Per una moneta fiscale gratuita
Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro
Manifesto / Appello a cura di:
Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Luciano Gallino,
Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini
I primi firmatari sono: Maria Luisa Bianco, Massimo Costa, Stefano Lucarelli, Guido Ortona, Tonino Perna.
Per uscire dalla crisi e dalla trappola del debito, proponiamo di rilanciare la domanda grazie all’emissione gratuita da parte dello Stato italiano di Certificati di Credito Fiscale (CCF) convertibili in euro e all’utilizzo di titoli di Stato con valenza fiscale. In questo modo lo Stato creerebbe nuova moneta potenziale e capacità di spesa addizionale senza però generare debito. Questa proposta risulta così compatibile con le regole e i (rigidi) vincoli posti dal sistema dell’euro e delle istituzioni europee.
La crisi dell’eurosistema
Molti autorevoli economisti avevano avvertito che difficilmente una moneta unica che unisce paesi molto diversi per livelli di competitività, produttività e inflazione avrebbe potuto essere un motore di sviluppo, soprattutto in mancanza di una forte politica cooperativa e solidale a livello europeo. Le loro previsioni si sono purtroppo avverate.
Il sistema della moneta unica divide più che unire i paesi europei e, soprattutto dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale, è diventato un freno per la crescita dell’Eurozona e di ogni singolo paese. La moneta unica impedisce i riallineamenti competitivi (cioè le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni di quelli forti). Inoltre, in assenza di una politica fiscale comunitaria redistributiva, risulta inadatta alle esigenze di crescita di ciascun singolo paese. Ne seguono squilibri commerciali e finanziari, in particolare all’interno dell’Eurozona.
A causa della rigidità intrinseca della moneta unica, i paesi creditori, in primis la Germania, sostengono l’adozione di politiche depressive per i paesi debitori come l’Italia, la Francia, la Spagna e altri paesi del Sud Europa. Per garantirsi il recupero dei crediti, i primi hanno imposto austerità, riduzioni drastiche del costo del lavoro, tagli del welfare e aumenti delle tasse. I debiti pubblici denominati in una moneta che i singoli stati non controllano – e che di fatto appare quindi loro come una moneta straniera – forzano i governi ad adottare politiche procicliche. Le economie meno competitive entrano quindi nella spirale della crisi e finiscono per trascinarvi quelle dei paesi cosiddetti “virtuosi”. L’euro, invece di spingere verso la convergenza tra i 18 membri dell’Eurozona, ne aumenta le divaricazioni e i conflitti.
L’Eurozona, e in particolare i paesi mediterranei, si trovano in una situazione economica pesantissima: stagnano o calano i consumi e diminuiscono gli investimenti privati e pubblici. La BCE cerca di dare ossigeno monetario al sistema ma le banche dei diversi paesi trattengono la liquidità e non offrono sufficiente credito all’economia reale, in particolare alle piccole e medie imprese. Crescono massicciamente la disoccupazione e la precarietà del lavoro. Aumentano le divaricazioni territoriali e sociali. Sembra che l’Europa abbia dimenticato i suoi obiettivi originari di piena occupazione, sviluppo sostenibile e benessere per tutti i cittadini: la priorità dichiarata dagli organi della UE è piuttosto mirata esclusivamente ad aumentare la competitività con politiche di austerità e di “riforme strutturali”. Tuttavia risolvere i problemi di competitività dei paesi deboli attuando riforme strutturali richiede molto tempo e nuove risorse; e l’austerità si mostra ormai chiaramente controproducente. Non a caso i debiti pubblici dei paesi più deboli continuano ad aumentare. Il tentativo di applicare il Fiscal Compact non farebbe che aggravare pesantemente la situazione.
La crisi mette a rischio la sopravvivenza stessa di qualsiasi disegno di integrazione. L’economia europea è malata e rischia di infettare l’economia mondiale. Le proposte di mutualizzazione dei debiti (gli eurobond) e creazione di un fondo federale consistente, tale da riequilibrare le crescenti asimmetrie territoriali e sociali, appaiono politicamente impraticabili a causa della ferma opposizione dei paesi del nord Europa. In questo quadro di incertezza e di grave sofferenza sono possibili diversi scenari tra di loro non necessariamente incompatibili: la continuazione di una fase prolungata di stagnazione, o peggio di recessione e depressione; la (improbabile) ristrutturazione dei debiti dei paesi dell’Europa mediterranea; la rottura caotica dell’eurozona con l’uscita forzata di uno o più paesi dall’euro e il crollo rovinoso del sistema europeo.
In tale contesto, è del tutto improbabile che l’iniziativa del governo italiano di negoziare maggiore flessibilità con Bruxelles e con Berlino sia sufficiente a rilanciare l’economia del nostro paese, perché non affronta la sostanza dei problemi strutturali che affliggono l’eurozona. Oltretutto ne accrescerebbe ulteriormente l’indebitamento. Altri propongono invece l’uscita dalla moneta unica per non subire ulteriormente un sistema monetario fortemente penalizzante; ma passare dall’euro alla lira è assai più problematico che uscire da un sistema di cambi semi-fissi, come era per esempio il Sistema Monetario Europeo. L’uscita unilaterale dall’euro, cioè dalla seconda valuta mondiale di riserva, rischia di produrre traumi economici e geopolitici dalle conseguenze imprevedibili; e, comunque, molti cittadini italiani sono contrari perché temono di vedere svalutati risparmi, stipendi e pensioni.
Come uscire allora da questa gravissima crisi che l’Europa si è paradossalmente autoinflitta? E’ ormai evidente che occorre rivedere radicalmente i trattati costitutivi dell’euro, ma questo richiede volontà politica e tempo. Per affrontare la crisi diventa allora indispensabile che, pur nel contesto dell’euro, ogni stato nazionale assuma urgentemente iniziative autonome e sovrane per rilanciare l’economia e l’occupazione. I governi dei paesi europei, dal momento che sono stati eletti democraticamente (a differenza degli organi esecutivi della UE) per offrire un futuro migliore ai loro cittadini, hanno non solo il diritto ma anche il dovere di difendere gli interessi dei loro elettori e di attuare riforme coraggiose per la prosperità della comunità nazionale. I cittadini si aspettano giustamente che gli organi politici da loro eletti tornino ad operare per lo sviluppo dell’economia nazionale, senza attendere permessi o concessioni da parte di altri paesi e senza subire eccessivi e ingiustificati condizionamenti.
La proposta dei Certificati di Credito Fiscale
La drammatica crisi economica, occupazionale e sociale ci pone di fronte a una situazione di grave emergenza. Non è possibile procrastinare le soluzioni. Occorrono misure urgenti ed efficaci. A tal fine, la nostra proposta offre un’alternativa concreta e immediatamente fattibile rispetto alle altre soluzioni che ci sembrano assai più problematiche e complesse o del tutto impraticabili.
Proponiamo una soluzione analoga a quella che la scienza economica definisce helicopter money, cioè la creazione di moneta da parte dello Stato e la distribuzione gratuita e diretta (ma mirata) della moneta così creata ai soggetti economici – nel nostro caso ai cittadini e alle aziende.
Dal momento, però, che nell’attuale regime dell’Eurozona la creazione di moneta è monopolio della BCE, proponiamo che sia lo Stato italiano ad emettere e distribuire gratuitamente, a favore dei lavoratori dipendenti e autonomi, delle imprese, dei disoccupati e dei pensionati, non della moneta ma della quasi-moneta, ovvero dei titoli di Stato sotto forma di CCF a utilizzo differito. I CCF che proponiamo sono titoli che conferiscono al portatore il diritto a una riduzione di obblighi fiscali e impegni verso la pubblica amministrazione (tasse statali e locali, contributi, multe, etc.) per un ammontare equivalente al valore facciale del titolo stesso, esercitabile a una data futura certa. Per ragioni che saranno chiarite più oltre, proponiamo che l’esercizio del diritto fiscale annesso al CCF abbia luogo solo a partire da due anni dall’emissione del titolo. Il titolo è trasferibile a terzi, negoziabile e convertibile in euro sul mercato finanziario. In questa maniera i CCF diventano moneta potenziale perché possono essere facilmente liquidati in euro trasformando in tal modo il diritto al risparmio fiscale futuro in nuovo potere d’acquisto.
In quanto titoli di Stato cedibili a terzi e immediatamente convertibili in euro, i CCF sarebbero universalmente accettati a livello nazionale e potrebbero persino diventare essi stessi moneta, cioè mezzo di pagamento, essendo una moneta potenziale. Tuttavia, non costituiscono una moneta parallela all’euro e non farebbero concorrenza alla moneta unica: infatti la loro funzione primaria consiste proprio nello scongelare la liquidità in euro e rimettere in circolazione la moneta unica sul mercato dei beni e servizi. Il CCF essendo uno strumento finanziario sarà ovviamente soggetto a un tasso di attualizzazione (sconto) che verrà applicato nella conversione in euro. E’ prevedibile che lo sconto sarà massimo nella fase iniziale e tenderà a zero quando i CCF verranno usati e lo Stato li accetterà al valore nominale dell’emissione.[1]
Per maggiore chiarezza: gli stipendi continuerebbero a essere pagati in euro, così come le tasse, le merci e i servizi. L’euro rimarrebbe l’unica moneta in cui sarebbe tenuta la contabilità delle aziende, e la moneta di denominazione di prezzi, stipendi, pensioni, titoli e conti bancari. La riforma non creerebbe quindi nel pubblico i timori che si accompagnerebbero inevitabilmente a una svalutazione di stipendi, pensioni, risparmi. Anzi: l’assegnazione di titoli gratuiti sarebbe prevedibilmente assai ben accolta perché aumenterebbe notevolmente il potere d’acquisto senza alcuna contropartita negativa.
Il governo italiano emetterebbe CCF per 90-100 miliardi il primo anno, da incrementare poi nel corso dei due anni successivi in relazione alle dinamiche inflattive e dell’occupazione fino a un massimo di 200 miliardi di emissioni annue. L’assegnazione dei CCF dovrebbe privilegiare quelle imprese che in cambio si impegnino ad assunzioni nette di disoccupati, ovvero si impegnino in opere pubbliche urgenti (per il riassetto idrogeologico, il risanamento delle scuole e ambientale ecc.) da avviare immediatamente.
La soluzione dei CCF è giuridicamente ineccepibile e difficilmente contestabile in sede UE e da parte dell’autorità monetaria europea: infatti, se è vero che solo la Banca Centrale Europea è l’emittente esclusiva della moneta corrente dell’Eurozona, ogni Stato sovrano ha il diritto di offrire legittimamente sconti e titoli fiscali, e quindi anche i CCF. Lo Stato è sovrano in campo fiscale.
Inoltre, la BCE ha il monopolio sulla emissione della moneta unica, cioè l’euro, ma non ha il monopolio sulla creazione di strumenti di «quasi moneta», cioè, per esempio, i depositi bancari, i titoli di Stato ecc. Essendo appunto i CCF nuovi strumenti finanziari con natura di «quasi moneta» – ovvero rappresentando titoli (non di debito) che possono essere trasformati in moneta – essi non possono essere soggetti al monopolio della BCE.
Il nuovo strumento creato dallo Stato per ridurre il peso fiscale arriverebbe direttamente e gratuitamente al lavoro e alle aziende senza creare nuovo indebitamento. E’ opportuno sottolineare che, in quanto diritti a riduzioni fiscali future, le assegnazioni di CCF non costituirebbero trasferimenti sociali e, pertanto, non darebbero luogo a deficit di bilancio pubblico.
Aziende e lavoratori riceverebbero quindi gratuitamente un considerevole importo di CCF, cioè di crediti in euro utilizzabili nei confronti della pubblica amministrazione due anni dopo l’assegnazione originaria. Gran parte dei CCF verranno rapidamente convertiti in euro e spesi sul mercato.
In un’economia con ampi eccessi di capitale e lavoro inutilizzati, tale spesa darebbe luogo a effetti moltiplicativi del reddito e alla connessa crescita del gettito fiscale, come si dirà in dettaglio successivamente. Il periodo di differimento previsto per l’esercizio del diritto annesso ai CCF è precipuamente inteso a far sì che la spesa attivata dai CCF abbia il tempo per dispiegare i suoi effetti espansivi sul reddito e le entrate di bilancio, in tal modo compensando i minori introiti fiscali in euro conseguenti alla maturazione dei CCF giunti a scadenza e utilizzati per ottenere sconti fiscali.
La monetizzazione dei CCF – che, come abbiamo detto, sono a tutti gli effetti una categoria di titoli di Stato – sarà possibile in quanto si svilupperà un attivo mercato finanziario. Il titolo CCF può essere considerato come un titolo zero coupon con scadenza biennale a circolazione prevalentemente interna. Infatti 100 euro di CCF equivalgono a una banconota da 100 euro che il possessore non può utilizzare se non tra due anni. La monetizzazione anticipata comporterà ovviamente uno sconto finanziario. Il tasso di sconto sarà presumibilmente assai contenuto, essendo il CCF un titolo a breve completamente garantito per il pagamento fiscale. Il CCF sarà quindi uno strumento appetibile e competitivo rispetto agli altri titoli sul mercato monetario.
I venditori di CCF saranno tutti quei soggetti – famiglie e aziende (soprattutto medio-piccole) – che hanno necessità immediata di liquidità per le loro spese e per ripagare i debiti pregressi. Considerando le attuali forti esigenze di liquidità (dovute alla drammatica crisi in corso) da parte delle famiglie e delle aziende, è presumibile e auspicabile che ci sarà un significativo incentivo a convertire i CCF in euro. In questo modo sarà possibile aumentare il reddito e quindi la spesa delle famiglie e delle aziende, e uscire dalla trappola della liquidità. Anche la pubblica amministrazione cederà i CCF per remunerare i lavori pubblici appaltati ad aziende private.
Gli acquirenti dei CCF saranno tutti quei soggetti che hanno liquidità e che intendono cedere euro per ottenere a scadenza sconti fiscali: aziende ben patrimonializzate, istituzioni finanziarie, investitori e privati benestanti e facoltosi.
Le banche opererebbero primariamente come intermediari di mercato.
Occorre inoltre sottolineare che i CCF potrebbero essere utilizzati direttamente come mezzo di pagamento, soprattutto nei settori business to business e tra la PA e le aziende, mano a mano che verranno considerati praticamente equivalenti a moneta-euro.
L’immissione dei CCF nel sistema contrasterebbe l’austerità imposta dalla UE e risolverebbe il problema della carenza di liquidità nel sistema: infatti in tempi di crisi le banche, sebbene abbondantemente finanziate dalla BCE, investono soprattutto nel mercato finanziario mentre riducono i crediti all’economia reale a causa delle sempre più deboli prospettive di quest’ultima.
Lo Stato potrebbe incentivare la formazione e il funzionamento di tale mercato affidando a istituti quali la cassa depositi e prestiti e le poste il ruolo di market maker, con l’obbligo di acquistare e vendere CCF su richiesta del pubblico e di promuoverne l’uso e la diffusione nel Paese.
I CCF diventerebbero un nuovo prodotto finanziario che lo Stato si impegnerebbe a emettere in maniera permanente – anche se in diverse quantità, secondo la congiuntura economica – in modo da creare un clima di fiducia tale da spingere gli operatori economici a spendere la parte preponderante del maggior reddito legato ai CCF in acquisti e consumi, limitando la quota di risparmio e di tesaurizzazione. Così sarà possibile avviare un circolo virtuoso con gli effetti moltiplicativi positivi di cui si accennava: domanda che espande la produzione, quindi l’occupazione, quindi ulteriormente i redditi e la domanda ecc.
I vantaggi della nuova quasi-moneta fiscale
L’emissione massiccia di CCF genererebbe nuova domanda in grado di colmare rapidamente l’output gap (la caduta della produzione industriale è stata del 25% rispetto ai livelli pre-crisi). La forte crescita della domanda non aumenterebbe però l’inflazione a livelli eccessivi – anzi, impedirebbe la caduta dell’economia italiana in una situazione di deflazione cronica – grazie al recupero delle risorse produttive (lavoro e capitale) attualmente drammaticamente sottoutilizzate.
A puro titolo di esempio, si supponga di assegnare gratuitamente, in parte dal primo gennaio 2015 e in parte nel 2016 e 2017, circa 80 miliardi ai datori di lavoro del sistema privato – questo importo abbatte del 18% circa il costo del lavoro, una percentuale equivalente alla differenza di competitività dell’economia italiana nei confronti della Germania, in modo da mantenere un saldo positivo della bilancia commerciale -; e di assegnare circa 70 miliardi di CCF ai lavoratori (occupati, disoccupati, pensionati) in funzione inversa del loro livello di reddito, così da stimolare la spesa per il consumo (in questo modo si otterrebbero tra l’altro effetti di redistribuzione dei redditi nel senso della maggiore equità ). Altri 50 miliardi circa di CCF dovrebbero essere utilizzati per finanziare iniziative pubbliche, per esempio per assicurare forme di reddito garantito, per sostenere iniziative ambientali (energie rinnovabili) e infrastrutturali, per l’occupazione giovanile e femminile, per la formazione, per l’imprenditoria al Sud, per erogare reddito alle donne occupate nelle attività di cura familiare ecc. L’idea è di privilegiare progetti mirati, realistici e di rapida attuazione soprattutto per quanto riguarda gli interventi di prevenzione dei disastri e riparazione dei danni ambientali a livello locale. Solo per fare un esempio: nel caso dell’alluvione di Genova potrebbero essere stanziati 300 milioni di CCF (il governo ne sta offrendo 12) da destinare alle imprese per le opere di risanamento idrogeologico.
Le stime preliminari portano a ipotizzare che il programma CCF potrebbe partire con l’emissione di 90-100 miliardi nel 2015 che produrrebbero un primo rilevante impatto di crescita su PIL e occupazione. Il livello massimo di 200 miliardi potrebbe essere gradualmente raggiunto tra il 2016 e il 2017, e poi stabilizzarsi. A regime, si avranno quindi 200 miliardi di CCF emessi ogni anno, e quindi – considerando il differimento dei due anni – un valore costante in circolazione di 400 miliardi a fronte di entrate totali annuali della pubblica amministrazione di circa 800.
Ipotizzando un moltiplicatore del reddito di 1,3*, è prevedibile un recupero di PIL del 15% circa in tre anni, una caduta della disoccupazione di almeno cinque punti, e saldi commerciali esteri che rimangono in sostanziale equilibrio. Il deficit pubblico, inteso come differenza tra incassi e pagamenti dello Stato italiano da corrispondersi in euro, verrebbe portato in pareggio fin dal primo anno di avvio della riforma. E il debito pubblico cadrebbe in rapporto al PIL.
Per effetto del moltiplicatore del reddito, il calo delle entrate pubbliche legato allo sconto fiscale differito dei CCF verrebbe più che compensato dall’aumento dei ricavi fiscali prodotto dal forte recupero del PIL. E’ infatti ovvio che, nella situazione attuale di grave compressione delle risorse produttive e tassi di interesse prossimi allo zero, il moltiplicatore sarebbe senz’altro maggiore di uno. Il PIL e l’occupazione crescerebbero quindi velocemente. L’aumento dell’occupazione avrebbe un valore enorme sia sul piano sociale che su quello economico, perché un’economia sana è un’economia di piena occupazione.
Proponiamo che la manovra di emissione dei CCF venga calibrata in maniera tale da non superare nemmeno negli anni iniziali un tasso di inflazione pari al 3-4%, con l’obiettivo di non provocare un eccessivo e incontrollato aumento dei prezzi e di non svalutare eccessivamente i titoli di Stato in essere penalizzando in maniera sproporzionata i bilanci dei creditori.
I deficit e il debito pubblico diventerebbero più facilmente sostenibili, con beneficio sostanziale per i creditori nazionali e internazionali.
Inoltre la quota di CCF immessa a favore delle aziende in quantità commisurate ai costi di lavoro da esse sostenute rappresenterebbe una significativa riduzione dei loro costi di produzione. Si replicherebbero così gli effetti positivi di un riallineamento valutario (svalutazione), evitando però che l’espansione della domanda interna produca squilibri nei saldi commerciali con l’estero: infatti l’aumento delle importazioni sarebbe bilanciato da una crescita delle esportazioni derivato dalla diminuzione del costo del lavoro e dall’aumento conseguente di competitività.
Uscire dalla trappola del debito con i titoli di Stato a valenza fiscale
I CCF permettono all’economia italiana di uscire dalla «trappola della liquidità ». Ma è anche necessario uscire rapidamente dalla «trappola del debito pubblico».
Dagli anni Ottanta, l’Italia si è finanziata sul mercato, pagando alti tassi di interessi reali per sostenere gli agganci allo SME nelle sue varie forme e poi per preparare l’ingresso nell’euro. Il cumulo di interessi corrisposti sul debito pubblico ha superato, a valori odierni, i 3.000 miliardi di euro. Gran parte del debito pubblico è stata assorbita da investitori istituzionali nazionali ed esteri attratti da rendimenti particolarmente elevati; tuttavia, il peso del debito pubblico grava sui cittadini e sulle imprese che devono sopportare una pressione fiscale pari ormai al 57% del PIL «non sommerso», un livello intollerabile e insostenibile. Occorre quindi diminuire il peso del fisco, ma questo non deve avvenire a fronte di tagli indiscriminati delle spese per il welfare (da riqualificare, ma non da ridurre in valore assoluto), non solo per ragioni sociali e politiche ma anche perché la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL è già complessivamente inferiore alla media UE. La strada corretta è quindi di ridurre il debito e gli interessi pagati sul debito.
Al riguardo, un grave ostacolo è costituito dal fatto che il debito pubblico, denominato in una moneta che lo Stato italiano non emette e non controlla, lo espone a pagare tassi d’interessi reali elevati e a subire l’iniziativa speculativa degli investitori soprattutto esteri, i più pronti a vendere o a richiedere interessi elevati nelle fasi di congiuntura negativa. Il debito pubblico in euro deve quindi essere ridotto rapidamente e, per quanto possibile, deve anche essere nazionalizzato.
In aggiunta ai benefici prodotti dalla ripresa economica che l’introduzione dei CCF innescherà, è quindi opportuno – via via che il debito in essere giunge a scadenza – rifinanziarlo emettendo, nella maggior misura possibile, «BTP fiscali»: titoli che (come i CCF) non verranno rimborsati in euro, con un premio per gli investitori, ma saranno utilizzati alla scadenza per pagare il fisco. Lo Stato italiano e il benessere dei cittadini italiani devono dipendere il meno possibile dagli umori della speculazione internazionale.
Per evitare il rischio di una reazione negativa del mercato di fronte all’emissione dei CCF, e quindi una riduzione di prezzo dei BTP, specialmente sulle scadenze lunghe, lo Stato potrebbe introdurre i CCF lanciando contestualmente un’offerta pubblica di scambio sui titoli di Stato. Ciò consentirebbe di convertire ogni titolo di Stato in un BTP fiscale con una scadenza più lunga (per esempio, di tre anni) e una cedola maggiorata (per esempio, del 2% annuo rispetto all’attuale).
La possibilità di conversione potrebbe rimanere aperta per tutta la durata residua dei titoli permettendo di raggiungere due obiettivi: 1. evitare forti cadute del valore dei BTP in caso di turbolenze di mercato; 2. accelerare il processo di riduzione del debito pubblico «vero» (quello da pagare in euro), trasformandolo in una forma di «moneta fiscale differita nazionale». Si tratterebbe di un processo di «nazionalizzazione» del debito che permetterebbe di ridurre notevolmente il rischio dei default dello Stato italiano.
Siamo convinti che i BTP fiscali saranno senz’altro appetibili via via che l’offerta di titoli di Stato tradizionali diminuisce. Gli operatori istituzionali italiani, hanno infatti bisogno di uno strumento «domestico» di gestione della propria liquidità, anche in ragione del fatto che si ridurrà l’offerta di titoli di Stato tradizionali e che enti come banche e assicurazioni hanno forte necessità di uno strumento di questo tipo non solo per pagare le imposte in nome proprio, ma nella loro veste di sostituti d’imposta per i versamenti delle imposte sul reddito a carico dei dipendenti, dei contributi sanitari e pensionistici ecc.
Conclusioni
La manovra che abbiamo illustrato, basata sull’emissione di CCF e di BTP fiscali, in linea di principio non comporta rischi di default per lo Stato emittente che si impegna ad accettarli ma non a rimborsarli.
L’introduzione dei CCF realizza obiettivi di rilancio della domanda e dell’occupazione. Inoltre, le azioni di sostegno della domanda consentono di recuperare PIL e occupazione in misura più che proporzionale (in quando stimolano una catena di effetti indotti positivi – la maggior domanda spinge a produrre di più, le aziende riprendono ad assumere, l’occupazione e i consumi crescono ulteriormente, eccetera). Questo produce maggior gettito fiscale che, grazie anche al differimento di due anni nell’utilizzo dei CCF per effettuare pagamenti verso lo Stato, mantiene in equilibrio il saldo tra spese e incassi statali in euro. A loro volta, i BTP fiscali accelerano la riduzione del rapporto tra il debito pubblico italiano «vero» – quello da rimborsare in euro – e il PIL.
Si apre in questo modo anche la possibilità di ridurre rapidamente, per esempio fino al 60%, il rapporto tra il debito pubblico italiano «vero» – quello da rimborsare in euro – e il PIL. Potrebbe così diventare possibile realizzare gli obiettivi di stabilità finanziaria previsti dal Fiscal Compact, che diversamente non avrebbero nessuna possibilità di essere raggiunti. L’attuazione di manovre restrittive condanna infatti l’economia italiana a condizioni di stagnazione e depressione permanenti e impedisce il contenimento del debito pubblico in rapporto al PIL (e tende anzi a innalzarlo, com’è avvenuto dall’inizio della crisi in poi).
Riteniamo che il progetto di creare quasi-moneta con valenza fiscale da parte dello Stato possa e debba essere esteso ad altri paesi dell’Eurozona, e che possa rappresentare una strada praticabile per uscire dalla depressione economica.
L’Italia può uscire dal tunnel della recessione e del debito autonomamente e con le sue sole forze, senza richiedere ai paesi più competitivi di rivalutare prezzi e salari interni, di peggiorare i loro saldi commerciali o di trasferire risorse finanziarie verso i paesi in difficoltà.
Nonostante le difficoltà, le incomprensioni e i contrasti che la nostra proposta incontrerà indubbiamente, anche per la sua innovatività, riteniamo che rappresenti la possibilità concreta di uscire dalla drammatica situazione attuale tentando di evitare soluzioni e condizioni traumatiche che potrebbero infliggere gravi perdite ai risparmiatori, al lavoro, alle imprese e, per molti aspetti, alle stesse istituzioni finanziarie.
Crediamo che questa possa essere la strada per creare le migliori condizioni affinché l’Europa riesca a uscire dall’attuale gravissima crisi e a gettare le basi di un diverso sistema monetario che sia finalmente stabile, sostenibile e foriero di sviluppo e di piena occupazione.
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[1] Quando i CCF arriveranno a maturazione il rapporto di conversione tra CCF e euro (che può anche essere considerato come un «tasso di cambio» molto più stabile di un classico cambio flessibile tra valute) sarà pari a 1: 1 CCF = 1 euro.
* Nota esplicativa sul Moltiplicatore del Reddito
Studi recenti (alcuni dei quali riportati qui in calce) forniscono un ventaglio assai ampio di stime circa il valore del moltiplicatore fiscale. La nostra proposta si fonda essenzialmente sulla previsione che il moltiplicatore del reddito assuma valore maggiore di 1. Più precisamente, in maniera prudente e conservativa, in base alle considerazioni indicate di seguito, abbiamo ipotizzato il valore di 1,3. Ci sono diversi motivi per i quali la nostra ipotesi può ritenersi fondata e affidabile:
- Lo stimolo alla domanda determinata dall’immissione di CCF sarebbe intensa e persistente. Si attenuerebbe solo allorché si osservasse una risposta robusta del prodotto e dell’occupazione
- L’assegnazione di CCF avverrebbe soprattutto a favore di soggetti che hanno una maggiore propensione al consumo
- I tassi di interesse sono bassi e tali prevedibilmente resteranno grazie alla politica monetaria accomodante della BCE
- La dispersione della domanda verso l’estero attraverso maggiori importazioni sarebbe compensata dalla crescita dell’export resa possibile dal forte recupero di competitività conseguente all’ampio taglio del costo del lavoro
- L’eventuale effetto negativo (sul moltiplicatore) che il varo della manovra proposta potrebbe avere attraverso un rincaro dello spread sul debito pubblico sarebbe neutralizzato dall’emissione di BTP a valenza fiscale, che stabilizzerebbe il corso dei titoli debito.
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Auerbach A and Y Gorodnichenko, Measuring the Output Responses to Fiscal Policies, American Economic Journal, 2012
Blanchard O and D Leigh, Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers, IMF, January 2013
Eggertsson G and P Krugman, Debt, Deleveraging and the Liquidity Trap, Quarterly Journal of Economica, 2012
Eichengreen B and K H O’Rourke, Gauging the Multiplier: Lessons from History, VoxEu, 23 October 2012
Locarno A, A Notarpietro and M Pisani, Sovereign Risk, Monetary Policy and Fiscal Multipliers: A Structural Model-Based Assessment, Temi di discussione N. 943, Banca d’Italia, Novembre 2013
Fonte: syloslabini.info
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