Il socialismo è tornato, per il sommo dispiacere di coloro che lo avevano dichiarato morto e sepolto alla “fine della storia” negli anni ’90. Quando il New Republic, a lungo l’house organ del neoliberismo americano, arriva a pubblicare un articolo dal titolo “Il socialismo di cui ha bisogno adesso l’America“, è chiaro che qualcosa è fondamentalmente cambiato.
Il neoliberismo temperato rappresentato da Tony Blair e Bill Clinton […] ha esaurito la propria attrattiva. E non solo nel mondo anglofono. In tutta Europa, nuovi movimenti, a sinistra, sono emersi per sfidare o spodestare i partiti socialdemocratici ormai screditati dalle politiche di austerità del decennio passato.
Il sostegno per il socialismo è particolarmente forte fra gli under 30, la cui esperienza economica è stata dominata dalla crisi finanziaria globale e dal successivo decennio di stagnazione economica e disuguaglianze sempre più profonde. L’esempio più significativo è rappresentato dalle recenti elezioni britanniche, dove Jeremy Corbyn ha conquistato più del 60% degli elettori fra i 18 e i 25 anni. Anche per Bernie Sanders i sostenitori più entusiasti sono rappresentati dai giovani.
Per la maggioranza dell’attuale classe politica, formatasi negli ultimi decenni del XX secolo, la superiorità del mercato sui governi è una convinzione così profondamente radicata che non è nemmeno più vista come una convinzione. Si tratta piuttosto di una questione di “buon senso”, una cosa che “tutti sanno”. Qualunque sia il problema, la risposta è sempre la stessa: abbassare le tasse, privatizzare e fare riforme orientate al mercato.
Prevedibilmente, le persone stanno cercando un’alternativa; e molti guardano al passato, ai decenni del dopoguerra in cui la ricchezza era diffusa. Alcuni si sono rivolti a una tribale politica della nostalgia (Make America Great Again […]). Ma è evidente che quello rappresenta un vicolo cieco. […]
Ma cosa intendono i socialisti di oggi con “socialismo”? […]
La cosa più evidente è che il socialismo implica un rifiuto senza riserve del sistema del capitalismo finanziario […] emerso dal caos economico degli anni ’70. Il neoliberismo ha enormemente arricchito l’1%, e in particolar modo il settore finanziario, mentre ha causato insicurezza economica e standard di vita stagnanti per la maggior parte della popolazione. Questo è ovvio negli Stati Uniti, ma le stesse tendenze emergono nelle economie di mercato di tutto il mondo.
Ma, soprattutto, il socialismo contemporaneo ripudia il capitalismo vagamente umanizzato spacciato dalla Terza Via; rompe con quei socialdemocratici e liberali che hanno abbracciato, o si sono arresi, all’austerità in seguito alla crisi […]. D’altra parte, però, non emerge nessun entusiasmo per un’economia pianificata come quella dell’ex-Unione Sovietica e della Cina di Mao. […]
Nel modo in cui viene usato oggi, il termine socialismo […] comunica un atteggiamento che potrebbe essere descritto come “socialdemocrazia senza remore” o, nel contesto degli Stati Uniti, come “liberalismo con una spina dorsale”. […]
Dopo decenni in cui il focus è stato sulla critica del neoliberismo, il compito di pensare ad alternative positive e propositive è urgente, ma gli sforzi in questa direzione sono appena iniziati. Il dibattito sulle politiche economiche da un punto di vista socialista è confinato a una manciata di piccole pubblicazioni, come ad esempio Jacobin Magazine […]. Altrettanto significativa è la rinascita della sinistra nell’economia mainstream, rappresentata da Paul Krugman, Thomas Piketty e Joseph Stiglitz. Nonostante non siano esplicitamente socialisti (il blog di Krugman è intitolato “La coscienza di un liberale”), questi economisti hanno portato l’attenzione su problemi come disuguaglianze e disoccupazione e sulle politiche progressiste con cui rispondervi.
Questi, però, sono solo i primi passi. Per sviluppare una seria alternativa socialista, abbiamo bisogno di guardare indietro, al periodo socialdemocratico degli anni ’50 e ’60, e avanti, con la prospettiva di una genuina sharing economy basata su internet e su altri progressi tecnologici.
La metà del XX secolo ha rappresentato un periodo unico di prolungata crescita economica e ricchezza ampiamente diffusa e condivisa, garantite da una gestione macroeconomica keynesiana. […] In un contesto simile, la distribuzione degli utili fra salari e profitti, e fra i lavoratori, tende naturalmente verso una maggiore uguaglianza. Al contrario, come abbiamo visto sin dagli anni ’70, quando i governi sono guidati dalla necessità di soddisfare i mercati finanziari, il risultato inevitabile sono le disuguaglianze in costante crescita. La prova più evidente è l’aumento dei redditi per l’1% più ricco, come documentato da Piketty e altri.
Il successo dello stimolo keynesiano subito dopo la crisi globale e i risultati disastrosi dell’abbraccio con l’austerità dopo il 2010 dimostrano come la gestione economica keynesiana sia più vitale che mai. Andando oltre la gestione della crisi, i governi socialisti riprenderebbero l’impegno verso la piena occupazione e la consoliderebbero attraverso politiche che […] assicurerebbero la disponibilità di un lavoro a tempo pieno per chiunque sia stato disoccupato per un periodo minimo. […]
La combinazione di un lavoro garantito e un reddito di base universale libererebbe i lavoratori dalla dipendenza verso i datori di lavoro. Ma questo sarebbe fattibile solo se la società potesse assicurare una produzione adeguata di beni e servizi essenziali, senza dipendere dai desideri della grande industria.
Il primo passo in questa direzione è resuscitare un termine che era ampiamente utilizzato e che è ancora pertinente […]: l’economia mista. […] In quel contesto, il settore pubblico forniva le infrastrutture – come elettricità, acqua e collegamenti stradali – e i servizi alla persona – come salute e istruzione. […] Il mercato, invece, forniva ai consumatori i beni […] assieme a un’ampia gamma di altri servizi.
La spinta alla privatizzazione, iniziata con la Thatcher negli anni ’80, era basata sulla premessa che la proprietà privata e la competizione di mercato avrebbero portato a risultati migliori rispetto a quelli ottenuti dal pubblico. […] Le privatizzazioni hanno prodotto alcuni successi. […] Ma molti di più sono stati i fallimenti disastrosi. […] In sostanza, i monopoli pubblici sono stati rimpiazzati da monopoli privati e da oligopoli. Gli investitori e i top manager se la sono cavata bene, mentre i lavoratori e i consumatori hanno perso.
Le persone hanno da tempo perso le speranze nelle promesse legate alle privatizzazioni e supportano invece le rinazionalizzazioni. Tuttavia, come con il mercato del lavoro, non possiamo semplicemente resuscitare l’economia della metà del XX secolo.
Prima di tutto, i cambiamenti tecnologici hanno mutato radicalmente la struttura dell’economia e della società. Nell’economia industriale di metà del XX secolo, un ruolo centrale era giocato dal manifatturiero […]. Invece, l’economia del XXI secolo è dominata dai servizi – sanità, istruzione e telecomunicazioni – che richiedono differenti forme di organizzazione economica.
Secondo, la metà del XX secolo era un periodo in cui l’attività economica […] era nettamente separata dall’attività non-economica […]. Queste distinzioni nette non sono più sostenibili. Ad esempio, il valore economico di internet dipende interamente sui suoi contenuti, molti dei quali […] sono prodotti dagli utenti gratuitamente, piuttosto che per un ritorno economico.
Per reimmaginare un’economia socialista del XXI secolo, dobbiamo prendere in considerazione una più ampia gamma di forme di attività economica rispetto a quelle dell’economia mista del XX secolo. Queste includono: la grande industria, le piccole imprese, aziende pubbliche, servizi pubblici non di mercato, organizzazioni non profit e non governative, produzione domestica.
Sotto il capitalismo finanziario, il modo più comune di fornire beni e servizi è tramite la grande industria […], cresciuta a spese delle piccole imprese e attraverso una concentrazione del mercato. Al contempo, le riforme del mercato del lavoro hanno ridotto il potere contrattuale dei lavoratori e aumentato quello dei padroni. Questo effetto combinato ha portato a un aumento della concentrazione di potere e ricchezza, stagnazione dei salari e crescita economica lenta. Anche l’OCSE lo ha riconosciuto.
Un programma socialista consegnerebbe meno potere economico alla grande industria e ne darebbe di più ad altre forme di organizzazione. […] Questo implicherebbe, in parte, rovesciare totalmente il programma neoliberista di privatizzazioni e di commercializzazione. Attività su larga scala ad alta intensità di capitale con poco spazio per la concorrenza, come la fornitura di infrastrutture, tornerebbero in mano pubblica. […]
L’idea di un’economia socialista con accesso incondizionato al reddito di base e una fornitura di servizi gratuiti molto più ampia può sembrare utopica. Ma dopo il fallimento neoliberista, una prospettiva utopica è quello di cui c’è bisogno. […] I socialisti hanno sempre visto le lotte politiche a breve termine come parte di un progetto a lungo termine per migliorare la società. […] È anche per questo che il termine ha mantenuto il proprio fascino durante i decenni di trinceramento neoliberista. I partiti socialdemocratici e liberali, compromessi dalla loro accettazione – o abbraccio – del neoliberismo, devono rompere in maniera definitiva con il passato recente. Sposare esplicitamente il socialismo renderebbe questa rottura chiara.
- Traduzione dell’articolo di John Quiggin pubblicato sul Guardian con il titolo “Socialism with a spine: the only 21st century alternative” (8 ottobre 2017).
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.