LA POLEMICA SULLA STRUTTURA DEL PARTITO

Il Partito socialista era stato ricostruito sulla base di uno statuto provvisorio che ne sanciva il carattere di partito ideologico, modellato sul tipo di organizzazione politica del movimento socialista negli anni precedenti al fascismo.

Il partito si presentava come un’organizzazione a carattere esclusivamente territoriale, con una struttura elementare: la sezione comunale; la federazione provinciale; la direzione del partito, alla quale si affiancava, come organo straordinario di deliberazione, il consiglio nazionale.

Il carattere territoriale dell’organizzazione risultava ancor più accentuato dal fatto che lo statuto provvisorio poneva un esplicito divieto alla costituzione di più sezioni in un solo comune.

Per i comuni superiori ai 100.000 abitanti, era prevista l’organizzazione di circoli di zona, controllati dalla sezione comunale, che restava sempre l’unica struttura organizzativa locale del partito. La sezione era diretta da un comitato esecutivo, nominato dall’assemblea, con un numero di membri che l’assemblea era libera di stabilire.

La federazione provinciale veniva costituita nelle province nelle quali esistevano almeno tre sezioni comunali. Essa era retta da un comitato eletto dal congresso provinciale.

La direzione del partito risultava composta da 15 membri, 14 dei quali eletti dal congresso nazionale, ed il quindicesimo membro di diritto, nella persona del rappresentante giovanile. La direzione nominava il direttore dell'”Avanti!”, che insieme con il segretario del partito faceva parte di diritto dell’esecutivo di 5 membri, designato dalla direzione.

La Federazione giovanile socialista era strutturata sul modello del partito: sezioni giovanili costituite presso le sezioni comunali; federazioni giovanili provinciali costituite presso le federazioni provinciali del partito; federazione giovanile nazionale, rappresentata nella direzione da un suo membro.

Dal punto di vista del potere decisionale, la struttura del PSIUP è caratterizzata da un forte grado di centralizzazione. Tutto il potere di decisione politica e organizzativa, a livello nazionale, è affidato alla direzione, un organismo ristretto che si è praticamente autoeletto ed è stato riconfermato dall’unica sessione del Consiglio nazionale, quella del luglio 1945. A livello locale le decisioni sono assunte dai comitati di federazione e di sezione.

A differenza del Partito socialista organizzato nel periodo prefascista, il PSIUP presentava fin dalla sua ricostituzione un forte grado di centralizzazione del potere politico dagli organi esecutivi federali a livello provinciale; e dalla direzione sul piano nazionale. Questa struttura era in un certo senso obbligata, perché il partito usciva dalla lotta clandestina che imponeva l’accentramento delle decisioni nelle mani di pochi uomini responsabili, e perché all’indomani della Liberazione il partito accoglieva nelle sue fila un numero di militanti molto più ampio del suo gruppo dirigente, al quale incombeva pertanto la responsabilità di portare l’organizzazione socialista dalla fase clandestina alla fase di aperta vita politica, senza profondi turbamenti, e repentini cambiamenti di indirizzo politico. Il partito venne, pertanto, riorganizzato “dall’alto” né poteva essere altrimenti.

Anzi si può dire che il gruppo dirigente mostrò addirittura un’eccessiva indulgenza nell’aprire le fila della organizzazione anche a persone il cui passato politico lasciava molto a desiderare, e che recava nella nuova milizia quelle caratteristiche negative di opportunismo, di cinismo morale, di conformismo che negli anni successivi finiranno per avere un peso, allora imprevedibile, sulla vita dell’organizzazione socialista.

A noi sembra che la relazione degli amici di “Critica Sociale” rappresentasse abbastanza bene questo stato di cose, quando affermava: “Primo errore fu quello di accogliere nelle fila del partito molta gente priva non solo di preparazione dottrinale, ma di quel minimo di patrimonio di sentimenti e di idee, senza cui non è possibile una coscienza socialista. A parecchi di costoro, non tutti immuni da pecche, si affidarono anche posti di responsabilità. Si mantenne poi, e anzi si aggravò, il sistema che era stato necessario nella fase clandestina: che un piccolo gruppo di dirigenti tenesse in mano tutte le fila d’azione, e deliberasse gli atti che gli altri dovevano compiere. Tutta la vita del partito fu accentrata nelle mani di piccoli gruppi, che distribuirono, tutti o quasi, i posti di lavoro alle persone fedeli alle loro direttive, tenendo lontano i dissenzienti non solo dalle cariche del partito, ma anche dall’azione di propaganda”.

Il panorama che ci presenta il PSIUP alla fine del 1945 è, pertanto, quello di un partito riorganizzato su base territoriale, la cui prima entità associativa è costituita dalla sezione comunale, ma già fortemente centralizzato nelle strutture nazionali e nelle strutture federali intermedie; con una base eterogenea, di scarsa preparazione politica, tra la quale i militanti più esperti della vita di partito sono coloro che hanno partecipato attivamente alla vita delle organizzazioni fasciste, accanto ai vecchi militanti di provata fede e onestà. Il gruppo dirigente che detiene il potere decisionale, politico e organizzativo, è un gruppo dirigente ristretto, che essendo di formazione ideologica marxista, avendo aderito al marxismo in epoca più recente, come i giovani provenienti dal GUF, imprime a tutto il partito un suggello ideologico rigoroso, senza che in realtà la maggior parte dei militanti e dei quadri abbiano nessuna formazione e preparazione ideologica, né marxista né di altro tipo.

In un partito di questo genere le tesi di Basso acquistano una forza di suggestione e una facilità di attuazione che non avrebbero assunto in un partito diverso, o in una situazione storica e politica diversa da quella di quegli anni.

Ciò che Basso propone è in realtà un tipo di partito, che sul modello dell’organizzazione comunista tende ad accentuare, invece che a eliminare, le tendenze negative già in atto nell’organizzazione del PSIUP. Egli prefigura un partito ancor più marcatamente ideologico, marxista, guidato da un apparato omogeneo composto di politici di professione, la cui stessa costituzione comporta un sempre maggiore accentramento del potere politico a livello nazionale e locale; un partito che mantiene la organizzazione territoriale tradizionale, ma smembrandola in forme di organizzazione capillare, che permettono un totale controllo ed orientamento della base da parte dell’apparato, e conferiscono all’azione del partito un maggior mordente di lotta rivoluzionaria.

Un partito, insomma, che Basso ritiene lo strumento più efficace per mettere in grado la classe dirigente socialista di affrontare la prospettiva rivoluzionaria della conquista del potere, sia pure per via democratica, e in essa, nell’ambito dell’unità della classe e dei due partiti, è il Partito socialista, non affaticato come il PCI dall’involuzione stalinista e dai legami con l’URSS, ad assumere la guida della lotta per il potere. Il partito secondo Basso rappresenta la sintesi, nella dinamica della lotta di classe, delle due anime del PSIUP, quella “autonomistica” e quella “unitaria”, e il superamento da “sinistra” della politica collaborazionistica e filostalinista di Togliatti.

Non è un caso, dunque, che l’impostazione di Basso comincia ad emergere proprio nel momento di crisi del fusionismo del Consiglio nazionale del luglio del ’45, sconfitto dalla realtà dei mesi successivi. Infatti la prima polemica sull’aspetto interno del partito reca la data di quella sessione del comitato centrale dell’ottobre nel quale la stessa maggioranza direzionale aveva riconosciuta la inattualità della fusione.

In quell’occasione i rappresentanti di Critica Sociale nel comitato centrale (che era stato costituito nel Consiglio nazionale del luglio, per allargare il troppo ristretto gruppo direzionale includendovi altri elementi dirigenti del comitato dell’Alta Italia) e cioè Saragat, Simonini, Faravelli e Corsi votarono contro la mozione Morandi-Pertini-Silone, dopo avervi in un primo momento aderito. La ragione del mutamento di atteggiamento era nel fatto che questi membri del comitato centrale riconoscevano che la mozione “costituisce un’iniziativa autonoma del Partito socialista… innova i rapporti con il PCI… Non si parla più di fusione, né di partito unico”, come ebbe a scrivere “Critica Sociale” ma essi ritirarono la propria adesione dopo che Nenni aveva proposto alcune norme integrative allo statuto provvisorio, che i rappresentanti della minoranza ritenevano mandassero a vuoto “lo sforzo di rinnovamento democratico di cui la grande maggioranza del comitato centrale aveva avvertito e denunciato la necessita”.

Le norme integrative dello statuto erano dirette a “completare” l’organizzazione territoriale del partito con la creazione di “nuclei aziendali”, con funzioni e competenze di sezioni. Esse introducevano un sistema “cellulare” di tipo comunista, perché tendevano a creare una organizzazione frazionata in tanti nuclei ristretti, facilmente controllabili politicamente, e a contrapporre questi nuclei operai alle sezioni territoriali, nelle quali venivano ad organizzarsi gli aderenti di ceto medio ed intellettuale. Inoltre le norme integrative prevedevano la creazione di un “ufficio politico”, composto di membri della direzione, tutti residenti a Roma, “destinato a sovrapporsi alla direzione e al comitato centrale, e a esautorarli, tanto più che e costituito in maggioranza da coloro che sono sempre stati i più fervidi partigiani della fusione”.

Nelle norme integrative, proposte da Nenni e approvate dal comitato centrale, apparve chiaro alla minoranza, che si raccoglieva intorno alla “Critica”, che andavano profilandosi le tendenze tipiche dell’organizzazione comunista, contraddistinte da una forte capillarizzazione delle strutture di base, e da un processo di accentramento delle decisioni politiche ai vertici del partito nelle mani di pochi uomini, sospetti, peraltro, per le loro non celate simpatie per l’unita organica con il partito comunista.

LO STATUTO BASSO E LO STATUTO FAVARELLI

La polemica posizione dei rappresentanti della minoranza di Critica Sociale contro le norme integrative proposte ed approvate dalla maggioranza nel comitato centrale dell’ottobre del 1945 non fu che il preludio della più ampia e intensa polemica che doveva sorgere nell’inverno 1945-46, cioè nei mesi in cui si preparava il primo congresso nazionale socialista, intorno alla questione dello statuto del partito.

Nell’estate del 1945 la direzione aveva nominato una commissione, incaricata di apprestare un progetto di statuto, da compilare in sostituzione dello statuto provvisorio che ormai non rispondeva più alle esigenze del partito che si andava configurando come una compagine di massa, sia per il numero degli iscritti, sia per l’influenza politica che esso aveva assunto nel paese.

La commissione non si riunì che poche volte, senza concludere i suoi lavori, ma in quella sede si delineò un contrasto di fondo sul modo di concepire l’organizzazione e l’assetto della vita interna del partito tra due concezioni che trovarono la rispettiva concretizzazione in due progetti di statuto: quello che recava il nome di Faravelli, per gli “autonomisti” e quello che recava la firma di Basso per la “sinistra”. I due progetti riflettevano una concezione socialista democratica, propria del gruppo di Critica sociale, in opposizione alla concezione leninista del partito di cui era il più coerente teorico Lelio Basso. Il contrasto verteva, quindi, sui princìpi generali, e sulla funzione che si assegnava all’azione ed alla organizzazione socialista; non sui particolari della struttura organizzativa che si intendeva delineare per il movimento socialista.

Nel preambolo al progetto Faravelli (che era divenuto, dopo molti rimaneggiamenti, ad opera di Mondolfo, di Lami Starnuti, di Vigorelli, di Preti, di Tursi, tutti membri della corrente di Critica Sociale, un progetto collettivo di statuto) viene osservato, in modo pertinente: “I compilatori respingono l’opinione che nega l’intima connessione esistente tra politica e organizzazione e ritiene che alle concezioni politiche sia indifferente la forma organizzativa. Essi sono invece convinti che ogni organizzazione politica deve disporre per la sua affermazione e divulgazione di una organizzazione strumentale costituita in armonia con i princìpi che ispirano l’organizzazione stessa”.

Il progetto prevedeva quindi la costituzione di un partito ispirato al “moderno socialismo marxista”concepito come “organo proprio ed autonomo della classe lavoratrice” e quindi “radicalmente democratico“.

Il progetto Faravelli risultava fondato su una “netta distinzione di competenza e di potere nei suoi organi a salvaguardia dei diritti di soci, cui è riconosciuta piena libertà di pensiero e di critica pur nella disciplina dell’azione” (artt. 2,69,73). La garanzia di libertà di pensiero e di critica consisteva nell’affidamento di giudizi disciplinari ai collegi dei probiviri, resi indipendenti dagli organi direttivi, ai quali il progetto attribuiva una funzione puramente esecutiva, “subordinandoli così strettamente alla sovranità dell’assemblea e dei congressi, che è ripetutamente affermato come un punto essenziale del sistema dello Statuto” (artt. 18, 63).

Il progetto stabiliva inoltre l’obbligo dell’accoglimento “negli uffici rappresentativi e nelle cariche di partito” delle rappresentanze delle eventuali minoranze alle quali doveva garantirsi anche il diritto di esprimere i loro dissensi sulla stampa di partito (artt. 25, 34, 38, 56 ecc.). Esso prevedeva inoltre la proibizione del cumulo dei mandati nei congressi, ed il divieto dei mandati imperativi “i quali trasformerebbero i congressi in inutili logomachie”. Altre garanzie che s’intendevano fornire per la vita democratica, erano: la pubblicità dei bilanci, con il divieto della imposizione di contribuzioni straordinarie da parte della direzione, “divieto che limita nel campo amministrativo i poteri dell’esecutivo”; la esclusione di “indebite interferenze esterne, dirette ad asservire il partito ad altre organizzazioni”.

Il progetto Faravelli era incentrato sul criterio della territorialità dell’organizzazione, temperato dal riconoscimento della esigenza di un largo decentramento delle istanze associative di base e dall’autonomia di tutti gli organi di partito. Esso infatti concepiva la sezione come la struttura associativa di base sulla quale veniva a posarsi tutto l’edificio organizzativo del partito; epperò prevedeva l’articolazione della struttura di base in unioni comunali tra le varie sezioni di uno stesso comune; di sotto-sezioni; di circoli nei rioni e nei quartieri; di gruppi socialisti aziendali: ma queste sottostrutture delle sezioni venivano concepite non come organi che determinano la politica del partito, ma come aggruppamenti che nei luoghi di lavoro si fanno strumenti della politica socialista “elaborata nella sua sede naturale ed insopprimibile che è e resta la Sezione territoriale”.

“Lo statuto respinge le costruzioni corporative ed antidemocratiche che frazionano gli iscritti in categorie e nuclei chiusi nella grettezza di particolari interessi e che spezzano l’unità ideale della classe lavoratrice; ma si ispira invece alla necessita di educare i lavoratori alla preminenza di interessi collettivi, la cui visione e concezione, ripetiamo, è soltanto nelle assemblee delle sezioni, dove le aspirazioni e gli interessi di tutte le categorie si affratellano e si fondono armonicamente”.

La stratificazione associativa di base veniva pertanto considerata come una concretizzazione dell’esigenza di una struttura più articolata di quanto fosse stato possibile nell’organizzazione socialista del prefascismo fondata essenzialmente e pressoché esclusivamente sulla organizzazione sezionale, ma senza sacrificare ad essa l’altra esigenza; parimenti e forse più importante della prima, che reclamava di sostenere come sede naturale delle elaborazioni e delle decisioni politiche l’organizzazione sezionale, nella quale venivano a congiungersi le esperienze di lavoro nelle sedi associative territorialmente ristrette, riguardanti singole categorie, oppure singole imprese.

Il progetto aderiva cioè alla esigenza di una organizzazione funzionale e largamente decentrata, ma rifiutava la capillarizzazione dell’organizzazione cellulare, che sul modello comunista veniva proposta da altri settori politici del partito, considerandola come nociva della democrazia interna, e come un tipo di organizzazione che stimolasse le tendenze corporative e categoriali degli iscritti, a discapito della loro graduale e sicura formazione politica che doveva fondarsi non sulle rivendicazioni di esigenze particolaristiche, ma sulla consapevolezza della preminenza degli interessi collettivi su quelli settoriali e pàrticolaristici.

L’alto grado di decentramento organizzativo veniva a sostanziarsi della relativa autonomia di tutti gli organi di partito (sezioni, federazioni, gruppo parlamentare, lega dei comuni socialisti, organizzazioni giovanili) rispetto alla direzione centrale. Ne risultava, innanzitutto, la “elevazione delle federazioni provinciali ad organi preminenti nel campo della preparazione politica, del proselitismo, dell’organizzazione e della cultura“. Quello che si vuole eliminare, esplicitamente, è il “centralismo anacronistico della direzione, ricalcato sul centralismo della socialdemocrazia tedesca, che fu il modello dell’organizzazione di tanti partiti socialisti, e dello Stato giolittiano. Alla direzione sono riservati così, nel campo organizzativo, compiti di coordinamento, di stimolo e di sostegno; ed in quello politico compiti veramente nazionali”.

Il centralismo della direzione dovrebbe, peraltro, essere definitivamente superato nella forma più progressiva, elevandone la composizione da organo dirigente del partito ad organo rappresentativo di “tutto il movimento operaio nelle sue molteplici forme e manifestazioni”, realizzando “una vecchia idea di Filippo Turati”, secondo la quale si sarebbero dovuti introdurre nel massimo organo dirigente socialista, con voto deliberativo, gli esponenti del gruppo parlamentare, della confederazione del lavoro, della lega delle cooperative, della lega dei comuni, dell’organizzazione giovanile, ecc. “In tal guisa – cosi era commentato il progetto – quella mancanza di coesione fra il movimento politico rappresentato dal partito e le altre branche del movimento operaio, che fu certamente una delle cause principali della nostra disfatta nell’altro dopoguerra, è, per quanto possibile, abolita”.

Il progetto che andò sotto il nome di Faravelli era, pertanto, l’espressione di una lucida volontà politica della minoranza socialista di dotare il partito di uno strumento organizzativo moderno, efficiente e democratico, rappresentativo di tutte le istanze organizzate del movimento di classe, ispirate spregiudicatamente alle esigenze di massima autonomia e del massimo decentramento di tutte le istanze di base, ma ricondotte alla necessaria unità di coscienza politica, di elaborazione decisionale, di efficacia operativa di struttura del partito, che dalla sezione alla federazione, alla direzione, veniva configurato come la spina dorsale intorno alla quale fiorivano e si arricchivano, in forma articolata, tutte le forme associative del partito. Questa concezione organizzativa che faceva della direzione il cervello politico, la sintesi di tutte le istanze associative del movimento reale dei lavoratori e del partito, garantendo l’autonomia di ciascuna di esse, era tutto l’opposto di quella concezione fondata sul centralismo democratico, che ispirò, in coerenza con la particolare visione ideologica e politica del suo autore, il progetto di statuto redatto da Lelio Basso.

Il progetto Basso era ispirato fondamentalmente ai due criteri organizzativi che avevano presieduto alla costituzione del partito di massa: il criterio della centralizzazione delle decisioni: e, correlativamente al primo, il criterio della massima capillarizzazione organizzativa delle strutture di base.

Non crediamo sia necessario qui illustrare nei particolari il progetto di Basso, in quanto esso fu, come quello Faravelli, ritirato prima del congresso di Firenze del 1946; ma, a differenza del primo (che notevolmente modificato avrebbe costituito la base per lo statuto del Partito socialdemocratico che sarebbe nato dalla scissione di Palazzo Barberini), i criteri ispiratori del progetto Basso troveranno in seguito puntuale realizzazione nello statuto che sarà approvato nel 1947 dal congresso che avrebbe dovuto registrare l’uscita delle minoranze, e l’assunzione della segreteria del partito da parte dello stesso Basso.