Sulla “Teoria della classe disagiata”: una recensione e una critica sociale

Teoria della classe disagiata è un saggio imprescindibile per comprendere la situazione sociale dei nati negli anni ’80, per cui bisogna dire un enorme grazie all’autore Raffaele Alberto Ventura, noto anche per essere il fondatore di Eschaton, al di là di tutte le critiche che si possan fare al libro.

Questa è la premessa doverosa di questa mia recensione che vorrebbe porre anche una critica sociale alla sua teoria.

Il saggio parte con questo elemento di valutazione.

L’Italia è un paese in fase di deindustrializzazione che non ha più bisogno di un solido sistema nazionale di istruzione, perché i posti di comando sono stati già assegnati, vengono sfornati da poche università private e al di là dell’industria dell’intrattenimento c’è poco o niente.

Parafrasando Caterina di Boris “la ristorazione è l’unica cosa seria rimasta in Italia

Purtroppo i trentenni sono stati progettati male come i Betamax e sono stati di conseguenza esclusi perciò nasce il fenomeno della proletarizzazione degli intellettuali, ai quali i laureati, invece di prendere atto, rispondono con uno spreco ulteriore di proprie risorse, facendosi la guerra tra loro per accaparrare quei pochi posti rimasti, svilendo il valore del lavoro culturale e investendo tutte le loro finanze per accaparrarsi quei beni posizionali vebleniani che servono per competere in questa corsa.

Questo è il riassunto veloce del saggio. Ora proverò ad andare ad analizzarlo.

Il principale errore dell’autore è il focus esclusivo sui laureati che acquistano beni posizionali per non scendere nella scala sociale.

Sarebbe stato più corretto un focus su tutti i 30enni, i quali sono tutti in competizione per ad acquistare beni posizionali, lottano tutti per accaparrarsi una posizione occupazione di sopravvivenza e un ruolo all’interno dei circuiti divertentistici dell’industria dell’intrattenimento.

Il focus di Ventura è dichiaratamente ristretto ai wannabe laureat e metropolitani, quando la realtà che descrive colpisce in verità tutti i 30enni italiani, anche quelli con la terza media e che abitano a Castel Sant’Elia.

Nella definizione di classe disagiata, la grande confusione di Ventura sta nel fatto di mischiare 4 fattispecie sociali di trentenni (anzi tre le dimentica a proposito).

Fattispecie numero 1

il wannabe che tarda deliberatamente a inserirsi nel mondo del lavoro, vive a casa con i genitori fin quasi alle soglie della pensione e costituisce oggettivamente un peso per la società (figura tipica di aree metropolitane).

Fattispecie numero 2

Quello che è stato costretto a studiare perché era bravo a scuola, ma non era inserito nei circuiti che contano ed è costretto a marcire nella disoccupazione, perché i genitori non possono imbucarlo in qualche posto garantito o perché è troppo bravo e preparato (o meglio è troppo retrogrado il tessuto economico in cui vive).

Si parla di figure difficilmente assorbibili sia con lavori impiegatizi che con lavori umili. È quello che ha sicuramente più risentimento, e  può decidere di continuare o meno nella coltivazione delle sue velleità culturali.

Fattispecie numero 3

Il plurilaureato che di fronte al fatto che mai sarebbe stato assunto per fare lo storico dell’arte, si è adattato a fare il cameriere per partecipare comunque al circuito bovarista e divertentistico, e tutto sommato ci è riuscito. Una figura che potrebbe quasi essere un sottogruppo della prima fattispecie.

Fattispecie numero 4

il diplomato o il terzamedista che vuole comunque partecipare alla generazione di plusvalore artistoide e divertentista ma che comunque ha difficoltà a trovare un lavoro che gli permetta di stabilizzarsi. La società stimola anche loro nella produzione artistica, ma Ventura se ne dimentica.

Il primo gruppo voleva bovarizzarsi, il secondo, il terzo e il quarto ne sono stato costretti ma tutto sommato lo hanno accettato di buon grado.

A tal proposito come sostiene il filosofo Claudio Bazzocchi in un recente intervento sul suo profilo facebookil mondo del compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro è stato rifiutato dai ceti subalterni in nome di una vita meno costretta dai rigidi schemi del welfare e del capitalismo societario e quindi più creativa, più libera a partire dal luogo di lavoro. Giusto, sbagliato, vero, non vero, questo è stato il sentimento che ha trovato nelle promesse del neoliberalismo una risposta che continua a essere tuttora egemonica nell’immaginario di milioni di persone.”

La seconda critica che posso fare al saggio di Ventura è la supina accettazione della deindustrializzazione italiana iniziata 25 anni fa, dello status quo, irrorata di critica al keynesisimo e alla programmazione economica primorepubblicana.

Non viene mai citata la “vicenda” mediatico giudiziario di Tangentopoli, e francamente non si può parlare di crisi economica italiana senza un’attenta ed eretica analisi delle vicende di Mani Pulite.

Ventura accetta lo status quo e se ne compiace.

Non risponde sufficientemente sui motivi per cui i posti sono sempre meno, o meglio fornisce una sua interpretazione, e si focalizza sui lavoratori culturali, dimenticando completamente i lavoratori manuali, i quali con la filosofia user generated content di massa fanno parte ormai anche loro del circuito di produzione culturale.

Pur spiegando le motivazioni per cui i produttori culturali di successo sono una casta arroccata come non mai (nonostante la molteplicità degli attacchi alla cittadella), e lo fa giustamente sviscerando i meccanismi della platform economy (che è modello di business di Amazon Air BnB, Uber), non pone l’accento sui loro meccanismi di cooptazione ossia su come si può entrare a far parte di quel giro.

Ventura fa una critica spietata, che secondo me è il vero punto di forza della trattazione, dei motivi sovrastrutturali della crisi culturale che ha portato alla nascita della classe disagiata.

Fattori, che nella mia modesta interpretazione, sono anche la base sovrastrutturale dell’accettazione da parte dei ceti subalterni della deidustrializzazione del Paese.

Ventura mette all’indice la mentalità sessantottina della morte dell’autorità, dell’indisciplinatezza come virtù, della negazione della finitezza e della complicatezza dell’uomo per cui basta la tecnica a sanare le contraddizione umane e politiche dei popoli.

Ottimo anche il focus sull’educazione di noi nati negli anni ‘80, trattati come bambini che possedevano aprioristicamente dei caratteri speciali, sulla corsa all’autorealizzazione del sé, sul non accontentarsi mai.

A questo si aggiunge la critica durissima e necessaria del paradigma operaista e post operaista per cui “L’ideologia lavorista del “lavoro che rende liberi” e che “nobilitava” moriva definitivamente nel cervello e nei cuori di un’intera generazione che al “diritto al lavoro” preferiva la fine del lavoro salariato ed il diritto alla felicità.

A questo punto vorrei citare due miei maestri del pensiero e di azione, Riccardo Lombardi e Rino Formica.

Il primo nella sua definizione di società diversamente ricca indicava le via del: “Vogliamo un diverso tipo di benessere, che domanda più cultura, più soddisfazione ai bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso.” Quindi non la fine del lavoro, ma il lavoro nobilitante e nobilitato che permetteva non tanto al figlio dell’operaio di diventare dottore, ma al figlio dell’operaio di diventare uomo libero e di cultura.

Sulla generazione dei sessantottini e dei settantasettini inserisco una citazione recente di Rino Formica che anticipa un concetto sul quale mi soffermerò più tardi:

Siamo stati cattivi maestri dei nostri figli. Abbiamo voluto metterli al riparo delle nostre amarezze, dalle dure esperienze di una maturità senza giovinezza, li volevamo giovani e liberi per un periodo lungo e senza fine. Era un modo per poter vivere la nostra mancata giovinezza.”

Tornando alla classe disagiata e alla citazione di Bazzocchi, notiamo che l’antica piccola e media borghesia e altri ceti subalterni hanno accettato e metabolizzato ormai da tempo il paradigma dell’universalizzazione del lavoro con le caratteristiche delle mansioni della classe cognitiva.

Ossia ogni lavoratore doveva avere le caratteristiche del lavoratore cognitivo: intraprendenza, gavetta, intuito, autoimprenditorialità.

Questo ha portato per esempio a difendere più di buon grado le esigenze del brillante ricercatore “cervello in fuga” piuttosto che quelle del compagno delle elementari con la terza media che fa l’operaio.

La classe disagiata accettando questo campo da gioco ha creato in primis un inferno culturale per i lavoratori, in quanto esistono solo il talento, la creatività e l’intraprendenza e non ha più cittadinanza ideologica “la ricerca della garanzia”.

Viene vissuto quasi come vergognoso il rivendicare il diritto al cartellino, alla garanzia, al riposo, alla “sana” inefficienza comunitaria, a quello che Gobetti chiamava “parassitismo della solidarietà”.

In questo obbligo creativo e intraprendente che travalica nord e sud e accomuna una generazione, i consumi posizionali sono di massa, non solo del grafico che vuole fare il grafico. Tutti oggi ascoltano indie, tutti vogliono frequentare i giri giusti, anche il compagno di classe che fa l’idraulico, tutti vogliono essere creativi.

D’accordo che l’errore stia proprio nel pensare che cercare il proprio posto speciale nel mondo sia un obbligo sociale. Uno può anche cercare un posto normale, ordinario, da ragionier Filini, ma nell’Italia di oggi anche questo è impossibile

L’autore sembrerebbe proporre il “Più Filini meno Steve Jobs” (concetto a me molto caro, basta leggersi cosa faccio dire al mio alterego letterario Oberdan si Lamentava, sì anche io coltivo le mie velleità artistiche) quando in realtà, rimanendo in personaggi fantozziani, propone un “Più Franchino Meno Steve Jobs”.

Il “Più Filini Meno Steve Jobs” presupporrebbe che i giovani borghesi italiani studiassero per ambire ad essere luogotenenti di Adriano Olivetti o Enrico Mattei, invece Ventura propone il “Più Franchino Meno Steve Jobs” come mera decrescita culturale e accettazione supina di sessioni di caccia al pesce ratto.

Definire la classe disagiata come classe è troppo, o meglio, non è classe nel senso marxista, l’unica classe presente sono i vittoriosi che stanno nei famosi “pochi posti” e hanno coscienza della loro essenza di classe.

La cosiddetta classe disagiata è un’accozzaglia di individui, per dirla alla Fusaro siamo “all’atomistica liberale degli io irrelati”.

Non è classe perché manca ogni preparazione o ogni volontà protesa alla conquista del potere.

Non per gusto del potere, ma per far funzionare meglio le cose, per creare un sistema più giusto ed efficace (afflato di base di tutti i movimenti operai e piccolo borghesi e quindi antiliberali).

Le quattro fattispecie, descritte da me all’inizio del pezzo, cercano di sfuggire in qualche modo alla vacua insensatezza dell’Io con la ricerca spasmodica del godimento illimitato quando va bene, o con la depressione quando va male.

Tornando ai primi tre gruppi sociali, se gli intellettuali non si pongono come classe o non si inseriscono nella connessione sentimentale con alcuni strati precisi della popolazione, non hanno senso di esistere.

Quindi l’attualità dei lavoratori culturali è questa: o sei cooptato nei circoli dei dominanti oppure non esisti, quindi sei condannato all’estinzione.

Non esisti perché non sei in grado di connetterti e dirigere una battaglia egemonica per far emergere il “nuovo” nel senso gramsciano.

Anzi le tre fattispecie di esclusi, talvolta rappresentano l’esercito di riserva delle classi dominanti pronti ad accusare tutti gli “altri sconfitti della globalizzazione” di anafabetismo funzionale, rossobrunismo, fascismo, razzismo ecc.

Ventura a pag 64 definisce la classe disagiata come “il residuo umano lasciato dalle crisi sovrapproduzione nel momento in cui non è più possibile finanziare il consumo improduttivo” che si esprime politicamente con quella che Costanzo Preve indicava come “la differenza fra il liberale normale e l’anarchico disobbediente è che il liberale è disposto a pagare per consumare, mentre l’anarchico disobbediente vorrebbe consumare senza pagare, e chiama questo comunismo”.

Quella che Ventura chiama “classe disagiata” e che io chiamerei “massa atomizzata desiderante” ha un altro trait d’union, ovvero il profondo antigramscismo.

La non volontà di diventare classe dirigente, ma bearsi di una presunta superiorità culturale; riadattando quanto dice l’autore “se ascolti musica indie norvegese anni ‘80 non sei superiore a chi ascolta neomelodica napoletana”.

Questa “superiorità” esprime una sorta di egemonia culturale della non volontà di creare egemonia culturale, preparando così il terreno alla devastazione di questo Paese.

Classe che non vuole emergere e ne è fiera, e questa cosa deriva dal ‘77 e siccome in “Teoria della classe disagiata” si fanno molti riferimenti letterari, reputo che questo processo culturale fosse già ben descritto nel romanzo ”Vogliamo tutto “ di Nanni Balestrini.

Quello che non afferma mai l’autore, ma ci gira soltanto intorno, che secondo la mia opinione è il punto vero della questione, è che gli esclusi disagiati non hanno alcun afflato egemonico per la conquista del potere (l’unico che potrebbe salvarli) perché sono troppo impegnati alla ricerca della propria felicità e perché la generazione dei nati tra i ‘40 e i ‘60 ha eliminato ogni luogo della mediazione politica ed economica, ogni luogo che aveva permesso storicamente l’avvio di una grande fase di mobilità sociale e di industrializzazione del Paese.

Il ciclo è questo:

  1. si deindustrializza il Paese e se ne distruggono i corpi intermedi
  2. le classi subalterne accettano il processo e spingono per la ricerca della loro felicità attraverso il circuito divertentisco dell’intrattenimento
  3. resisi atomi alla ricerca del godimento illimitato, non sono in grado di organizzarsi e non hanno più i luoghi politici, economici e sociali per farlo
  4. non pensano più che possano esistere soluzioni politiche ed egemoniche

quindi il lavoro culturale non viene più messo in piedi per fare del bene alla società, semmai ci si limita ad intrattenerla con i meme per la propria autorealizzazione (bellissimo il pezzo del saggio sulla produzione memetica), non certo per creare un mondo migliore.

Per questo il lavoro culturale è vissuto come un’opportunità non come un qualcosa che debba garantire lo sviluppo della società, il lavoro culturale e politico non è più visto come servizio agli altri ma solo come realizzazione di se stessi.

In Italia manca una classe come quella di Ibn Khaldun che sappia fare un discorso serio sul perché ormai in Italia sia saltata la asabiyya ed ogni sua ricerca .

La asabiyya è definita a pagina 61 come “la capacità di autorganizzarsi, di operare collettivamente, di cooperare invece di bruciare ingenti risorse nella lotta per il prestigio”.

Le risposte che fornisce Ventura non mi soddisfano appieno, perché non è affatto vero che i posti sono pochi, ma manca la capacità di assaltarli, democratizzarne l’accesso e soprattutto manca qualcuno che la smetta di trattare la cultura come un prodotto qualsiasi, come un bene posizionale.

La cultura è quella cosa che muove il mondo e le idee.

Tra l’altro non solo non è vero che i posti da grafico, da pittore, da scrittore, sono pochi, ma una realtà che Ventura non vede è data dalla miriade di 30enni di oggi, per quanto impegnata nella lotta per i beni posizionali, si accontenterebbe di un posto da impiegato catastale o da personale ATA.

Il problema, come ricordavo sopra con le parole di Bazzocchi, è che i ceti subalterni hanno rifiutato il paradigma keynesiano e la lotta gramsciana per l’egemonia, abbracciando tutte le storture culturali e politiche del ‘68 e del ‘77.

Ventura che vorrebbe salvare i disagiati, facendogli prendere coscienza di classe, ovvero del fatto che hanno preteso troppo e dovrebbero quindi abbassare le loro aspettative, fa però lo stesso errore della classe disagiata.

Pur criticando aspramente il ‘68 culturale, in Ventura il keynesismo è una bestemmia ideologica iscrivendosi così a tutti gli effetti tra gli autori there is not alternative.

Non c’è alternativa allo stato di cose presenti ed accettare l’impoverimento è l’unica cosa che si può fare.

E lo sostiene con una tesi al di fuori della grazia di Dio, ossia che il capitalismo si stia contraendo. Che ci sia una fase di stagnazione simile a quella di fine ‘800, lo sostiene anche Gianfranco La Grassa, ma un conto è stagnazione, un conto è contrazione.

Io sono un laureato in economia aziendale, quindi non capisco nulla di economia politica, ma parlare di caduta tendenziale del saggio di profitto, in un mondo in cui le corporations sono più “ricche” degli Stati Nazionali, mi sembra veramente assurdo.

Come è strano parlare di contrazione, quando mai come oggi è alto il divario tra salari dei lavoratori e produttività del lavoro.

Poi sempre rimanendo in canoni macroeconomici, Ventura fa il classico (anzi neoclassico) errore di trattare il debito pubblico di uno Stato come fosse il debito privato di un’azienda.

Inoltre di quale classe disagiata parla Raffaele Alberto Ventura? Di quella europea? Di quella italiana?

La lettura sembrerebbe sottointendere quella italiana, e allora perché l’autore non analizza le politiche economiche che hanno impoverito l’Italia, le politiche che ci hanno fatto abbandonare il virtuoso ciclo di Partecipazioni statali in settori strategici + miriade di pmi a corollario?

Perché non dice che in Italia, secondo i canoni della sua disquisizione economica, le cose potevano andare male invece sono andate peggio?

Perché non parla delle privatizzazioni selvagge, della morte dell’IRI, come causa di un aggravamento di una crisi che secondo la sua trattazione sarebbe avvenuta naturaliter?

Perché il focus sull’Italia è solamente accennato?

Alla fine dell’articolo proverò a dare una spiegazione.

Il saggio ha il merito di aver delineato i problemi della classe disagiata, ma scambia le cause con gli effetti. La corsa alla scolarizzazione è causata non da una smania di diventare archistar, ma dalla contrazione macroeconomica della macchina industriale (dovuta a precise scelte della classe dirigente italiana, ma Ventura sembra non ricordarlo) a cui si risponde sperando che l’arricchimento delle proprie competenze aiuti a sopravvivere.

Questa corsa alla sopravvivenza implica già un’aprioristica accettazione di un livello di reddito inferiore a quello dei propri genitori. Un livello minimo che permetta però l’acquisto dei beni posizionali in modo da non essere emarginato (ma l’acquisto dei beni posizionali riguarda ormai anche il tuo compagno di classe delle elementari che fa l’idraulico da quando aveva 16 anni).

Nel suo slancio di critica al diritto allo studio, che non farebbe altro che creare una generazione di choosy e bamboccioni con la pretesa addirittura di cercare dei mezzi di sopravvivere, si dimentica l’unica critica élitaria che avrebbe senso.

Con l’incremento della scolarizzazione di massa diminuiscono i pensatori veri e puri, gli uomini di cultura di rottura, i giganti del pensiero, perché come sosteneva Costanzo Preve “L’incredibile novità del nostro tempo è che oggi gli intellettuali sono stupidi”.

Ventura intuisce i meccanismi illusionistici della platform economy che esprime il sogno della voce a tutti, dello spazio per tutti e che invece è la posa plastica della cittadella arroccata che ha la potenza devastante di eliminare chi è fuori dal giro nonostante le promesse di disintermediazione.

La scolarizzazione di massa ha messo tutti in concorrenza perché non esiste più la mediazione degli istituti di cultura, delle accademie,o in parole povere la maestra e la prof che ti dicevano “Mario va all’Ipsia, Giovanna allo Scientifico”, o per rimanere al 1968 l’esponente del clero che manda Mario Capanna a studiare alla Cattolica di Milano.

Su questo l’autore ha ragione, ma non fornisce né immagina soluzioni alternative, e questo sì che è spreco di risorse intellettuali.

Tornando alle parole di Rino Formica, non si può far altro che notare che la generazione dei nati nei ‘40 e nei ‘50 ha creato un mondo che garantisse la loro eterna giovinezza, avvelenando i pozzi, non soltanto impedendo la mobilità sociale per le generazioni future ma facendo cadere sulle stesse i loro fallimenti, ovvero con la creazione di una struttura ideologica impermeabile al cambiamento, criminalizzando chiunque pensasse fuori dal recinto.

Tu stai in quel recinto, ma nella fortezza ci siamo noi e i nostri figli, voi al massimo potete fare i servitori della gleba, anzi ci dovete ringraziare che vi permettiamo ancora di partecipare ai circuiti del consumo e vi facciamo leggere qualche libro.

Hanno reciso la possibilità di assaltare quei feudi, perché hanno reso la cultura un mero prodotto di consumo.

Tutti gli strumenti culturali organizzativi per fare il salto egemonico non esistono più, ma soprattutto non c’è alcun interesse da parte della classe disagiata di crearne di nuovi, perché tutto sommato questa situazione è stagnante e non dispiace.

In questo Raffaele Alberto Ventura ha ragione: quel surplus non ha nessun tipo di sbocco ed è in via d’estinzione

Quel surplus formativo non basta per migliorare la propria condizione, perché “non basta avere ragione, devi avere qualcuno che te la dia” in quanto risulta un mero tecnicismo che non si innesta in alcun modo nella società.

La questione dell’educazione, del surplus educativo, che non produrrebbe maggiore ricchezza né  uguaglianza, ci indica che non si risolvono certe questioni solo con la tecnica.

L’autore ha ragione da vendere quando scrive “il fatto che esista una correlazione tra livello di educazione e reddito individuale non implica in nessun modo che debba esserci, globalmente, un’influenza dell’educazione sulla crescita economica”.

Quella questione, dalla notte dei tempi, si risolve con le dinamiche sociali e per una lotta redistributiva, ma se si nega il keynesisimo allora non è possibile pensare alcun tipo di futuro né a breve né a lungo periodo.

Infatti Ventura accetta che “saremo tutti morti”; il “diritto allo studio”  è tutta una questione meramente tecnica per cui la corsa all’armamentario formativo non genera automaticamente mobilità sociale e quindi è un male, perciò i poveri non devono più studiare e non devono più nemmeno vagheggiare di tentare di darsi un futuro migliore individuale o collettivo.

Visto che la tecnica impedisce che più studio significhi più mobilità sociale, allora è impossibile pensare che questo possa avvenire.

L’autore a tal proposito si inventa la fattispecie del Mutuo Declassamento Assicurato, come se la guerra del tutti contro tutti fosse una scelta e non un obbligo per tentare di sopravvivere.

Il punto è che dimentica che anche i descolarizzati vivono la crisi.

I titoli per quanto inflazionati non sono stati ottenuti per “scavalcarsi reciprocamente per ottenere i posti più ambiti, e lasciare il resto del lavoro agli immigrati del terzo Mondo”, ma semplicemente per sopravvivere o per cercare il proprio posto nel mondo.

Ventura, dimenticando la lotta per la sopravvivenza, si sofferma con gran mestiere e bravura sulla seconda fattispecie di quelli che cercano il proprio posto narcisistico nel mondo.

Lo fa a pag 234, introducendo la figura degli individui narcisistici pieni di ambizioni smisurate che non possono accettare una vita umile.

In questo modo nasce l’anomia ossia una reazione spettacolare in omaggio alla società, in cui la ribellione è vissuta solo per soddisfare la nostra vanità.

Qui non coglie la grande verità di quello che ha detto, ossia che l’evoluzione del militante politico occidente è nel sentiero dell’anomia.

Da cavaliere dell’idea “rivoluzionario di professione “ o “soldato politico nichilista” o “amico democristiano e devoto” o  “compagno mazziniano repubblicano”, una buona parte dei militanti politici degli ultimi decenni non è mossa dal fuoco ideale delle ideologie, ma sceglie l’azione politica solo per trarre godimento da una realtà che esiste solo nelle loro menti.

Perciò la guerra di tutti i movimenti moltitudinari degli ultimi anni ha schifato l’esigenza della “conquista del potere”, ma è stata solo una valvola di sfogo di entità desideranti in cerca di godimenti alternativi e non si sa per quale motivo migliori.

Non tutti i desideri sono buoni da soddisfare e in quelli buoni da soddisfare non c’è una gerarchia di bontà, invece la classe disagiata pensa che ogni desiderio individuale abbia piena legittimità.

L’autore conclude affermando che il risentimento della classe media nasce da un doloroso malinteso, cioè il cosiddetto welfare novecentesco.

La realtà dei fatti invece ci indica che, con la produttività  alle stelle e ormai slegata dalla creazione di posti di lavoro e con la divaricazione  con la giusta remunerazione di quei posti che vengono creati, il risentimento della classe media è sacrosanto.

Ventura rifiuta pervicacemente il ‘900, non è un caso il continuo riferimento a romanzi ottocenteschi, ed è a tutti gli effetti poco innovativo in questo, sono 25 anni che si cerca di uscire dal ‘900, ma poi alla fine si propina la solita logica liberale in cui ci si rifiuta, tra l’altro, di porsi davanti alla questione nazionale quindi anche quella di redistribuzione dei redditi all’interno di un territorio dato.

L’autore parla della classe disagiata italiana ma la universalizza quindi la priva dei suoi caratteri italianissimi, non parla mai del contesto, seppure fa un’analisi globale (con cui concordare o meno) non scende mai nel dettaglio del perché in Italia le cose siano andate peggio o meglio rispetto ad altri paesi occidentali.

Nell’equazione di Ventura, la deindustrializzazione italiana è una costante che non può essere toccata, così come la prevalenza dell’economico sul politico.

Rimanendo in termini gramsciani, in un clima politico e culturale antigramsciano come mai nella storia recente italica, per uscire dall’empasse il “nuovo” che potrebbe sorgere dalle dinamiche sociali e di classe (anche disagiata) italiana, dovrà porsi le seguenti sfide:

  • creare una classe pronta a conquistare la forza di far funzionare meglio le cose
  • porre al centro la questione nazionale italiana
  • porre al centro la questione della crisi economica in termini innovativi quanto antichi
  • porre al centro la questione dell’egemonia, terminando con la retorica assembleare, dei flashmob e della democrazia disintermediata
  • trovare nuove forme di Principe e di Intellettuale Collettivo sulle grandi questioni che attanagliano il mondo (di cui molte non ne ho fatto neanche cenno)

Ci vorranno dei decenni, perciò non sarà l’attuale classe disagiata a portare avanti questa agenda, perché citando un mio caro amico su Facebook su un recente caso di cronaca politica “la farsa catalana e’ stata come un flash mob di massa, un collettivo apericena equo-solidale, una raccolta dal vivo di firme su change.org. La causa della Repubblica avrebbe meritato forme di lotta più novecentesche, di quel secolo in cui era la fame e non l’egocentrismo a muovere i popoli. Qualcosa di più serio.”

Forse ha ragione Ventura, fino a che sarà l’egocentrismo a muovere i popoli, there is not alternative, e magari è meglio ambire ad essere Franchino piuttosto che Steve Jobs.

Ma qui si continuerà a tifare “Organizzazione Filini”.

Francesco Berni

 

Viterbo, 1 novembre 2017

P.S. Non sono un filosofo, sono un laureato in Economia Aziendale specializzatosi in Marketing & Comunicazione, ho 31 anni lavoro nel marketing e mi occupo professionalmente di accesso dei giovani al mondo del lavoro, ho militato nei movimenti studenteschi e nell’area della “sinistra radicale” con cui ho rotto in maniera totale da 5 anni, ho smesso con la politica ma credo di avere gli strumenti (seppur limitati) per partecipare al dibattito politico culturale italiano. Disagiato e moderno Osvaldo Paniccia letterario, mi esprimo pubblicamente con le avventure del mio alterego social “Oberdan si lamentava”.

Fonte: StampaNews