LA PRIMA CONCEZIONE MORANDIANA DELL’ORGANIZZAZIONE DEL PARTITO

La concezione del partito di Morandi, al XXIV congresso, espressa nella sua relazione organizzativa, era una concezione che rifletteva la condizione di espansione del partito, pur nell’ambito della visione politica “unitaria” alla quale egli aderiva fin da allora.

Inoltre, essa era il frutto di una organica visione dei problemi di struttura del movimento operaio nel suo insieme, che, per Morandi, trovava la sua più proficua maturazione proprio nel periodo che va dalla Liberazione alle vicende della scissione e del Fronte. In questa visione la stessa politica di unità tra PCI e PSI propugnata da Morandi acquistava un significato del tutto originale rispetto alla concezione che di questa politica avevano gli altri esponenti della “sinistra” socialista.

Morandi considerava, nel 1946, “la distinzione dei due partiti come conseguenza di una situazione che non può essere ignorata ma che tende ad essere superata dalla esperienza obiettiva del movimento operaio”. Egli aggiungeva che “la non sempre esatta comprensione del suo carattere obiettivo, che oggi interessa alle radici ogni organizzazione rivoluzionaria della classe operaia, ha dato luogo ad una concezione astratta ed illusoria del problema della riunificazione organica, che e stata intesa come operazione da effettuare con la buona volontà dei partiti e mediante interventi dall’alto tendenti a ridurre il processo a problemi organizzativi”. Morandi, cioè, non vedeva il problema della unificazione organica come il prodotto di un accordo ai vertici dei partiti, ma come il risultato del processo di rinnovamento dal basso delle strutture del movimento di classe, e, quindi, come il risultato della esperienza obiettiva del movimento operaio nella lotta per la costruzione dello Stato democratico.

Il compito che ne doveva derivare per il PSI era in conseguenza quello di escludere “l’equivoco riformistico di un Partito socialista che si lasci docilmente imprigionare nelle maglie del metodo parlamentare“, per cui l’azione politica del partito ancorché presente ed operosa alla costituente ed al governo deve esercitarsi in una sfera assai più ampia evitando che “il partito cada in una sterile politica di mediazione parlamentare fra gli altri due grandi partiti di massa”. A tal fine “occorre mobilitare la parte cosciente della base affinché gli interessi obiettivi della classe lavoratrice abbiano piena ed energica espressione… solo in tal modo si riuscirà a conquistare l’adesione di strati sempre vasti di lavoratori aprendo nuove possibilità all’azione democratica ed aumentando l’efficienza rivoluzionaria del partito“.

Nella impostazione data da Morandi alla relazione al congresso del PSIUP del 1946, affiorano due fondamentali questioni: la prima è quella che nasce dalla intuizione che l’evoluzione della realtà dei partiti rispetto al prefascismo non è circoscrivibile in termini quantitativi, ma che essa muta la natura stessa della organizzazione partitica fino a maturarne il ruolo e le funzioni; la seconda questione è che in conseguenza della trasformazione del partito in organizzazione democratica di massa esso assume compiti che vanno ben oltre i limiti dell’azione parlamentare. E tuttavia il Partito socialista, rispetto agli altri partiti, ha un antecedente storico nella vita della democrazia prefascista perché già in quella fase esso s’era organizzato come partito di massa in funzione di una lotta popolare all’interno dello Stato borghese. Dove sorgeva il problema destinato ad aprire una contraddizione nella vita organizzativa e politica del Partito socialista?

Affermava Morandi: “E se il nostro partito si giova al riguardo di una esperienza di lotta che gli altri non hanno”, con ciò richiamandosi dunque alla esperienza prefascista,non per questo trova nella attuale situazione meno sostanziali mutamenti costituiti innanzi tutto dal fatto che le organizzazioni sindacali sono venute sottraendosi, in ragione del loro sviluppo, ad una diretta e precisa influenza di partito“. Il Partito socialista dunque nel momento in cui si ricostituiva dopo la Liberazione come organizzazione politica di massa veniva a trovarsi in una situazione del tutto nuova, rispetto alla sua precedente esperienza storica, perché con la ricostruzione della organizzazione sindacale unitaria (Patto di Roma) veniva a essere privato della direzione degli strumenti di azione sindacale che della politica di massa costituisce il settore più importante.

Questa contraddizione non poteva non essere avvertita proprio da Morandi che, avendo auspicato e teorizzato l’azione di massa come punto centrale dell’iniziativa socialista, si trovava ad affrontare naturalmente il problema degli strumenti con cui svolgere quest’azione. L’azione di massa, l’esistenza di strutture che permettessero una iniziativa socialista nel mondo del lavoro sono, del resto, la condizione ineliminabile per il consolidamento e lo sviluppo della stessa organizzazione del partito. Lo intuiva Morandi quando affermava la necessità di una organizzazione capillare, complessa e articolata. Traspare già la tendenza di Morandi a risolvere la questione di fondo su un piano esclusivamente di formule organizzative, eludendo il problema politico e di struttura che esso implicava.

Questa posizione morandiana, che prelude alla evoluzione successiva del suo pensiero politico ci viene confermata dal ricorso ad una impostazione empirica ed esclusiva delle scelte di fondo che è chiaramente espressa nella successiva affermazione che la soluzione dei problemi organizzativi non si cava però che dalla esperienza. In questa convinzione la direzione ha permesso e favorito l’esperimentazione che si è fatta in questo campo, senza voler anticipare formule rigide, né forzare un processo naturale di sviluppo, sul quale, se dobbiamo vigilare, è con la sola preoccupazione di evitare fenomeni di congestione e di involuzione antidemocratica.

Due sono dunque gli obbiettivi dell’impostazione organizzativa morandiana del ’46: la salvaguardia ed il consolidamento della democrazia interna di partito e la ricerca di forme organizzative spontanee che rappresentino un adeguamento della struttura del partito alla realtà della lotta per l’edificazione di uno Stato democratico, di una “democrazia” che sappia “profondamente rinnovare il paese dandogli nuovi istituti e nuove forme rappresentative che spezzino la fase trasformista e conformistica del parlamento”.

Allo sviluppo spontaneo di queste nuove forme organizzative, Morandi affidava empiricamente la soluzione del problema e della contraddizione che nasceva dalla ricostituzione di un partito di massa e dalla sua impossibilità di esercitare una reale iniziativa autonoma di classe qualora esso non fosse stato in grado di organizzare strumenti di azione a livello della lotta economica e sociale del movimento proletario.

L’organizzazione dei NAS

Come abbiamo visto al congresso del ’46 Morandi presentava “l’organizzazione decentrata delle grandi sezioni urbane e l’istituzione dei nuclei e dei gruppi aziendali” come “fenomeni tipici di un assestamento spontaneo che il partito ha cercato in questo recente periodo“.

Con l’organizzazione decentrata delle grandi sezioni urbane e con l’istituzione dei nuclei aziendali è probabile che Morandi intendesse risolvere il problema di articolare l’organizzazione del partito in funzione di una iniziativa a livello di massa, una volta assunta come un dato definitivo la costituzione di un’organizzazione sindacale unitaria, in cui coesistevano le tre correnti dei partiti di massa (unità che gli eventi successivi al ’48 dimostreranno come temporanea).

La formula dei nuclei incontrò una decisa resistenza da parte delle correnti autonomiste, nel congresso e oltre, nelle lunghe discussioni sullo statuto del partito successivo al congresso. Ma la contestazione opposta dagli autonomisti a Morandi, che la organizzazione di nucleo avrebbe finito per modellare il partito sul tipo di quello comunista, ricalcandone la organizzazione cellulare, non ci sembra adeguata alla realtà dei fatti. Esse erano dettate dal sospetto che l’organizzazione dei nuclei fosse una trovata delle correnti “fusioniste” per stroncare la democrazia interna di partito, e per imporre ad esso un tipo di organizzazione omogeneo a quello del PCI, onde preparare gradualmente l’assorbimento del partito da parte del PCI come atto finale della politica unitaria.

Alla luce degli impegni assunti da Morandi in sede congressuale, e, soprattutto, alla luce della realtà storica degli anni seguenti, l’opposizione delle correnti autonomiste non sembra fondata. L’organizzazione dei NAS non fu allora, né mai in seguito, assimilabile all’organizzazione delle cellule “nella quale giustamente – riconosceva Morandi – si riscontrano limiti pregiudizievoli alla democrazia del partito“.

Invece l’impegno socialista a organizzare strutture di fabbrica accresceva il peso socialista nel mondo della produzione, stabilendo un canale di contatto tra la politica generale del partito e l’azione a livello di azienda che la vecchia struttura territoriale non permetteva di realizzare.

L’esperienza degli anni successivi dimostra che l’organizzazione dei nuclei finì per risolversi, al di là degli intendimenti morandiani, come un punto di forza della presenza socialista nel mondo del lavoro. Essa ebbe uno sviluppo impensato.

Per di più i nuclei aziendali divennero insieme alla corrente sindacale il centro di forza degli autonomisti, dopo la scissione del ’47 e fino al ’50, come è confermato dalla conferenza organizzativa del ’50, nella quale la direzione unitaria dopo la riconquista del partito si trovò di fronte alla necessità di sciogliere la corrente sindacalista e negare ogni autonomia politica ai NAS aziendali, al fine di stroncare la resistenza dei gruppi operai autonomistici. Del resto, dopo il 1956, a Milano, a Genova, a Venezia, a Firenze, a Roma, a Napoli l’organizzazione socialista nelle fabbriche ha ripreso nettamente una fisionomia autonomistica. Il problema reale dell’organizzazione aziendale consisteva invece nella necessità di definire il ruolo e le funzioni politiche.

Morandi avvertiva l’insufficienza delle forme tradizionali di organizzazione; vedeva la necessità che la nuova struttura del partito dovesse risultare da “un’integrazione organica di forme molteplici, che debbono consentire una più ricca vita di partito”. Avvertì che il “problema che si pone in ordine ai nuclei e alle sezioni decentrate non è tanto quello di stabilire il grado di subordinazione tra stadi diversi di subordinazione”, ma appunto quello di realizzare quella “integrazione organica tra forme molteplici” delle varie istanze del partito, che permettessero al partito di sviluppare la sua iniziativa in tutte le stratificazioni della società civile, mantenendo l’unità politica e la garanzia di vita democratica al suo interno.