A molti italiani, se venisse chiesto loro di indicare una foto simbolo del secondo dopoguerra, tornerebbe alla memoria il volto radioso di una giovane donna, che fa capolino dalla prima pagina del Corriere della Sera, con un titolo quanto mai evocativo a incorniciarle i capelli: «È nata la Repubblica italiana». Che l’atmosfera fosse festosa, quel 2 giugno 1946, è testimoniato da quella che diventerà una delle foto più celebri della storia italiana, e come sarebbe potuto essere altrimenti, d’altronde, considerando il giogo cui erano stati costretti gli italiani per così tanti anni? Era tempo di spegnere i fornelli, indossare l’abito da festa abbandonato nell’armadio e quasi dimenticato, scendere in strada, ballare e, perché no, farsi immortalare con la testa infilata in un buco ricavato “alla buona” in una copia dello storico giornale milanese. Non è mai bello fare il “guastafeste”, soprattutto di fronte a un quadro così allegro e gioviale, ma ogni medaglia, come recita una popolare espressione, ha sempre un suo rovescio: nel caso di specie, il Belpaese si era trasformato già da tempo nel set di un film di Sergio Leone, in un terreno riarso, cioè, da irrorare, ricostruire e rieducare ai sacri valori della democrazia, umiliata e seviziata da un ventennio di dittatura fascista. Ad assumersi l’onere (e senz’altro l’onore) di posizionarsi dietro alla cattedra, con tanto di bacchetta in mano, furono i partiti, altrettanto in ginocchio ma forti, pur sempre, del potere aggregante delle idee. Anche il Partito socialista italiano tentò di assolvere questo compito, ma lentamente e faticosamente perché, appena risorto dalle sue ceneri, si trovò investito da nuove sfide che ne avrebbero minato, ancora una volta, la sopravvivenza.
A (new) born
Quando ormai la seconda guerra mondiale stava quasi per volgere al termine, il PSIUP (nato nell’agosto 1943 dall’unione di PSI e MUP, il “Movimento di unità proletaria” di Lelio Basso) risuscitò come un’araba fenice in maniera del tutto “spontanea e decentrata”, prendendo in prestito due felici aggettivi usati dal Professor Paolo Mattera nella monografia Il partito inquieto. Organizzazione, passioni e politica dei socialisti italiani dalla Resistenza al miracolo economico: “spontanea” perché venne rimesso in piedi dai vecchi uomini di partito, costretti all’esilio durante il ventennio fascista e tornati in patria dopo il 25 luglio 1943, “decentrata” perché la ramificazione del partito presso la società civile presentava profonde divergenze tra Nord e Sud del Paese. D’altronde la “questione agraria”, che vedeva protagoniste le rivendicazioni terriere da parte dei contadini, era stata trattata in maniera piuttosto ambigua dai socialisti, i quali avevano fatto ideologicamente propria la causa delle masse rurali senza tuttavia schierarsi de facto al loro fianco. Il timone era stato lasciato così nelle mani del PCI che, a causa della vicinanza ideologica a Mosca e del fascino che questa esercitava in quegli anni, era potuto sopravvivere durante il fascismo, seppure in clandestinità, ritagliandosi spazi sempre più ampi di adesione popolare. Ad accreditare la presenza comunista sul territorio italiano durante la Resistenza aveva contribuito, inoltre, la decisione dei vertici del PSIUP di non incoraggiare la creazione di brigate socialiste che combattessero i fascisti, vagheggiando, di contro, la creazione di un «esercito popolare […] che avrebbe permesso una guida dall’alto della Resistenza», per usare ancora le parole di Paolo Mattera. Sarà Sandro Pertini, liberato nel 1943 dopo una lunga reclusione per attività antifascista, a foraggiare le brigate Matteotti, quando ormai, però, la mobilitazione messa in atto dalle rosse brigate Garibaldi era diventata così capillare da fagocitare ex esponenti, militanti e simpatizzanti socialisti.
Molto diversa era la situazione del PSIUP al Nord, dove la rinascita del PSIUPAI (PSIUP Alta Italia) a opera, ancora una volta, di Pertini, nonché il vigore di personaggi come Lelio Basso e Rodolfo Morandi, aveva permesso il raggiungimento di una maggiore capillarità organizzativa: da un lato, attraverso la divisione delle città in un numero di zone pari ai quartieri urbani e la diffusione martellante dell’ideologia socialista tra i contadini e gli operai, dall’altro, mediante una profonda verticalizzazione del potere decisionale.
Le divisioni geografiche esistenti tra Nord e Sud, nonché quelle tra veterani e nuove leve del socialismo, risultarono ancora più evidenti quando si trattò di scegliere l’impostazione organizzativa da dare al partito. Nello specifico, erano quattro le possibili strutture vagheggiate: una che riecheggiava la costruzione del PNF, una che agognava l’emulazione della costruzione partitica comunista e una che si rifaceva alla struttura localistica del PSI antecedente al fascismo. L’ideale di Giuseppe Faravelli rientrava in questa terza categoria e si esplicava nel rifiuto dell’allineamento con Mosca e, quindi, con il PCI, creando un terreno fertile per il matrimonio politico con Giuseppe Saragat, anch’egli strenuo sostenitore della necessità di svincolarsi dal mito sovietico. Lelio Basso, d’altro canto, riteneva che il PNF rappresentasse un esempio calzante di partito magistralmente strutturato e organizzato sul territorio e che dovesse essere quindi il prototipo da seguire al fine di rendere il PSIUP l’elemento “moralizzatore” delle masse. Se entrambi i dirigenti sostenevano la necessità di creare delle strutture intermedie tra i vertici di partito e la base popolare, di diverso avviso era Pietro Nenni, allora segretario del PSIUP. Egli, forte dell’eco mediatica e del fascino esercitato dai propri discorsi sulle masse, riteneva fondamentale (ma soprattutto sufficiente) un rapporto di esclusiva bidirezionalità tra la dirigenza e la base elettorale.
Ancor più discorde era poi l’opinione di Rodolfo Morandi, il quale, studiando approfonditamente comunismo e socialismo, si era convinto che anche la priorità del PSIUP dovesse essere la tutela degli operai, motivo per il quale fu in prima linea nella creazione del Comitato industriale Alta Italia: un piano, per dirla con Paolo Mattera, «che mirava a servirsi della macchina pubblica e ad avvalersi dell’esperienza dei tecnici dello Stato per svolgere un lavoro di coordinamento dell’industria, al fine […] di favorire una rappresentanza nuova e democratica delle imprese industriali».
È evidente come le divergenze tra i vertici del PSIUP fossero tali da rendere sofferta ogni decisione non solo politica ma anche organizzativa. La priorità assoluta nell’agenda del partito era l’omogeneità, ma questa non poteva esser certo perseguita senza la preventiva conquista di una fisionomia stabile.
Il “m’ama, non m’ama” con il PCI e la struttura organizzativa
Nonostante l’estrema capillarità della sua macchina organizzativa e il legame con l’URSS, il PCI appariva un partito del tutto incapace di inserirsi nella competizione democratica: una forza anti-sistemica e sovversiva, pronta a minare i già fragili equilibri della società civile e politica italiana. Fu proprio questo l’asso nella manica dei socialisti: privi ancora di un apparato organizzativo efficiente, essi potevano comunque contare su un passato immacolato, pregno di onestà e integrità, nonché su una linea progressista e riformista che attraeva non solo i ceti medi, ma anche molti operai (da sempre alfieri del PCI).
Quando nell’estate del 1945 si tenne il Consiglio Nazionale del PSIUP, il dibattito si focalizzò subito sul rapporto con i comunisti. Come spiegato esaurientemente da Paolo Mattera, se Nenni, da un lato, auspicava la continuità del patto d’unità d’azione con il PCI, convinto che il legame tra Unione Sovietica e Stati Uniti fosse destinato a perdurare, Saragat, d’altro canto, ritenendo verosimile uno scenario meno roseo, chiedeva il riesame del sodalizio con i rossi. Dopo un’accesa discussione, vennero approvate due mozioni: una di maggioranza che ribadiva la prospettiva del Segretario, una di minoranza che univa la volontà di porre fine al patto con i comunisti a quella di recuperare le istanze riformiste.
Tra le prime problematiche emerse riguardo la struttura da conferire al partito, ci fu quella del tesseramento. Inizialmente, il PSIUP decise di adottare il criterio in base al quale il rilascio della tessera fosse condizionato al comportamento tenuto dal richiedente durante il fascismo. Ben presto, tuttavia, il partito si rese conto (grazie alle innumerevoli critiche piovute a pioggia sulla Direzione) che aderire al regime, per molti, era stata una questione di sopravvivenza: fare di tutta l’erba un fascio, dunque, non sembrò corretto, nonostante i militanti più convinti e ideologizzati chiedessero delle regole più severe al fine di ripagarli dell’estrema fedeltà e di tutte le pene patite durante il ventennio. Alla fine, nell’ottobre del 1944, la Direzione impose di valutare ogni istanza di tesseramento autonomamente e, in aggiunta, stabilì che il richiedente dovesse allegare alla propria richiesta formale una documentazione testimoniale.
Tra le questioni più spinose, già oggetto di dibattito in seno al partito, risaltò poi l’assenza di traits d’union tra la base e il vertice: non esisteva, de facto, alcun medium capace di “trasportare” (e spesso tradurre) le circolari provenienti dall’alto nelle fabbriche, nei campi e nelle botteghe. La voce di Nenni, sebbene carica di appeal, giungeva alle orecchie del cittadino comune come un qualcosa di vago, quasi etereo e, di conseguenza, rafforzare il proselitismo risultava estremamente difficile. I vertici del PSIUP decisero dunque di dare nuova linfa vitale al partito seguendo tre direttrici principali, quelle che Paolo Mattera chiama «l’organizzativo, il sindacale e l’ufficio di stampa e propaganda»: «al gradino più basso operavano i comitati direttivi delle sezioni territoriali e dei nuclei aziendali; entrambi questi organi afferivano poi alla federazione della propria provincia che, a sua volta, faceva capo alla Direzione nazionale».
Negli anni in cui in Italia si stava consolidando la cosiddetta “democrazia dei partiti”, l’idea che il PSIUP potesse dotarsi di una struttura organizzativa stabile e coerente, senza ricevere alcun finanziamento, era qualcosa di impensabile. Se la DC poteva contare sull’appoggio economico della Chiesa e il PCI su quello dell’URSS, cosa ne era del PSIUP? Storicamente, quello socialista è un partito che si è sempre affidato all’autofinanziamento (quote per gli iscritti, raccolte di fondi in occasione di ricorrenze etc.) ma la Direzione si rese conto, ben presto, che alzare la tassa d’iscrizione a un popolo già sul lastrico non faceva altro che aumentare il malcontento comune (riducendo quindi il numero dei futuri elettori potenziali). Fu così che il PSIUP si aprì ai finanziamenti da parte di terzi, trovando soprattutto nei laburisti inglesi e nei socialisti americani un valido sostegno economico (in misura minore anche nell’URSS e nei partiti comunisti dell’Est Europa). La sostanziale eterogeneità della provenienza di questi aiuti avrebbe contribuito, come afferma Mattera, ad alimentare l’agitazione, già dilagante, nel partito.
Il dinamismo dei socialisti, in questi anni, è evidente anche e soprattutto nel modo in cui si (pre)occuparono di gestire la propaganda. Da questo punto di vista, d’altronde, il lascito del fascismo era considerevole e l’intero corpus di celebrazioni, festeggiamenti, adunate di piazza e riti collettivi, così cari a Mussolini, venne preso a modello dai partiti di sinistra. Le cerimonie di apertura delle sezioni divennero veri e propri eventi di massa cui accorrevano non solo gli attivisti ma anche gli “outsiders”; ovunque si ricominciò a sventolare le bandiere del partito e ad appuntare coccarde e spille sul bavero delle giacche, testimoniando l’appartenenza a un gruppo politico di cui andar fieri; sempre più largo e massiccio fu l’impiego di figure eroiche (in primis Giacomo Matteotti) che assurgevano a massimi exempla di rettitudine, stima e lealtà. Oltre alla dimensione emotiva, i dirigenti del PSIUP decisero di recuperare anche la tradizionale responsabilità formativa del partito, attraverso la pubblicazione di dispense, riviste e locandine che dovevano educare il cittadino ai valori democratici, facendolo sentire parte integrante e attiva di una collettività. Ça va sans dire, tra molti socialisti iniziò a serpeggiare il mito della Rivoluzione bolscevica, simbolo di un popolo che aveva lottato e si era sacrificato per riconquistare la dignità perduta: si esacerbò, allora, il conflitto con quanti, invece, vedevano nel comunismo un’opzione politica impraticabile. Sebbene fossero stati compiuti passi importanti sul vasto terreno della legittimazione, evidentemente il PSIUP risentiva ancora (e avrebbe risentito a lungo) di una complessa multiformità strutturale e decisionale che appariva come una bomba a orologeria pronta a detonare da un momento all’altro.
A caduta libera: “cronaca di una morte annunciata”
Nel novembre 1945, l’esperienza governativa di Ferruccio Parri, uomo dal carisma totalmente assente, volse, dopo neanche sei mesi, al termine. L’insediamento del democristiano Alcide De Gasperi a Palazzo Chigi contribuì alla rottura dei già fragili equilibri interni al PSIUP, con la conseguente uscita di scena di Pertini e l’elezione alla Segreteria di Morandi. Nel marasma generale, intanto, si stavano avvicinando le elezioni amministrative, quelle per la Costituente nonché il referendum che avrebbe fatto dell’Italia una Monarchia o una Repubblica. I vertici socialisti decisero dunque di apportare delle modifiche strutturali in vista delle votazioni: in primo luogo, la dimissione di Lelio Basso dalla direzione dell’Ufficio elettorale. A quel punto, l’“effetto domino” fu inevitabile: accanto alla corrente autonomista di Basso, se ne formarono una riformista di destra e una anticomunista di sinistra, oltre alla già collaudata maggioranza di Nenni e Morandi, come illustra degnamente il Professor Mattera nel suo libro. Tutto faceva presagire che il XXIV Congresso del partito, ormai imminente, si sarebbe aperto all’insegna di lotte intestine fratricide. In qualche modo, però, il colpo fu attutito: dopo la presentazione di tre mozioni, si pervenne a un accordo e «la Direzione fu formata con sette membri della sinistra e sette delle correnti di centro-destra, segretario del partito fu nominato […] Ivan Matteo Lombardo […] per Nenni fu inventata la carica di presidente».
Il PSIUP intanto, galvanizzato dai primi (e non definitivi) successi alle amministrative, si dedicò al rafforzamento della propaganda contro la monarchia, ricorrendo a slogan e manifesti così impegnati e innovativi da valergli l’epiteto “il partito della Repubblica”. Il 2 giugno gli sforzi dei socialisti vennero ripagati su ogni fronte: la monarchia diventava ufficialmente un ricordo e, alla costituente, il PSIUP s’imponeva sui cugini rossi, collocandosi immediatamente dopo la DC. Il clima di giubilo per i risultati elettorali conseguiti venne tuttavia presto interrotto dal sorgere di contrasti tra i vertici del partito e il gruppo parlamentare: non riuscendo a pervenire quasi mai a soluzioni di compromesso, i socialisti dovettero rinunciare a imporre in Parlamento i punti fondamentali del proprio programma, con la conseguenza che la nascita del secondo governo De Gasperi divenne fonte di una profonda insofferenza.
Quella bomba a orologeria che già da tempo minacciava di detonare era prossima, ormai, all’esplosione e la miccia si accese in seguito agli insuccessi del PISUP al secondo turno di amministrative, che fecero della Direzione il teatro di un fratricidio: mai come questa volta un Congresso socialista avrebbe dovuto (r)accogliere le spoglie di un partito che ormai sembrava alla deriva. Era il 9 gennaio 1947 e la scelta del setting, questa volta, ricadde su Roma: Matteo Matteotti (facente parte degli autonomisti), come già il padre qualche anno prima, iniziò una sanguinaria denuncia delle presunte anomalie riscontrate durante i lavori che avevano preceduto l’apertura dell’assise. La polveriera, a quel punto, esplose: il Congresso divenne ingestibile e Matteotti decise di abbandonare il campo per recarsi allo storico Palazzo Barberini, dove lo aspettavano i suoi compagni “dissidenti”. La scissione era irreversibile: i vertici rimasti al Congresso si riappropriarono del leggendario acronimo “PSI” ed elessero Basso nuovo segretario, mentre la minoranza secessionista socialdemocratica, guidata da Giuseppe Saragat, assunse la denominazione di PSLI (Partito socialista dei lavoratori italiani).Come se la situazione, per i socialisti, non fosse già abbastanza tragica, la Chiesa si adoperava nel frattempo per convincere De Gasperi a staccarsi dai comunisti. Così, quando dal nuovo governo vennero estromessi sia PCI sia PSI, fu chiaro che la sinistra italiana avrebbe dovuto tirare fuori un asso vincente. Fu Nenni, allora, a prendere in mano la situazione, proponendo, durante il XXVI Congresso, la formazione di un Fronte democratico popolare con i comunisti, in vista delle elezioni politiche del 1948. Nonostante il malcontento che tale idea suscitò in molti colleghi (tra cui Basso), alla fine prevalse la linea della lista unitaria.
Le elezioni furono precedute da una propaganda martellante da ambo le parti e il Fronte, inizialmente, sembrò incamminarsi verso la vittoria elettorale. Il quadro mutò radicalmente quando Pio XII decise di mobilitarsi in prima persona per favorire il successo della DC, ricorrendo all’Azione cattolica come propulsore del proselitismo. Il punto di non ritorno si sarebbe avuto, tuttavia, con altri due eventi: la scelta degli americani di entrare in scena al fianco della Democrazia Cristiana, facendo leva sulla possibilità di sospendere l’erogazione del Piano Marshall (che, di fatto, era ciò che garantiva la sopravvivenza del popolo italiano) e la notizia di un colpo di Stato di matrice comunista, a Praga, che gettava in un clima di impopolarità la sinistra italiana, ormai vista con sospetto dall’opinione pubblica. Le elezioni del 18 e 19 aprile 1948, dunque, si aprirono al grido di «nell’urna Dio ti vede, Stalin no» e, in effetti, è proprio ciò che gli italiani sembrarono aver interiorizzato: la DC stravinse mentre il PSI si attestò sul 13% delle preferenze. Come argomenta Paolo Mattera, si trattava di un insuccesso difficile da digerire più per i socialisti che per i comunisti in quanto, all’interno del Fronte stesso, erano stati loro ad aver ottenuto il minor numero di voti e, quindi, meno seggi in Parlamento: lo scollamento del PSI dalla società civile, a questo punto, sembrava insanabile e per molti aveva l’aspetto di un “game over”.
Dalla Resistenza partigiana a quei fatidici giorni del 1948 erano passati, tutto sommato, pochi anni: un lasso di tempo irrisorio, se paragonato al macro-iter della Storia del mondo, ma più che sufficiente a rendere il Partito socialista una forza “inquieta”, per usufruire ancora una volta dei suggerimenti del Professor Mattera. Se ci prendessimo la briga di rappresentare graficamente il percorso fatto in questi anni dal PSIUP (prima) e dal PSI (poi) ci troveremmo a disegnare una curva dall’andamento “schizofrenico”: prima su, poi giù, poi di nuovo su e infine catastroficamente giù. L’andamento irregolare e quasi paranoico del socialismo italiano in questo periodo si spiega facilmente con la pressoché totale assenza di una struttura organizzativa capillare ed efficiente, capace di attutire i propri stessi colpi (e giocoforza quelli esterni): in altre parole, il PSIUP/PSI era diventato il sacco da box (malconcio e pieno di strappi) non solo degli altri partiti politici ma anche, e soprattutto, di sé stesso.
L’Italia era finalmente una Repubblica, e forse (o forse sì?) non serviva più la foto di quella ridente ragazza a testimoniarlo; il fascismo era stato debellato come fosse una malattia infettiva mortale (tipo la sepsi, per intenderci); la DC, salita sul trono, si preparava a una reggenza che a molti sarebbe sembrata infinita. Ma che ne era del Partito socialista italiano? E soprattutto, cosa ne sarebbe stato in futuro? Post fata resurgo: la mitologia ci insegna che la Fenice, una volta morta, rinasce sempre dalle sue ceneri.
Fonte: thewisemagazine.it
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