L’INCIDENZA DELLA POLITICA DEL “FRONTE”

Quello che è forse possibile presumere è che la secessione non provocò una crisi di grave portata nel partito. Al XXVI congresso, al teatro Astoria (Roma, dicembre ’47), i voti congressuali validi erano complessivamente 786.768. Perché il congresso precedente aveva stabilito il divieto delle frazioni permanenti del partito, i congressi provinciali non si svolsero su mozioni separate. In sede di congresso nazionale si ebbero due votazioni: una su una mozione che approvava l’iniziativa presa dal comitato centrale per la formazione del Fronte democratico popolare, che raccolse la quasi unanimità dei voti, mentre soltanto 4387 voti andavano a una mozione di “destra“, presentata da Lombardo e Russo.

Una seconda votazione si ebbe, invece, sul problema della tattica elettorale che vide divisi i delegati fra un ordine del giorno favorevole alla presentazione di liste uniche di Fronte e un ordine del giorno propugnante la presentazione di liste socialiste autonome. Prevalse la posizione favorevole alle liste uniche, con 525.332 voti, contro 257.088 voti. Una ulteriore piccola secessione si ebbe ai primi del febbraio ’48, quando Lombardo abbandonò le fila del partito; tale secessione non poteva avere che un’incidenza marginale. Tra il XXVI e il XXVII congresso (Genova, luglio 1948) si collocò la sconfitta del Fronte popolare, le cui conseguenze negative ricaddero sui socialisti, i quali videro ridursi la loro rappresentanza a soli 42 deputati.

Nel congresso di Genova, che si svolse di nuovo su votazioni per mozioni, il numero degli iscritti risultava sensibilmente diminuito, rispetto al numero degli iscritti al congresso precedente, essendo scesi da 786.768 voti a 531.031 voti.

Le ipotesi che si possono formulare per spiegare le ragioni di un così sensibile calo della forza rappresentata sono due: la prima e che la presentazione di liste di Fronte con i comunisti abbia determinato una crisi organizzativa del partito in coincidenza con la sua crisi elettorale; la seconda ipotesi è che il numero degli iscritti presenti nel congresso dell’Astoria, prima delle elezioni, fosse un dato fittizio, non verificabile in quanto il congresso non si era svolto su mozioni di corrente, per il quale quindi non era stato possibile un confronto reale degli iscritti con il congresso in cui era avvenuta la scissione. Secondo questa ipotesi bisognerebbe giungere al, la conclusione che la secessione del ’47 avesse determinato una forte crisi organizzativa del partito, non manifesta nei dati forniti prima dal segretario del partito e poi in sede di votazione nel XXVI congresso.

È difficile accettare un’ipotesi piuttosto che un’altra: in quanto la secessione, come abbiamo visto, non aveva trascinato con sé tutti gli aderenti alla corrente autonomista, parte dei quali sarebbero rimasti fedeli al partito anche negli anni a venire, e parte invece era destinata ad abbandonare il partito negli anni ’48-’49. Per questa ragione ci sembra più probabile che la crisi organizzativa si fosse verificata dopo l’approvazione della tattica del Fronte unito con i comunisti, senza palesarsi in forme clamorose di secessione, ma con l’esodo silenzioso dei militanti. Tale esodo, infatti, sembra possibile che sia continuato anche dopo il congresso del 1948; in quanto al congresso successivo di Firenze, maggio 1949, prima ancora che si verificasse l’ultima scissione del partito, capeggiata da Romita, i voti validi congressuali erano scesi ancora, raggiungendo il numero di 430.258.

DOPO LA SCONFITTA DEL FRONTE

Al congresso di Genova del ’48 prevalse la corrente autonomista di Riscossa Socialista guidata da Jacometti e Lombardi, che raccolse la maggioranza relativa con 227.609 voti (pari al 42%), sulla mozione di sinistra, che ebbe 161.556 voti (pari al 31,5%), e sulla mozione di destra Autonomia Socialista che raccolse 141.866 voti (pari al 26,5%). Nel congresso di Firenze del 1949 la sinistra otteneva la maggioranza con 220.600 voti (51% dei suffragi espressi), mentre 168.525 voti andavano alla mozione Partito di Classe, presentata da Jacometti e Lombardi; 41.133 voti andavano alla mozione Per il Socialismo.

Nel confronto dei voti congressuali delle mozioni fra i due congressi, sembra chiaro che i 100.000 aderenti in meno al partito fossero gli aderenti che dopo le elezioni del 18 aprile erano rimasti nel partito ed avevano votato per la mozione di destra, che a Genova otteneva 141.000 voti e a Firenze ne otteneva invece solo 41.000. Questi militanti avevano abbandonato il partito, con ogni probabilità subito dopo il congresso di Genova. Dal confronto fra i due congressi risulta anche che la mozione autonomistica di centro perde circa 60.000 voti, che vanno a favore della mozione della sinistra, permettendole di riprendere il controllo delle leve del partito.

Sia esatta la prima ipotesi formulata (la secessione ha inciso in maniera rilevante sulla struttura del PSI) oppure sia esatta la seconda ipotesi (la secessione ha inciso solo in parte sulla struttura organizzativa, mentre l’esodo degli aderenti è dovuto alla tattica del fronte), certo è che il Partito socialista vede in poco più di due anni, dal gennaio del 1947 al maggio del 1949, pressoché dimezzati i suoi effettivi. Infatti dagli 860.000 iscritti del congresso di Firenze del 1946 si è scesi ai 430.000 del congresso di Firenze del 1949. Dei 430.000 iscritti in meno, 250.000 sono quelli mancanti al congresso della scissione di Palazzo Barberini; gli altri sono quelli allontanatisi dal partito a seguito della scelta del Fronte popolare, e negli anni successivi.

Nell’impossibilità di verificare le cause effettive della crisi organizzativa del partito, ciò che ci sembra più probabile è un’ipotesi intermedia fra quelle due formulate, un’ipotesi che individui nel corso delle due cause, la scissione del ’47 e la scelta della tattica elettorale e politica del Fronte, l’origine della crisi politica e organizzativa che riduceva il Partito socialista dalla posizione di più forte partito di massa italiano del dopoguerra alle dimensioni di un movimento di scarso peso politico e di pressoché nulla efficienza organizzativa. In questa situazione tutto il discorso di Morandi, al congresso del 1946, aveva dovuto essere dimenticato, né i problemi dell’organizzazione che si presentavano alla fine del ciclo della scissione e della sconfitta elettorale potevano ormai essere posti negli stessi termini di allora. Si trattava, nel ’46, di dare una definizione organizzativa dell’esperienza di un partito in espansione che creava spontaneamente le sue forme associative di massa, specie nel settore industriale, con larga presa sulle nuove generazioni.

Nel 1949 il problema che si poneva era invece quello di rianimare la struttura politica che aveva subito durissimi colpi e che si presentava in una situazione che si era concordi nel definire come una situazione caotica, di inefficienza organizzativa, di sbandamento dei quadri e dei militanti e di sfiducia nelle possibilità di ripresa del partito.