I DUBBI DI FEDERICO CAFFE’ SULL’EUROPA

Circa trent’anni anni fa spariva Federico Caffè, uno dei più illustri economisti italiani, tra i primi a sviluppare il pensiero di Keynes in Italia.  Proponiamo un estratto di un ampio documento di Mario Tiberi che ricostruisce le perplessità di Caffè, pur convintissimo europeista, sulla costruzione dell’Europa monetaria. Nonostante Caffè non abbia mai visto l’Euro, i dubbi di allora sullo Sme appaiono incredibilmente, e tragicamente, attuali.

[…] Lo stesso Caffè, alcuni anni prima, aveva scritto un saggio, col quale rendeva omaggio a Marco Fanno, riprendendo il tema che quest’ultimo aveva affrontato in un contesto istituzionale molto diverso, ma che Caffè riteneva evidentemente essere tornato di grande attualità.

Egli intendeva prendere in considerazione la varietà dei movimenti di capitale che possono avvenire tra un paese e l’altro, riconducendoli alle due categorie di normali e anormali, proposte da Fanno. Non si tratta di ripercorrere qui la casistica dei movimenti inseriti nelle due categorie, ma di ricordare la forte preoccupazione di Fanno, fatta propria da Caffè, sugli effetti perturbatori provocati da quella parte dei flussi anormali, avente un andamento particolarmente erratico: indicativo ora di criticità sottostanti, ora foriero di ripercussioni negative, non solo sulle variabili monetarie e finanziarie, ma anche su quelle reali, quali reddito e occupazione.

Il quadro di riferimento è ancora l’economia mondiale, ma è esplicitamente presa in considerazione la situazione in cui, come nella Cee di allora, coesistano paesi a valuta forte, cioè la Germania, e quelli a valuta debole, cioè l’Italia.

In circostanze del genere c’è un’esposizione continua al rischio di movimenti di capitale dal paese a valuta debole verso quello a valuta forte, con creazione di squilibri che i meccanismi di mercato non sono sempre in grado di raddrizzare, se, in loro aiuto, non può intervenire, per il vincolo derivante dall’accordo, la svalutazione della valuta debole. In mancanza del parallelismo degli obblighi, secondo un’espressione cara a Caffè, il paese in difficoltà si trova costretto a perdere riserve o a ricorrere a politiche restrittive, che incidono sui livelli di occupazione.

Facendo sempre salvo il valore della prospettiva politica dell’integrazione europea, non si può negare che l’esperienza vissuta e il dibattito teorico continuarono a fornire buoni argomenti ai critici delle soluzioni di “ingegneria monetaria”, come le definisce Caffè, che costellavano quella prospettiva. L’affidamento ad un meccanismo cooperativo della manovra del tasso di cambio, strumento essenziale, in precedenza, nelle mani dei singoli stati per recuperare la loro stabilità macroeconomica, soprattutto nei conti con l’estero, rendeva necessarie numerose operazioni di riallineamento delle parità centrali, realizzate con laboriose trattative tra i paesi membri.

È vero che lo Sme prevedeva il contributo al riequilibrio del paese forte, ad esempio con una rivalutazione, difficile da ottenere quando si è indotti a pensare che gli squilibri siano il risultato di comportamenti virtuosi, da un lato, e perversi, dall’altro. Quanto alle risorse destinate al sostegno multilaterale attraverso la creazione di un Fondo comune europeo, le procedure elaborate, discrezionali e non automatiche, risultavano inadeguate alle esigenze di intervenire con tempestività.

La correzione delle conseguenze di turbamenti asimmetrici non poteva, d’altra parte, essere affidata alla mobilità dei lavoratori, pur operante, ma non in misura tale, per quantità e tempi, da contribuire in maniera significativa al riequilibrio della situazione.

Avendo in mente situazioni del genere, prevedibilmente, più numerose da attendersi nelle relazioni tra paesi all’interno e all’esterno della Cee, Caffè prende decisamente posizione in favore di un interventismo nazionale e sovranazionale, che non mostri nessuna soggezione rispetto alla esaltazione delle capacità della “mano invisibile” di operare, efficacemente ed equamente, anche nell’allocazione delle risorse finanziarie e reali sul piano mondiale. Egli insiste nella sua battaglia culturale a favore dell’attivazione di strumenti di controllo dei movimenti di capitale per salvaguardare e accrescere i livelli di occupazione in tutti i paesi, in particolare in quelli, come l’Italia, impegnata nel confronto serrato con i paesi europei appartenenti all’area del marco.

Egli richiama con insistenza, ad iniziare dal suo articolo appena ricordato, le norme contenute negli accordi internazionali, in sede Fmi e Cee, che indicavano casi non marginali in cui tali strumenti restrittivi potevano essere utilizzati per accompagnare il processo di integrazione tra i diversi sistemi economici; esprime, anzi, il rammarico, riferendosi specificamente alla Cee, perché:  “Alla lettera del trattato e alla lungimiranza di qualificati economisti si è tuttavia contrapposta la pressione di tecnocrati, i quali sono riusciti a far coincidere l’applicazione di un trattato non nel rispetto, ma nell’ “accelerazione” dei suoi tempi di attuazione”.

L’esposizione più ampia e diretta dei “dubbi” di Caffè sullo Sme si ritrova nel documento già citato () che, seppure non pubblicato, e quindi forse non riletto, contiene una serie di spunti critici, caratteristici del suo modo di guardare ai fatti economici. Intanto c’è un richiamo storico al Risorgimento italiano, riguardante un momento di svolta fondamentale, come Caffè considera la scelta contrastata dell’Italia di “entrare” in Europa.

C’è poi la forte preoccupazione per l’inevitabile egemonia della Germania, che seppure ancora divisa, rappresentava il paese ad economia nettamente più forte e solida tra i paesi della Cee. Caffè temeva soprattutto il tipo di cultura economica di cui i gruppi dirigenti di quel paese erano portatori, a prescindere, per alcuni aspetti, dai loro orientamenti politici. In particolare si faceva sentire in tali gruppi il trauma dell’iperinflazione vissuta dalla Germania negli anni successivi alla prima guerra mondiale.

Il retaggio fondamentale di tale esperienza si traduceva nella particolare sensibilità alla stabilità dei prezzi, ottenuta anche con un assetto istituzionale che prevedeva una forte autonomia della Banca Centrale rispetto al potere politico.

Tale orientamento non era controbilanciato, all’interno degli organi comunitari, dalla presenza della Gran Bretagna, che non poteva esercitare, per sua scelta, un ruolo da protagonista nei processi decisionali comunitari. In tema di elaborazione degli obiettivi da raggiungere va ricordato quanto pesasse nelle decisioni di politica economica di tale paese il messaggio sancito nel secondo Rapporto Beveridge, redatto da questo studioso liberale sotto l’influenza determinante del pensiero di John Maynard Keynes: “il governo accetta come uno dei suoi obiettivi e doveri primari il mantenimento di un alto e stabile livello di occupazione dopo la guerra”.

La posizione della Germania veniva, proprio in quegli anni, rinvigorita dall’emergere di impostazioni neo-liberiste in molti paesi, compresa la stessa Gran Bretagna, alle prese con il fenomeno della stagflazione, che aveva creato difficoltà all’efficacia delle ricette di ispirazione keynesiana, dando notevole credito alle alternative suggerite dagli economisti di scuola monetarista.

Caffè, come molti altri economisti, era molto critico di questo indirizzo di teoria monetaria, concentrando l’attenzione su alcuni suoi elementi caratterizzanti: l’ipotesi della sostanziale stabilità del settore privato dell’economia, la concezione della moneta come variabile essenzialmente esogena, l’ambiguità nell’individuazione dell’aggregato monetario strategicamente decisivo, la spiegazione dei fenomeni inflazionistici in termini strettamente monetari, il messaggio di grande ostilità nei confronti dell’intervento pubblico in economia.

Sostenuta dai paesi dell’area del marco, la Germania, riuscita, come pochi altri, a contenere la dinamica dei prezzi, imponeva, peraltro, la strategia di ricondurre a maggiore “disciplina” monetaria gli altri paesi comunitari, tra cui l’Italia; ciò significava, secondo Caffè, imprimere una temibile piega deflazionistica alle economie dei paesi europei.

Anche qui Caffè faceva tesoro della sua cultura storica che faceva accostare questa linea di politica economica a quella, da lui ritenuta disastrosa del cosiddetto “blocco aureo”, che, negli anni trenta del secolo scorso, aveva indotto molti paesi europei, Italia compresa, a rinunciare agli inevitabili adeguamenti monetari, richiesti dalle svalutazioni della sterlina del 1931 e del dollaro del 1933. Il principale problema sociale che Caffè metteva in chiara evidenza e riteneva trascurato da questo indirizzo di pensiero, come era avvenuto negli anni trenta, era la disoccupazione: “L’omissione che mi è sembrata mancare in tutto il discorso – e la parola non è stata mai fatta – è che in Europa abbiamo circa 10 milioni di disoccupati; né si prevede che il loro numero diminuisca negli anni ottanta”.

Il dubbio di Caffè trovava, poi, un’indicazione più puntuale, inducendolo ad affermare che: “Ora esistono problemi di fondo di carattere reale e problemi di rilevanza politica che hanno spinto a una affrettata unificazione monetaria, nella forma della creazione di una zona di stabilità europea”.

 

Fonte: KeynesBlog