L’AVVIO DEL PROCESSO AUTONOMISTICO

A dieci anni di distanza dal 25 aprile, il XXXI congresso del PSI (Torino, 31 marzo-4 aprile 1955) è costretto a riconoscere il fallimento politico della sinistra italiana. La destra “controlla il governo e l’apparato dello Stato direttamente e a mezzo degli uomini che ha nei partiti della maggioranza. I principali mezzi di formazione dell’opinione pubblica sono nelle sue mani.” Così la relazione della direzione del partito al congresso. E prosegue: “Dieci anni or sono giaceva vinta ed umiliata, ma si potrebbe dire con una espressione di Marx che fosse stata abbattuta, come la borghesia francese nel 1848, soltanto per attingere dalla terra nuove forze. È bastato che la sinistra venisse allontanata dal governo, perché a poco a poco essa ripigliasse il sopravvento. Oggi non le basta più controllare il governo e l’apparato statale, ma addirittura vorrebbe mettere a tacere l’opposizione parlamentare e lo stesso Parlamento, i partiti e i sindacati operai“.

Se il piano della destra non è giunto a conclusione, per la sconfitta della legge maggioritaria, ciò è avvenuto perché il PSI ha compiuto un primo passo sulla via della liquidazione del frontismo, presentandosi alle elezioni del 7 giugno con liste proprie ed avanzando, sia pur timidamente, una nuova prospettiva politica in autonomia dal Partito comunista.

La situazione generale del Movimento operaio resta tuttavia molto pesante. Aprendo la discussione congressuale Pietro Nenni rileva accoratamente: “A dieci anni dalla Liberazione costa caro tenere alta nella fabbrica, nella campagna, nei pubblici e privati uffici la bandiera della democrazia. Lo sanno le maestranze della FIAT per le quali la semplice elezione della commissione interna e divenuta una prova di forza e di coraggio”.

L’inizio dei lavori congressuali coincide infatti con l’esito disastroso delle elezioni interne alla FIAT. È il punto più basso della crisi dell’organizzazione sindacale “unitaria” e di tutto lo schieramento socialista e comunista. Non soltanto la politica “frontista” non è riuscita a dischiudere alcuna prospettiva di potere alla classe lavoratrice italiana, ma l’ha precipitata di sconfitta in sconfitta, fino ad una situazione in cui l’appartenenza alla CGIL, e la tessera comunista e socialista fanno oggetto il lavoratore di pesanti rappresaglie padronali, contro le quali tutta la complessa e macchinosa bardatura del sindacato e dei partiti non oppone nessuna reale difesa.

La condizione operaia alla FIAT, come dovunque, è cosi descritta da Nenni: “Gli operai sono spiati, costretti alle loro macchine come automi: si nega loro il diritto di dire, anche negli intervalli di lavoro, una parola che abbia significato di classe; si è introdotto il sistema delle perquisizioni all’ingresso nelle fabbriche per paura di quella potente arma nucleare cui è assurto ogni foglietto di propaganda; gli agenti padronali sorvegliano gli operai oltre la cerchia della fabbrica, nei luoghi di ritrovo o di riunione politica e sindacale; sono ammoniti sin nel seno della loro famiglia da lettere minacciose; sono posti davanti all’alternativa di votare come desidera l’azienda o di perdere il posto di lavoro“.

Ma Nenni si rende perfettamente conto che l’arretramento del fronte operaio è dovuto a cause ben precise, che non risiedono esclusivamente nell’offensiva padronale. Esse vanno ascritte alla debolezza politica dell’azione delle sinistre, le quali dopo il successo del 7 giugno non hanno saputo offrire uno sbocco politico alla precisa indicazione delle masse popolari contro il monopolio democristiano del potere e per una politica di rinnovamento del paese.

“Né gli operai cadranno nell’errore – prosegue infatti Nenni – di limitarsi a denunciare il terrorismo padronale, che spiega molte cose, e non le spiega tutte, ma risalendo francamente alle cause di ordine politico e di ordine sindacale che hanno accresciuto l’efficienza del terrorismo padronale, prepareranno le condizioni di una pronta e vigorosa ripresa”.

Tuttavia l’analisi del gruppo dirigente socialista e dello stesso segretario del partito si arresta a questo punto. Le cause cui vengono fatte risalire le sconfitte operaie sono individuate nella politica di violazione del dettato costituzionale perseguita dalla maggioranza “centrista” e ripetutamente denunziata tanto dai socialisti quanto dai comunisti, come da altri settori del movimento democratico, laici e cattolici. Quel che è del tutto assente è uno sforzo di analisi critica degli errori politici della direzione comunista e socialista del movimento operaio italiano.

Manca, in una parola, una considerazione attenta delle ragioni storiche e politiche che hanno condotto alla resurrezione della borghesia capitalistica distrutta dalla guerra, ed al completo isolamento dello schieramento frontista.

La relazione introduttiva al XXXI congresso contiene infatti una vasta parte dedicata alla riaffermazione ed all’esaltazione della politica “unitaria” con il PCI. Viene ribadita la comune direttiva di “guidare il movimento popolare alla conquista della Repubblica democratica parlamentare“; viene confermata “la validità delle direttive che hanno ispirato nell’ultimo decennio l’iniziativa e l’azione della classe operaia, ed il cui valore non è soltanto di ordine tattico: è stata confermata nei giorni scorsi dalla IV Conferenza Nazionale del PCI; è pienamente riconosciuta dal nostro partito; fa parte del patrimonio comune della classe operaia“.

E tuttavia anche in questa riconferma acritica della validità della politica frontista – niente affatto misurata alla realtà della condizione operaia e della sconfitta politica delle sinistre – si può scorgere un accenno nuovo, come il preludio di un nuovo discorso che si inizia, nella preoccupazione di non negare A passato ma nel contempo di proporre indicazioni nuove per il presente e per l’avvenire. “La politica unitaria di massa non ha soffocato l’autonomo sviluppo dei due partiti”, afferma la relazione.

“La repressione – vi si legge subito dopo – rinserra la solidarietà dei lavoratori, e in primo luogo dei socialisti e dei comunisti, nella strenua difesa dei diritti democratici: ogni possibilità interna di apertura politica, ogni schiarita internazionale, restituiscono all’azione politica unitaria elasticità e individualità.

“Sono cioè i fattori obiettivi della situazione interna ed internazionale, e non rigidi schemi precostituiti, a determinare il carattere delle lotte e dell’iniziativa politica dei partiti operai, nel solco degli interessi solidali di tutti i lavoratori”.

L’unica nota nuova che viene portata dal gruppo dirigente socialista nella rassegna del quadro internazionale riguarda l’affermarsi di forze distensive all’interno stesso del mondo occidentale, in un processo di differenziazione che di per sé smentisce l’identificazione di questo blocco con la politica imperialistica del capitalismo, come invece si continua ad affermare nei documenti socialisti. Si tratta delle “forze che negli ultimi anni hanno ottenuto la fine delle ostilità in Corea e in Indocina e che hanno posto in crisi la CED”. “Se i sindacati americani – prosegue la relazione – sono corrotti dai profitti imperialistici, in ogni altra parte del mondo la lotta operaia e popolare per la pace si radicalizza. L’ultimo congresso del Labour Party si è diviso a metà sulla questione del riarmo tedesco. Il gruppo laburista inglese si è astenuto sulla questione della ratifica dei Protocolli di Parigi. Nel voto sulla CED in Francia, 53 deputati socialisti su cento, cioè la maggioranza, avevano votato contro. Nei sindacati operai dei Paesi scandinavi l’opposizione al riarmo tedesco è assai forte”.

Seppure il riscontro di queste forze “distensive” soltanto in funzione della loro opposizione agli armamenti europei e tedeschi in particolare sembra riecheggiare analoghe votazioni positive che in quegli anni venivano fatte dalla propaganda sovietica e dai partiti comunisti occidentali, indubbiamente interessate a sostenere le posizioni di quelle forze politiche che all’interno del mondo occidentale ostacolavano le misure di riarmo; questo atteggiamento del PSI trova spiegazione soprattutto nell’esigenza per il partito di definire uno spazio politico suo proprio nel quadro della “sinistra” italiana ed occidentale.

Il palesarsi di queste nuove posizioni nello schieramento della socialdemocrazia europea viene subito colto dai dirigenti socialisti come il segno della possibilità di sviluppare un’iniziativa del partito che ne caratterizzi l’azione, senza dover affrontare il tema di fondo dei rapporti con il cosiddetto mondo del socialismo. Infatti la relazione affermava che “una tale situazione nello stesso settore socialdemocratico conferma come nella sua coraggiosa e coerente campagna per la pace il partito sia tutt’altro che isolato. Esso incontra larghi consensi in Europa ed in Asia“. Ma anche queste considerazioni come tutte le iniziative assunte, appaiono viziate dalla funzione che il PSI sembra voglia assegnarsi di mediatore tra queste nuove forze distensive e la forza da essi ritenuta quella pacifica per eccellenza, l’Unione Sovietica.

E significativo, a questo proposito, che venga ricordato come “il viaggio del segretario del partito a Londra nel luglio scorso fu l’indice di una situazione in via di lenta ma costante trasformazione. Dopo di allora i capi laburisti, col loro viaggio a Mosca e a Pechino, hanno fatto cadere alcune delle incomprensioni esistenti tra l’Est e l’Ovest, e in Germania la più importante sezione dell’Internazionale socialdemocratica ha dato all’opposizione al riarmo forme radicali di lotta culminate nello sciopero generale del 22 gennaio 1955”.

L’impressione che il PSI volesse assumersi in quel momento il ruolo di mediatore tra le forze di opposizione al riarmo occidentale e i paesi dell’Est, funzione soltanto formalmente autonoma dalla politica del blocco comunista, trova conferma nella assoluta carenza di una linea di politica estera che non si limitasse ad una generica riaffermazione del principio della “neutralità”, e nella decisa opposizione agli impegni militari dell’Italia, che aveva trovato la sua concreta applicazione nella lotta parlamentare e di piazza contro l’UEO. Al di la di queste poche cose, tutte riconducibili alla posizione di politica estera assunta fin dal congresso di Firenze del 1949, non c’è niente di sostanzialmente nuovo al congresso di Torino: se non per quanto riguarda la nota di ottimismo sugli sviluppi positivi della situazione internazionale, verso una condizione di minore tensione tra i blocchi.

Questa fiducia nella distensione, che sempre caratterizza la posizione internazionale dei socialisti Italiani, fa però velo alla comprensione della reale situazione dei rapporti politici e militari fra i blocchi, togliendo ai socialisti ogni possibilità di un’efficace iniziativa politica in Italia e in Europa per coagulare su una piattaforma nuova quelle forze che andavano manifestando la loro insoddisfazione per la contrapposizione manichea tra libertà e totalitarismo, tra socialismo e capitalismo. Essa toglieva forza anche al tentativo incipiente del PSI di svolgere il ruolo autonomo di protagonista della politica di “apertura a sinistra” che esso stesso andava indicando come l’unica via d’uscita alla situazione d’involuzione nella quale rischiava di cadere la democrazia italiana e di trascinare in questa caduta tutte le conquiste ottenute dalla classe lavoratrice con la lotta di Resistenza e con la vittoria del 2 giugno 1946.

Questo perché è proprio sul terreno della politica estera che affonda le sue più salde radici l’intesa frontista con il PCI, secondo le parole dello stesso Rodolfo Morandi in questo congresso di Torino. È Morandi infatti a definire la politica “unitaria” come “comune opposizione a ogni attentato all’indipendenza della nazione e alla pace nel mondo, presupposti indivisibili della libertà e della certezza del lavoro; ciò che doveva tradursi nell’avversione all’intervento economico e militare degli Stati Uniti in Europa e in Asia, che ebbe inizio con l’enunciazione della famigerata dottrina Truman, dalla quale sarebbero nati il Piano Marshall prima ed il Patto Atlantico poi”.

Nel momento in cui il PSI deve apprestarsi ad un superamento concreto della politica “unitaria” non è sufficiente l’affermazione (questa “a partire dal ’50-51 si concretizza in una azione sempre meglio individuata dei due partiti“) se non vengono affrontati i problemi della distinzione di fondo tra le due iniziative politiche dei rispettivi partiti, sul piano della politica nazionale e su quello della politica internazionale. Senza di che la politica “unitaria” non poteva dirsi superata se non sul piano dei suoi strumenti di applicazione, quello del patto d’unità d’azione, che ormai appartiene al patrimonio in soffitta dei due partiti. La politica “unitaria” resta nei suoi legami organizzativi e strutturali tra i due partiti; resta nei comuni atteggiamenti di solidarietà incondizionata al mondo sovietico, anche se sul piano della politica interna i socialisti sono di fronte al problema di dover operare in condizioni del tutto nuove per evitare al movimento operaio italiano una definitiva sconfitta.

La scelta che essi evitano a Torino, l’impegno che accantonano rispetto ai problemi di una radicale revisione della politica “unitaria” verranno proposti a pochi mesi di distanza dai drammatici avvenimenti internazionali, dalla crisi del mondo comunista che esploderà nel corso del 1956. Nella Cina comunista si preparano, già in quei mesi della primavera 1955, le condizioni della polemica con l’Unione Sovietica. Siamo ad un anno dai grandi rivolgimenti del mondo comunista, in Unione Sovietica come in Polonia e Ungheria.

Nella relazione della direzione e del segretario del PSI, nei discorsi di Morandi, di Lombardi, di Basso, di Vecchietti (che più a lungo si sofferma sui problemi internazionali), di tutto questo non appare traccia. Non c’è il presagio di questi avvenimenti che scuoteranno l’organizzazione dei blocchi; non vi è neppure la sensibilità ai sintomi che già precorrono le vicende che si svilupperanno dal 1956 in poi.

Nel mondo sovietico una lotta accanita si svolge, dietro le quinte, tra gli epigoni di Stalin. La crisi dei regimi stalinisti in Ungheria, in Polonia, in Romania volge ad un epilogo drammatico. I dirigenti che scorazzano su e giù per le capitali del mondo comunista non hanno avvertito nulla, non hanno avuto sentore di nulla. “Tutta Varsavia sapeva, e nessuno parlava“, dirà Nenni al successivo congresso di Venezia, rievocando, in un uragano di applausi, gli avvenimenti della Polonia sotto il terrore staliniano. A Torino un applauso addirittura oceanico, cronometrato “un minuto primo e 55 secondi”, saluta invece l’affermazione che il valore della politica “unitaria” tra PSI e PCI è fuori discussione. Un applauso che accomuna il gruppo dirigente del PSI a quello comunista: cioè con coloro che a Roma, come a Varsavia, come a Mosca, come a Budapest “sapevano”. Ma “nessuno parlava”. Nessuno parlava anche al congresso di Torino, a poca distanza dalle repressioni antisindacali alla FIAT, ma a molta distanza dalle repressioni poliziesche dei regimi stalinisti ancora in piedi nei paesi dell’Europa orientale.

Tutto ciò che riguarda il mondo comunista, ed il cataclisma che Kruscev susciterà al XX congresso dell’PCUS, viene liquidato dal gruppo dirigente socialista in queste poche righe della relazione congressuale: “Non appena si è delineata nel mondo una prospettiva di allentamento della tensione internazionale, l’URSS e le democrazie popolari si sono affrettate ad incrementare la produzione dei beni di consumo rispetto all’industria pesante e a ridurre le spese militari con importanti conseguenze di ordine interno e di ordine internazionale”.

Non si sa bene se occorra mettere in risalto più l’imperturbabile capacità di nascondere ai lavoratori ed ai quadri socialisti la realtà dello stalinismo, oppure la completa insensibilità ai problemi del movimento operaio, della sua partecipazione democratica alla edificazione del socialismo, e la completa insensibilità alle questioni di fondo della situazione mondiale, che pure, si afferma, condizionano pesantemente le tendenze di sviluppo della situazione interna, e da esse si fa dipendere la stessa “individualità” della politica del partito. In realtà lo schema entro il quale ci si muove, senza nessuno sforzo neppure di aggiornamento (e siamo a due anni dalla morte di Stalin), e ancora e sempre quello della contrapposizione manichea tra il mondo del capitalismo e quello del socialismo.

Le cause di inasprimento o di allentamento della tensione internazionale sono da ricercare, secondo la direzione socialista, sempre ed esclusivamente nella politica americana; così come nella gravosa tutela americana sul nostro paese sarebbe da ricercare la ragione dell’involuzione antidemocratica del governo nazionale. Perfino un leader dell’autonomismo (per quanto ben mimetizzato, in quegli anni) come Riccardo Lombardi non sfugge al semplicismo di questo schema.

Cosa contrasta e sconfigge la pervicace politica aggressiva del blocco occidentale guidata dagli Stati Uniti d’America? Naturalmente e la volontà di pace dell’Unione Sovietica, che si desume come petizione di principio dall’accettazione dell’URSS come paese-guida del socialismo, che contrasta le mire aggressive del mondo occidentale. “Nelle reiterate proposte sovietiche di riconvocare i Quattro Grandi per risolvere definitivamente la questione tedesca e nella convocazione andata a vuoto della conferenza generale degli Stati europei per organizzare la sicurezza continentale europea, c’è quanto basta a distruggere la leggenda dell’aggressività dei paesi dell’Est con la quale si vorrebbe giustificare un ulteriore aumento delle spese militari al seguito dell’America impegnata in una frenetica corsa al riarmo atomico”.

L’aggressività dello stalinismo è pertanto invenzione dei circoli aggressivi statunitensi, e il pericolo per la pace nasce dalla corsa agli armamenti atomici degli USA, cui si accodano i paesi europei. Nelle linee di questa rappresentazione manichea della realtà internazionale si colloca così l’adesione a tutte le proposte sovietiche, adesione che toglie ogni significato alla politica di neutralità propugnata dal PSI e riconfermata al congresso di Torino.

Per quanto riguarda l’analisi della situazione internazionale, tutta l’attenzione del gruppo dirigente socialista appare rivolta alle “contraddizioni” che cominciano a manifestarsi all’interno del mondo occidentale; con una disamina degli avvenimenti e delle forze che in esso operano che non brilla certamente per acutezza ed originalità. Eppure la relazione della direzione non mancava di ricordare che “Lenin osservava come molti degli errori del movimento operaio nel periodo susseguente allo schiacciamento della Comune fossero la conseguenza di un’errata valutazione della situazione mondiale“. Non si accorgevano i dirigenti socialisti che molti degli errori di direzione del movimento operaio italiano in questo dopoguerra erano la conseguenza di una altrettanto errata valutazione della situazione mondiale.

Ecco cosa pensava la direzione socialista di questa situazione nel momento in cui si apre la discussione congressuale: “Lo spirito e la capacità offensiva del blocco capitalista sono in diminuzione. Le formule più arrischiate della politica americana di forza sono state accantonate. Il blocco è diviso e sui problemi asiatici ha rischiato di sfasciarsi nell’estate scorsa mentre era riunita la conferenza di Ginevra e rischia di andare verso una nuova crisi di fondo per la posizione che l’America assume nella questione di Formosa. In Europa il fallimento della CED è stato solo parzialmente compensato dagli accordi di Parigi sulla UEO. Il riarmo tedesco divide irreparabilmente l’Europa e la stessa Germania, e allarma le popolazioni di tutti i paesi”. Persistono sull’orizzonte internazionale elementi di pericolo, fattori di turbamento, tuttavia, afferma il segretario del partito, “la valutazione positiva delle prospettive nella difesa della pace che abbiamo dato nella relazione precongressuale può essere confermata dal Congresso”.

Il gruppo dirigente del partito sembra che non sappia o non voglia distaccarsi da una accettazione della strategia frontista, pur ravvisando con esattezza gli elementi d’involuzione della situazione politica generale, ed acquisendo la consapevolezza di una maggiore individualità dell’azione del partito. Vi è al fondo di questa contraddizione più che la naturale vischiosità di ogni classe dirigente a criticare se medesima (per quanto la relazione direzionale si concluda con un richiamo a “ciò che Marx diceva delle rivoluzioni che criticano continuamente se stesse“, “si fanno beffa in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure e delle miserie dei loro primi tentativi” ritenendolo valido anche “per gli avvenimenti Italiani degli ultimi dieci anni”) un errore di analisi della situazione italiana ed internazionale. C’è, da un lato, ancora l’ostinazione a identificare l’azione per la pace e la lotta per il socialismo con l’azione internazionale del mondo comunista: il che rende priva di significato reale la politica della neutralità che il gruppo dirigente del PSI ha fatto propria dopo averla criticata quando essa veniva proposta dalla maggioranza “autonomista” del congresso di Genova.

C’è, in secondo luogo, da registrare l’assoluta assenza di una seria e approfondita disamina delle linee di sviluppo della società italiana. Nella sua relazione al congresso, Nenni riconosce che “la società italiana ha fatto certamente dei progressi notevoli nel decennio trascorso. La ricostruzione è assai avanzata”, senza però approfondire le ragioni e le linee di tendenza di un’avanzata capitalistica in forme dinamiche del tutto impreviste dal movimento operaio italiano, ed anche dai socialisti, che avevano contestato lungamente la capacità dei monopoli di promuovere e sostenere il progresso economico del paese, sia pure in forme differenziate e squilibrate, che lasciavano irrisolti “i problemi centrali della società italiana” che possono essere avviati a soluzione con uno “sforzo della collettività e dello Stato” tendente “sempre più a far sparire l’immensa distanza che esiste non soltanto tra ricchi e poveri, ma anche tra il tenore medio di vita e le condizioni di esistenza di una larghissima parte della popolazione, costretta entro limiti sempre più intollerabili”.

Se tutto ciò non è avvenuto, se ciò che lo Stato ha compiuto “negli ultimi dieci anni e del tutto insufficiente e frammentario”, la ragione va ricercata per Nenni nella “tirannia della destra economica, nel fatto che forze economiche, di per sé estremamente potenti in ogni società (i monopoli, la grande industria, la grande proprietà agraria, l’alta burocrazia civile e militare che costituiscono la destra economica e politica), esercitano una specie di tacita ed anche non tacita tirannia, dettando legge al Parlamento, ricattando il governo”.  “C’è stato un tempo in cui si è potuto dire che il tarlo segreto della società italiana fosse il misoneismo, la ristrettezza di visione del ceto padronale, soprattutto agrario. Questo fenomeno esiste tuttora, ma accanto ad esso è sorta la potenza dei monopoli”. La grande azienda, elemento di progresso, ha dato luogo ai trusts, alle boldings, alle società a catena, cioè a quel complesso di attività monopolistiche che concentrano nelle mani di pochi una potenza economica e politica che soffoca la vita democratica del paese, crea un nuovo feudalismo, pone allo Stato i due problemi del controllo e della nazionalizzazione, se esso non vuole essere soverchiato. Diceva Roosevelt che 1a libertà di una democrazia non è sicura se il popolo tollera l’aumento di potere economico privato sino al punto in cui diviene più forte dello Stato democratico stesso””.

Nenni che, come lui stesso confessa, non si trova in grado di poter compiere una più approfondita analisi dello sviluppo dell’economia capitalistica, intuisce tuttavia con la sua fine sensibilità di politico qual è il vero problema che si pone di fronte al movimento operaio in una società che si avvia ad un livello elevato di industrializzazione: quello dei rapporti tra lo Stato ed il potere economico delle grandi concentrazioni industriali, finanziarie, agrarie. Il controllo delle leve di direzione del processo di sviluppo economico può infatti avvenire solo a livello del potere statale. Lo sviluppo dello Stato come struttura economica, l’estensione delle sue attività e dei suoi interventi in ogni settore della vita produttiva, intesa nel senso più ampio, dalla produzione alla distribuzione, ne fa il volano di direzione di tutta la vita economica nazionale.

La politica frontista isolando il movimento operaio ed escludendo lo schieramento delle sinistre dalla direzione della società e dello Stato, ha permesso proprio alle forze economiche private di esercitare una pressione e un controllo efficaci sull’uso degli strumenti pubblici di direzione e di controllo dell’economia nazionale. L’assenza delle forze popolari dal governo del paese ha permesso a quelle forze economiche e politiche che erano enormemente indebolite dal crollo del regime fascista di risollevare il capo e di usufruire in proprio del flusso imponente di aiuti americani per operare lungo le linee di una ricostruzione che, insieme alla ripresa economica del paese, assicurava la ripresa del tradizionale predominio delle classi capitalistiche.

Non era forse in questa situazione che la direzione socialista constatava a Torino la conferma dell’esattezza dell’analisi compiuta dall’on. Riccardo Lombardi, quando proponeva al congresso dell’Astoria (1947) ed ai successivi congressi la prospettiva politica di una iniziativa propria del partito per operare nell’ambito della realtà del piano Marshall onde sottrarre l’uso degli aiuti e delle commesse americane al controllo esclusivo dei gruppi economici privati, e dare al movimento italiano una capacita d’intervento che avrebbe contestato ai gruppi monopolisti le posizioni di potere che essi avevano recuperato, esteso e rafforzato proprio in virtù dell’isolamento cui la politica comunista aveva condannato i lavoratori Italiani?

Nenni e la direzione del PSI (Lombardi compreso) sembrano badare meno alla critica del passato che alla necessita di prospettare e definire una linea d’azione che permetta alla classe lavoratrice italiana di trovare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui è stata cacciata. Il partito, e soprattutto i suoi quadri intermedi e i dirigenti di formazione morandiana, sono talmente imbevuti della mitologia unitaria somministrata a piene mani nel corso degli ultimi anni, che aprire un discorso sugli errori di questa politica appare più che mai arduo e, forse, improduttivo, almeno a breve scadenza. Solo due anni dopo, con le rivelazioni del XX congresso, i dirigenti socialisti – sull’onda dello “choc” provocato dalle rivelazioni di Kruscev – saranno in grado di avviare una radicale revisione della politica frontista.

Ma al congresso di Torino questo non avviene, e probabilmente non poteva avvenire. Il discorso, dalle ragioni della sconfitta del movimento operaio si sposta sulle prospettive di soluzione da dare alla situazione che si e venuta creando, nel senso di uno sviluppo della politica del dialogo con i cattolici per affrontare i problemi dello sviluppo democratico, e della soluzione dei gravi squilibri economici e sociali lasciati aperti dal processo di ricostruzione capitalistico.

Ci si domanda, in questa sede, con quali possibilità reali di successo può essere avviata la politica dell’incontro tra socialisti e cattolici, mentre si riconferma la validità della conquista del potere nella Repubblica democratica insieme con i comunisti, e mentre non si è in grado di svincolare la politica della neutralità dai lacci della solidarietà con il mondo comunista, dei quali la permanenza attiva del PSI tra le fila dei Partigiani della Pace (persino Riccardo Lombardi ne è il vicepresidente mondiale!) rappresenta solo l’aspetto più vistoso.

Pure, esaminando gli atti del congresso di Torino, si ha la sensazione che il gruppo dirigente socialista ritenesse possibile un esito positivo di tale politica a breve scadenza.

Per queste ragioni, nella II legislatura repubblicana, il PSI avvia una tattica più flessibile, che favorisce l’avvio di un dialogo con il movimento cattolico e con la stessa Democrazia cristiana. È il tema, questo, del congresso socialista di Torino (31 marzo – 4 aprile 1955) che è il XXXI del partito. Nenni, nella sua relazione, lancia l’obiettivo dell'”incontro tra le masse socialiste e le masse cattoliche“, che viene accolto dallo stesso Morandi, e sanzionato dalle conclusioni dei lavori congressuali, sia pure con riserve e ambigue interpretazioni da parte dell’apparato.

Tutta l’opinione pubblica ed il mondo politico seguono con crescente interesse l’evoluzione della linea politica del PSI, ed i segni sempre più frequenti che esso dà di maggiore indipendenza dal PCI. I socialisti abbandonano, sia pure senza rotture clamorose, il Movimento dei Partigiani della Pace, cui avevano preso parte negli anni della politica “unitaria”, sviluppando invece i loro contatti con vari partiti dell’Internazionale socialista, accentuano la loro propensione per una politica di distensione nel mondo, pongono l’esigenza di un superamento della contrapposizione tra blocchi contrapposti.

Un’occasione storica viene dalla denuncia dei crimini dello stalinismo fatta da Kruscev nel suo rapporto al XX congresso del PCUS nel 1956.

Il decesso di Morandi segna la fine di un’epoca, essendo egli stato l’alfiere della politica “unitaria“, anche se gli ultimi due anni della sua vita lo avevano visto più attento alle esigenze di far corrispondere l’azione del PSI ai problemi dello sviluppo della democrazia italiana.

S’inizia una fase nuova del PSI. Nell’estate del 1956 c’è a Pralognan l’incontro tra Nenni e Saragat, nel quale i due leader attestano il riavvicinamento tra le posizioni ideali e politiche dei due partiti. Ma la reazione dell’apparato che resta fedele in larga misura alle impostazioni morandiane non tarda a venire in luce.

In occasione della rivolta ungherese e della successiva repressione dell’esercito russo che interviene, occupando l’Ungheria, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, il conflitto tra quelle che ormai sono due anime antitetiche del socialismo esplode: mentre i “nenniani” (cioè, oltre il segretario del partito, Lombardi, Mazzali, De Martino, Mancini, Cattani ed altri) condannano duramente l’invasione sovietica, la “sinistra” (Vecchietti, Valori, Lizzadri, Gatto) ne prendono le difese. Da allora, questa corrente verrà chiamata “carrista“, appunto perché in quella occasione appoggiò i “carri armati” che entrarono a Budapest.

I conti vengono fatti al congresso che si svolge a Venezia, dal 2 al 7 del febbraio 1957. Era il XXXII dei congressi socialisti, e fu certamente un congresso di portata storica. Esso fu accolto dal saluto del cardinale Roncalli, allora titolare della diocesi di Venezia, che dopo pochi anni sarebbe divenuto papa Giovanni XXIII. Seguito con attenzione da tutto il mondo politico nazionale, e da molti settori internazionali, a cominciare da quelli del socialismo europeo, rappresentati a Venezia dal prestigioso leader laburista Aneurin Bevan, esso si svolse in un clima di grande tensione politica, dominato dalla personalità di Nenni, che vi tenne un discorso tra i più belli della sua lunga carriera, e che commosse il pubblico dei delegati e degli invitati.

Nenni rievocò con accenti indimenticabili l’oscura notte dello stalinismo, ricordando come “a Varsavia, tutti sapevano e nessuno parlava”. Affondò con lucidità la sua critica storica e politica, ribadendo quanto già scritto su Mondo operaio, che bisognava “risalire dagli errori di Stalin alla natura del sistema“; rivendicò la natura democratica del socialismo in contrapposizione a quella totalitaria del comunismo al potere; e, per quanto riguardava la situazione italiana, definì i tratti salienti dell’autonomia socialista, dell’iniziativa del PSI, volta a creare un’alternativa democratica al “centrismo“.

Gli oppositori non osarono venire allo scoperto. Accettarono formalmente l’impostazione nenniana, votando all’unanimità il documento conclusivo, ma nelle votazioni a scrutinio segreto per l’elezione del comitato centrale manovrarono in modo da ottenere la maggioranza.

Tuttavia, gli uomini dell’apparato non ebbero né potevano avere la possibilità di assumere la guida del partito, che rimase affidata a Nenni, rieletto segretario, affiancato da ben quattro vicesegretari: due della “sinistra”, Basso e Vecchietti; due “autonomisti“, Mazzali e De Martino.

Nonostante il colpo di mano nelle votazioni per il comitato centrale, il congresso dimostrò al paese che la politica del PSI era fervidamente autonomistica e democratica. Al congresso portarono la loro adesione l’USI (Unione Socialisti Indipendenti) di Valdo Magnani ed Unità Popolare, la formazione che si era costituita contro la legge maggioritaria nel 1953, e che aveva tra i suoi uomini più rappresentativi, oltre a Parri, che però non entrò nel PSI, Calamandrei, Codignola, Vittorelli.

Pochi mesi dopo, confluiva nel PSI il MUIS, costituita dalla sinistra socialdemocratica di Zagari, Matteotti, Solari, Manca, che si era scissa dal PSDI, il partito di Saragat.

La linea nenniana fu premiata alle elezioni dell’anno seguente il congresso di Venezia, nel 1958, quando il PSI conseguì il suo miglior successo in voti, dopo il massimo storico del dopoguerra, del giugno 1946.

Le liste socialiste ottennero il 14,3%, e tutta una nuova generazione di dirigenti entrò a far parte del Parlamento.