FILIPPO TURATI «RIFARE L’ITALIA!»

Discorso pronunziato alla Camera dei Deputati il 26 giugno 1920 sulle comunicazioni del governo (Ministero Giolitti), 1920.

dall’introduzione di Aldo G. Ricci all’edizione Talete, 2008

Uno dei testi più importanti della tradizione socialista italiana, ispirato al metodo delle riforme possibili e condivise con i settori più dinamici e aperti del mondo imprenditoriale e dei tecnici, è certamente il famoso discorso pronunciato da Filippo Turati alla Camera il 26 giugno del 1920, un discorso dal titolo quanto mai emblematico e destinato a essere più volte ripreso, «Rifare l’Italia». Il discorso è accompagnato da due testi politicamente importanti e utili per inquadrarlo nel dibattito tra le correnti socialiste del tempo: il primo è l’intervento pronunciato da Turati al convegno di Bologna, nell’ottobre del 1919 (Socialismo e massimalismo), nel quale il leader riformista segna le distanze dalla componente maggioritaria massimalista, che in attesa di una improbabile rivoluzione spontanea condannava il partito all’inazione, e l’altro è il discorso del 19 gennaio 1921 al congresso di Livorno (Socialismo e comunismo), dove Turati saluta con inconfessata soddisfazione l’uscita della frazione comunista dal Partito Socialista. (…)

All’indomani della fine del conflitto, Turati è uno dei pochi leader del socialismo italiano a non soffrire del complesso «sovietico». Fare in Italia come in Russia è una parola d’ordine che gli ispira orrore e che continuerà a stigmatizzare negli scritti e nei discorsi, senza curarsi delle reazioni che tali posizioni provocano in una base ormai fortemente suggestionata dal mito dell’Ottobre russo. Negli anni precedenti la guerra, la sua «sintonia asimmetrica» con l’azione politica di Giolitti aveva consentito al movimento operaio di raggiungere una serie di importanti conquiste sociali e normative che il leader liberale di Dronero è ben lieto di favorire, convinto com’è, fin dalle sue prime esperienze politiche, che il miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici e lo sviluppo della scolarizzazione non solo rappresentino in se stesse delle conquiste di civiltà, ma favoriscano alla lunga il consolidamento dello stesso regime democratico-liberale, legando alle istituzioni quelle masse proletarie che solo in minima parte erano state coinvolte nel processo unitario e poi nel consolidamento dell’Italia come Stato moderno.

Con questa strategia, l’accordo di fondo di Turati è completo, al di là delle schermaglie d’occasione e dei contrasti spesso più apparenti che reali. Il leader del riformismo (…) non pensa più che a un programma minimo di conquiste sociali debba poi seguirne uno massimo, ovvero la fuoruscita dal sistema capitalista, per usare un termine ancora recentemente usato con gran sussiego da molti maîtres à penser della sinistra italiana. Egli ha messo a fuoco che, come afferma Bernstein, «il movimento è tutto», ovvero quello che conta è la direzione che caratterizza i cambiamenti introdotti dalle riforme (…) Turati non ha fretta di vedere il proletariato italiano, attraverso il suo partito di riferimento, ovvero il partito socialista, approdare alla gestione diretta del potere. (…)

Sostituire la borghesia nell’impresa di gestire le contraddizioni, in particolare dell’infuocato dopoguerra, appare a Turati non solo sbagliato, ma pericoloso per il futuro stesso del socialismo, che non può, a suo modo di vedere, diventare il cane da guardia di un capitalismo in difficoltà. In questa prospettiva va inquadrata anche l’incomprensione del Nostro nei confronti del Fascismo montante, che gli fa sottovalutare l’opportunità di sostenere Giolitti nel programma di riforme da lui stesso delineato al momento della formazione del suo ultimo governo. (…) Ma resta convinto che al futuro appuntamento con gli impegni di governo il partito socialista dovrà presentarsi a ranghi compatti, maggioritario e fortemente saldato al movimento sindacale. L’adesione di una minoranza riformista a un governo Giolitti gli sembra un controsenso, ovviamente perché sottovaluta l’impatto politico più che numerico di tale scelta. E’ questo il contesto in cui nasce «Rifare l’Italia».

Un contesto di ripetute tentazioni ministeriali, di offerte a mezza bocca e di rifiuti ufficiosi. (…) Di fronte alla rapida caduta di Nitti, per l’improvvida decisione di aumentare il prezzo del pane, e al reincarico a Giolitti, che si presenta alla Camera il 24 giugno, con un discorso prevalentemente improntato al risanamento fiscale, che ha perduto quegli accenti riformatori di ampio respiro che avevano caratterizzato il programma enunciato a Dronero nella campagna elettorale dell’anno precedente, Turati decide che è arrivato il momento di pronunciare l’intervento a cui sta lavorando ormai da diverse settimane, soprattutto per sollecitazione della Kuliscioff.

Il discorso del 26 giugno 1920 rappresenta comunque il massimo sforzo del leader del riformismo socialista per dare una risposta concreta ai bisogni di un Paese uscito radicalmente trasformato dai quattro anni di guerra: (…) un paese, soprattutto, che si presenta in preda a una profonda crisi morale e civile, che alterna scioperi privi di contenuti (le polemiche di Turati contro la «scioperomania» sono infinite) a occupazioni di terre e stabilimenti realizzate senza alcuna strategia politica (la fallimentare occupazione delle fabbriche, neutralizzata da Giolitti, sarebbe avvenuta nell’autunno successivo), in attesa di una rivoluzione salvifica che non si sa né chi dovrebbe fare né come potrebbe essere realizzata.

«Rifare l’Italia», scritto in poco più di un mese, ma pensato certamente da molto più tempo, vuole essere la risposta riformista a tutto questo. Come è stato detto, non è un programma di legislatura, ma un disegno complessivo di trasformazione del Paese che può essere realizzato solo da una o più generazioni di volenterosi, mobilitati tra imprenditori, tecnici e operai. Il discorso è allo stesso tempo un invito alle forze migliori del mondo liberale (Turati pensa a un impossibile connubio Giolitti-Nitti) perché superino le rivalità e collaborino alla salvezza dell’Italia, ma è anche un sonoro rimprovero al nullismo propositivo del minimalismo socialista, unito all’invito a sostenere quelle forze liberali che fossero in grado di farsi carico delle esigenze del momento. (…)

All’appuntamento del 26 giugno 1920, Turati si presenta con un bagaglio di documentazione ragguardevole, accumulata attraverso la lettura di opere di autori stranieri del dopo-guerra destinate in seguito a diventare dei classici ma soprattutto utilizza molte delle conclusioni formulate da Walther Rathenau nel suo saggio «L’economia nuova», scritto nel 1918 e pubblicato in Italia l’anno successivo, in favore di un’economia regolata suscettibile di eliminare sprechi e ingiustizie. E ancora, Turati attinge a piene mani alle opere e ai consigli dell’ingegnere idraulico Angelo Omodeo, autore di testi fondamentali nel settore, fautore di una elettrificazione intensiva del Paese, e inoltre compagno di antica data, vicino alle posizioni di Bissolati e convinto della necessità che i socialisti debbano passare dal terreno delle agitazioni e dei proclami a quello delle proposte.

Il suo contributo al discorso non è né marginale né settoriale, ma sostanziale. Sia attraverso i rapporti diretti con Turati, sia attraverso la mediazione della Kuliscioff, che, va ricordato, è la prima, il 18 maggio, a suggerire a Turati l’opportunità di un discorso programmatico da pronunciarsi all’apertura della Camera, Omodeo partecipa freneticamente alla stesura del discorso, dedicando quelle settimane alla sua messa a punto.

Detto questo su un piano generale, non resta che sottolineare alcuni passaggi del discorso che meritano una particolare attenzione. Un primo punto è sicuramente la concezione laica della politica e del socialismo che emerge da queste pagine, dove la fiducia nel progresso e le coincidenze tra questa e il socialismo si sposano con un inno al progresso tecnico in cui Marx potrebbe andare a braccetto con Henry Ford o Fredrick W. Taylor. La politica, dichiara Turati, è «essenzialmente una tecnica». La politica non sono gli intrighi parlamentari, le alleanze occasionali poi spesso tradite, i bei discorsi. La politica, precisa, «è, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica. Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica».

E questa concezione coinvolge, per Turati, anche il socialismo, nato, a suo giudizio, « dalla coscienza storica, e quindi scientifica, dell’evoluzione», e, in quanto tale, «espressione ideale dell’evoluzione dello strumento tecnico», il cui compito consiste nell’«adeguare le condizioni politiche della vita sociale alle necessità materialistiche del momento storico». La conclusione è tranchante, tale da provocare un brivido lungo la schiena di tutte le fazioni di sinistra animate da rivoluzionarismo prometeico, che certo non mancavano in quei mesi nelle file socialiste. «Il socialismo – afferma Turati – è nella macchina a vapore, più che negli ordini del giorno; è nell’elettricità, più che in molti, cari compagni, dei nostri congressi».

Altro punto significativo, per i successivi sviluppi politici, è l’analisi della anarchia sociale e della violenza che tormentano il Paese uscito dalla guerra privo di quelle certezze morali e politiche che lo sostenevano prima. «Solo una rivoluzione di fatto, che modifichi profondamente i rapporti tra Stato e cittadini, fra classe dominante e classe soggetta potrà neutralizzare questo fomite di violenza che la borghesia della guerra ha evocato dall’inferno capitalistico e non sa più ricacciare nell’inferno donde l’ha suscitato». (…) Un passaggio forte e attuale è dedicato poi alla pletora della burocrazia e al nesso tra questo problema e la situazione del Mezzogiorno. Turati parla di «elefantiasi burocratica» e afferma che la «questione della burocrazia è una cosa sola con la vessata questione del Mezzogiorno», perché «il Mezzogiorno è il gran vivaio… di tutta la burocrazia»; (…) Il rimedio diventa così scontato: «esso non si trova se non nella restaurazione economica dell’Italia; industrializzare i servizi, il più che si può, ma soprattutto industrializzare l’Italia».

A questo punto, di fronte alle difficoltà dei brevi governi del dopoguerra che si succedono senza ottenere risultati significativi, la domanda che pone Turati, è quasi scontata: «Può il Ministero, con questa Camera, può la borghesia italiana, in questo momento, realizzare questo programma? Lo vuole essa davvero?». (…) Turati, che concorda con Giolitti sul pericolo di un «fallimento imminente» del Paese, «se non si affrettano i ripari», è convinto che il movimento operaio non sia ancora in grado di assumere la guida del Paese, ma possa dare un apporto esterno significativo se la parte più illuminata della borghesia (Nitti e Giolitti) dovessero imboccare con decisione la strada dello sviluppo e delle riforme, dovessero adottare quello che Turati chiama un «programma della nazione», distinguendolo da un semplice programma di governo.

Fatti gli italiani, aggiunge Turati rovesciando la famosa formula di Massimo d’Azeglio, bisogna fare l’Italia. Se l’Italia settentrionale è stata fatta com’è con i sacrifici e l’impegno economico di decine di generazioni, i progressi della tecnica consentirebbero oggi di fare altrettanto nelle zone arretrate in tempi molto più brevi. Per realizzare questa svolta epocale di modernizzazione del Paese è indispensabile, secondo il leader riformista, l’intervento di promozione e coordinamento dello Stato, perché i proprietari tranne quelli dei settori industriali d’avanguardia, sono portati più alla conservazione che alla innovazione. Quali esempi di uomini di Stato che sono stati capaci di interpretare queste esigenze, Turati cita due nomi: uno, straniero e contemporaneo, l’altro italiano, ma del secolo precedente.

Il primo è Walther Rathenau, ministro della Ricostruzione economica nella Germania di Weimar, sostenitore di un intervento regolatore dello Stato nell’economia; ma il secondo è davvero sorprendente in bocca al leader socialista, il quale prende ad esempio Camillo Cavour, che nel 1847, quando le passioni unitarie erano di là da venire, scrisse una cinquantina di pagine sulle ferrovie in Italia, nelle quali era previsto con estrema lucidità il ruolo essenziale che il nuovo mezzo di trasporto avrebbe potuto svolgere per la modernizzazione del Paese e per la sua unificazione. Nel 1920, conclude Turati, l’elettricità e l’industria possono rappresentare quello che il vapore e le ferrovie rappresentavano nel secolo precedente.

Elettrifichiamo l’Italia, industrializziamola e favoriamo la sua crescita economica. Queste sono le parole d’ordine che chiudono il discorso e i rimedi che vengono indicati per «rifare l’Italia», lasciando impregiudicato il soggetto politico che avrebbe potuto o saputo portare a termine tali compiti. Gli avvenimenti successivi si sarebbero incaricati di dare una risposta, imprevista e imprevedibile, anche se parziale e non certo indolore, alle «necessità» e agli interrogativi posti da Turati. L’intervento statale e la modernizzazione realizzati dal fascismo, a prezzo della perdita delle libertà politiche, non rientravano in nessuna delle alternative prospettate dal vecchio socialista, anche se soddisfacevano in qualche modo alcune delle esigenze del suo programma. Quello che sfuggiva al leader del riformismo era che, nelle sue componenti ideologicamente più radicali e percentualmente per molto tempo maggioritarie, soprattutto in Italia, alla prova dei fatti, i partiti della sinistra si sarebbero rivelati (e ancora si rivelano) altrettanto conservatori dei proprietari indicati da Turati, mentre solo i riformisti avrebbero mostrato sensibilità per i problemi dell’innovazione.

da una raccolta di Nicolino Corrado