al momento limitati non significa niente…
Non esiste altra nozione di Socialismo se non l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Finché non diventerà realtà, il socialismo rimarrà alo stadio di costruzione, e se, anziché prodursi questo fenomeno, la missione della soppressione rallenta o arretra, allora non possiamo neanche parlare di costruzione del Socialismo…
…Da quando i monopoli si impadronirono del mondo, hanno mantenuto nella povertà la maggior parte dell’umanità, mentre i guadagni venivano divisi tra i paesi più forti. II livello di vita di questi paesi è fondato sulla miseria dei nostri; bisogna dunque lottare contro l’imperialismo per innalzare il livello di vita dei popoli sottosviluppati. E ogni volta che un paese si stacca dal tronco imperialista non solo si vince una parziale battaglia contro il nemico fondamentale, ma si contribuisce anche al suo reale indebolimento e si fa un passo avanti verso la vittoria definitiva”
Tanto era rigorosa la costruzione morale prima ancora che economica del comunismo Guevariano, che lo stesso Che ebbe a dire a chiare lettere: “ El Socialismo econòmico sin la moral comunista no me interesa. Luchamos contro la miseria pero al mismo tiempo luchamos contra la alienacion” Non si può costruire un modello di società comunista ed egualitaria senza al contempo proporre ed attuare un modello di nuova umanità, più integra, lo conferma con quest’altra citazione: “Nosotros socialistas somos mas libres porque somos mas plenos; somos mas plenos por ser mas libres”
Eccola dunque la chiave vera del Guevarismo, esplicitata nel documento-manifesto del 1965
“Il Socialismo e l’Uomo a Cuba”, il suo “canto del cigno” E cioè la necessità di legare la libertà alla giustizia morale prima ancora che sociale.
Il Socialismo del Che si basa sulla integrità ed onestà umana prima ancora che su un astratto modello deterministico di economia, il socialista è più libero quanto più è integro ed onesto (suona un po’ beffardo considerando le sorti del socialismo italiano) e quanto più è integro ed onesto, tanto più può costruire un Socialismo che non sia inquinato dalla ricerca spasmodica dell’interesse e del potere personale e materiale.
Nè Guevara e sotto certi aspetti neanche Castro erano contrari in assoluto agli incentivi materiali, ma ad essi anteponevano quelli morali, nel senso che doveva essere premiata nella costruzione del socialismo non una nomenklatura di potere autoreferenziale, con beni materiali superiori a quelli del popolo (come di fatto è avvenuto più o meno in tutti i regimi comunisti), ma piuttosto una classe dirigente che fosse disposta ad impegnarsi e soprattutto a combattere e a sacrificarsi come se non più di altri nella realizzazione di una società autenticamente rivoluzionaria, realizzando, in primis, su se stessa e a costo della propria stessa vita il modello di “Hombre Nuevo”, di Nuova Umanità che essa va professando.
L’unico patrimonio che Guevara lasciò alla sua famiglia e ai suoi figli furono i suoi libri, per il resto li affidò allo Stato, lui aveva e mantenne solo un paio di divise militari, una da indossare, e una da lavare, più o meno come fa un Monaco Combattente, forse un Ospedaliero, date che le origini di Ernesto Che Guevara erano quelle di un medico che iniziò il suo cammino rivoluzionario come dottore degli ultimi.
Per questo, prima di scomparire o forse di essere messo da parte dall’ambito pubblico, il Che si spese in prima persona, per incarnare tale modello di nuova umanità, lavorando, da Ministro, nei campi, nelle fabbriche e ovunque fosse indispensabile la sua presenza come un comune lavoratore e senza alcuna paga, con il lavoro volontario, di sabato e di domenica, per riprendere poi quello di Ministro negli altri giorni della settimana.
Il rivoluzionario, diceva il Che, non è un settario, un lucido criminale che affonda il bisturi della rivoluzione in un corpo sociale senza alcuna attenzione per i suoi organi anche più fragili, egli è piuttosto un essere umano animato da grandi sentimenti di amore, anche quando questo amore rischia di sembrare crudele.
Tanti misoguevaristi del web tuttora accusano Guevara di essere stato un fucilatore e un criminale, ma anche i suoi biografi più critici non possono che rimarcare il contrario, come fa ad esempio Castaneda il quale ci dice che, anche quando egli diresse il tribunale rivoluzionario a La Cabana: “non ci fu nessun bagno di sangue, né fu sterminata gente innocente , in piccolo o in grande numero. Dopo gli eccessi di Batista e lo sfogo di passioni di quei mesi di inverno è anzi sorprendente il fatto che ci siano state così poche violenze e esecuzioni. E’ vero però che il Che non sentiva forti remore di fronte alle pene di morte o ai processi sommari e collettivi. Era pronto a dare la vita per i suoi ideali e così credeva che dovessero fare anche gli altri” Durante una guerra molti scrupoli umanitari vengono meno, anche i monaci combattenti, di fronte ai loro compagni torturati, decapitati e crocefissi, risposero con le teste dei loro prigionieri scagliate contro i nemici dalla loro artiglieria.
Il Che ci appare dunque come l’ultimo grande Cavaliere dell’epoca moderna, riprese il suo viaggio, dopo la sua testimonianza e la sua lotta sul campo, ma non rinunciò a perfezionare la sua opera letteraria che, per questo, andrebbe letta, studiata e tramandata anche se, una volta sparito dalla scena pubblica, a lungo sparirono anche i suoi scritti non più “politicamente corretti”, in particolare un’opera filosofica ed un’ opera di economia che andrebbero lette in parallelo e considerate le “bozze” di una più completa opera di approfondimento del suo manifesto: “Il Socialismo e l’Uomo a Cuba”.
Scritti a lungo rimasti nel dimenticatoio e solo di recente usciti esclusivamente in lingua originale, solo perché ormai da tempo ne circolavano ampi stralci:
“Apuntes critocos a la Economia Politica”, una critica serrata, punto per punto, al manuale di economia imposto dall’URSS ai suoi paesi satelliti, rivelando tutte le pecche di un sistema viziato fin dalle sue origini e destinato al fallimento perché scletorico e non dissimile, in particolare nella considerazione della legge del valore, sostanzialmente, da quello che si prefiggeva di contrastare, e gli
Apuntes Filosoficos, una serie di appunti scritti da Guevara, su varie opere e filosofi, nel corso di tutta la sua vita, che equivalgono ad un diario di formazione culturale e spirituale.
Le cose più importanti che il Che ci ha lasciato sono in ordine: il suo esempio e i suoi scritti. Se vogliamo dunque celebrarlo degnamente, non possiamo fare a meno di trarre da quell’esempio la virtù necessaria per questo XXI secolo e leggere e meditare continuamente la sua opera letteraria, considerandola però incompiuta.
Oggi purtroppo, invece, si fa l’esatto contrario: si celebra il Che non nel quotidiano, ma solo in occasioni canoniche o in anni ricorrenti a seconda o no che si abbia bisogno di una bandiera o di una icona di riferimento, e non si pubblicano integralmente e abbastanza le sue opere. La casa editrice che ha acquistato, non si sa come e perché, il diritto esclusivo di pubblicare le sue opere in Italia, dato che il Che non chiese mai né per se stesso e né per altri diritti di autore, di fatto, pubblica pochissimo e non traduce né pubblica le opere uscite di recente, con lo scopo esclusivo di impedire ad altri di farlo, per esempio all’editore Massari che tanto si è distinto in passato per la pubblicazione di tali opere e che resta colui che ha pubblicato l’edizione più bella, pregiata e completa del diario del Che in Bolivia, ricchissima di immagini, documenti e testimonianze.
Sono ormai remoti i tempi in cui Feltrinelli pubblicò nel 1969 tutte le opere del Che, allora edite in quattro monumentali volumi reperibili oggi solo nel mercato antiquario e nemmeno nella loro interezza, oppure quelli in cui uscì una loro traduzione di Einaudi con notevolissime pecche. Anche in questo caso, le opere migliori e meglio tradotte restano quelle di Massari, l’unico che oggi concretamente sia ancora capace di rendere omaggio al Che con i suoi scritti e la sua Fondazione Guevara, ricca dei suoi preziosissimi quaderni periodici.
Il Che non ha mai fatto professione di fede religiosa, sebbene visse come un monaco (povero di beni materiali, casto nell’amore famigliare e obbediente alla causa rivoluzionaria) combattente non solitario, ma molto amato dai suoi numerosi e fedelissimi seguaci di ieri, di oggi e di sempre; egli stesso amava scherzare e la sua originalità e grandezza sono date tuttora proprio dalla incredibile mescolanza di inflessibilità morale applicata a se stesso prima ancora che ad altri, fin dai primi giorni delle sue crisi d’asma, e dalla leggerezza della sua costante ironia ed autoironia con frequenti battute sino, come abbiamo visto, fino alla sua morte. Nell’ultima pagina del suo diario è scritto.. “giornata bucolica”.
Così l’insostenibile leggerezza dell’imperativo categorico del Che potremmo sintetizzarla oggi, a 50 anni dalla fine della sua prima vita, dato che la seconda è ancora in corso, con l’ultima lettera ai suoi genitori ed in particolare a sua madre a cui era legato da un profondissimo amore. Praticamente la sua lettera di addio, meno nota ma forse ancor più eloquente e significativa di quella scritta a Fidel.
Luglio 1965
Cari vecchi
Una volta ancora sento i miei talloni contro il costato di Ronzinante: mi rimetto in cammino col mio scudo al braccio.
Son passati quasi dieci anni da quando vi scrissi un’altra lettera di commiato. A quanto ricordo, mi lamentavo di non essere un miglior soldato e un miglior medico; la seconda cosa ormai non mi interessa, come soldato non sono tanto male.
Nulla è cambiato nell’essenziale, salvo il fatto che sono molto più cosciente, il mio marxismo si è radicato e depurato. Credo nella lotta armata come unica soluzione per i popoli che lottano per liberarsi, e sono coerente con quello che credo. Molti mi diranno avventuriero, e lo sono; soltanto che lo sono di un tipo differente: di quelli che rischiano la pellaccia per dimostrare le loro verità.
Può darsi che questa sia l’ultima volta, la definitiva. Non lo cerco, ma rientra nel calcolo logico delle probabilità. Se così fosse, eccovi un ultimo abbraccio.
Vi ho molto amati, ma non ho saputo esprimere il mio affetto; sono, nelle mie azioni, estremamente drastico, e credo che a volte non abbiate capito. Non era facile capirmi, d’altra parte: credetemi, unicamente, oggi.
Ora, una volontà che ho lustrato con amore d’artista sosterrà due gambe molli e due polmoni stanchi. Lo farà.
Ricordatevi di questo piccolo condottiero del secolo XX. Un bacio a Celia, a Roberto, a Juan Martin e a Pototìn, a Beatriz, a tutti. A voi un grande abbraccio di figliol prodigo e ribelle.
Ernesto”
Lo scrisse anche ai suoi figli, la prima virtù di un rivoluzionario è la sua cultura, che diventa, nell’impegno collettivo, coscienza e cultura politica, qualità essenziale che manca paurosamente ai nostri fantocci e fantoccini che sono o aspirano al potere, nei vari partiti contenitori, simili a buste di plastica.
“Crezcan como buenos revolucionarios. Estudien mucho para poder dominar la técnica que permite dominar la naturaleza. Acuérdense que la Revolución es lo importante y que cada uno de nosotros, solo no vale nada. Sobre todo, sean siempre capaces de sentir en lo más hondo cualquier injusticia cometida contra cualquiera en cualquier parte del mundo. Es la cualidad más linda de un revolucionano.“
Ricordiamo dunque anche noi questo ultimo Condottiero, Cavaliere, rivoluzionario combattente, votato alla causa degli ultimi, che tuttora ci invita a fremere di indignazione ogni qual volta che qualcuno è schiaffeggiato dall’ingiustizia, per essere suo compagno e cavalcare con lui oltre lo spazio ed il tempo.
Alziamo lo sguardo al cielo, in una notte stellata in religioso silenzio, di fronte all’immagine più eloquente che possiamo avere dell’eterno e dell’infinito, forse potremo scorgere una stella che balla goffamente il tango, e che ci invita a sorridere e a combattere ancora. Allora anche il cielo si unirà a quel sorriso e ci apparirà meno lontano.
Hasta la victoria, siempre!
Patria o muerte!
Venceremos!
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.