LA “FELICE GIOVINEZZA”DEL SOCIALISMO

di Domenico Argondizzo

Prendo le mosse da un concetto chiaramente espresso nell’editoriale “Il socialismo, l’Italia e l’Europa”, su «mondoperaio» n. 6/2012. Si parla della necessaria presenza sullo scenario politico-elettorale di opzioni ben radicate nella cultura politica europea. Lo esige la profondità della crisi, che postula risposte innovative sia sul piano sociale (crisi fiscale e riforma del Welfare), sia sul piano economico (limiti al capitalismo finanziario), sia infine sul piano politico (ruolo degli Stati-nazione e democratizzazione dell’Unione europea).

Come contributo, anche in occasione del centoventicinquesimo anniversario della fondazione del Partito socialista, mi permetto di richiamare un po’ di anima e respiro socialista, poggiandomi su alcuni documenti che si collocano in un passaggio cruciale della storia del movimento socialista, a cavallo tra la sua massima affermazione nella società italiana ed in Parlamento, ed il suo assassinio.

Se infatti è necessaria la presenza anche e soprattutto del movimento socialista, essa è necessaria non semplicemente – e riduttivamente – perché manchi una organizzazione che si richiami direttamente ad esso (cosa infatti che non è, vista la longeva vita del Partito socialista italiano), ma bensì per il contributo di pensiero, di analisi, di idee, di progetti concreti che il socialismo seppe esprimere in epoche lontane e per questioni (forse) remote; contributo che potrebbe essere decisivo anche e soprattutto oggi. Ciò che mi preme è stabilire un nesso – direi inscindibile – tra la necessaria presenza dei valori del socialismo, del suo metodo di analisi (esso stesso tra i suoi caratteri distintivi, e precondizione per la definizione dei suoi valori di riferimento), del suo metodo di prospettazione di risposte alle esigenze sociali (prospettazione orientata dai suoi valori), e le ragioni di merito del suo assassinio. Altrimenti tale necessaria presenza sarebbe fatua e comunque non atta a durare. Se non si ricostituisce un legame consapevole con il passato, se non si ripercorrono gli iter logici, i ragionamenti, che motivarono scelte concrete, e più concrete reazioni, non può mettersi a frutto tutta la potenzialità dirompente degli ideali socialisti. Ci si dovrebbe contentare della presenza di un simulacro mendace ed incapace di parlare incisivamente all’elettorato.

Inizio dall’intervento che Filippo Turati tenne il 7 ottobre 1919, al congresso socialista nazionale di Bologna[1]. La prima questione che veniva affrontata era l’antagonismo tra riforme e rivoluzione. Secondo Turati era mal posta tale antitesi perché le rivoluzioni più sostanziali (e quindi “socialiste”) sono il frutto di tante piccole riforme affiancate le une alle altre (e tendenti tutte agli obiettivi del socialismo). Ragione per cui gli “atteggiamenti” “anarchici” che pretendevano di sostituirsi al socialismo, ne invece erano la “diametrale negazione”. Questi erano gli stessi temi dibattuti a Milano nel 1891, alla Sala Sivori di Genova nel 1892, a Reggio Emilia nel 1893 (“Quale eterna giovinezza è la nostra! Felice giovinezza, per la quale, dopo oltre un quarto di secolo, ci si ritrova qui a ribalbettare gli stessi identici discorsi che facemmo. Nel partito socialista, come a tavola, evidentemente non si invecchia”). Sin da quei momenti fondativi del PSI venne infatti confutato il preteso antagonismo fra rivoluzionarismo e riformismo fondato su una differenziazione tra piccole e grandi riforme. Si può dire, anzi che il socialismo italiano nacque proprio quando si affrancò idealmente e praticamente da quegli atteggiamenti “anarcheggianti”.

E discuteva quindi la centrale questione del metodo riformista (perciò stesso socialista). Esso guidò “quel partito operaio – che del resto, per quei tempi e per le condizioni dell’Italia d’allora, era pure una grande e gloriosa affermazione politica di classe […], a poco a poco, verso la conquista del potere, verso una molto più alta comprensione di concetti politici nazionali e internazionali, insomma verso il socialismo”.

Quello che si battezzava nel 1919 come massimalismo rigettava in un canto, come armi superate, tutti i principi, i metodi, gli organismi, che nei precedenti trenta anni erano stati affermati, conquistati e perfezionati dal socialismo italiano. L’apologia e l’esaltazione della violenza, come il migliore, se non l’unico, mezzo per la più pronta attuazione dell’ideale socialista, non “è che il rinculo di 30 anni; non è che la ripetizione ad litteram della discussione che facemmo al congresso di Genova, 28 anni or sono”. Tutta l’esperienza accumulata, dal 1882, di azione socialista avrebbe dovuto essere superata per l’apparire prodigioso di una nuova rivelazione (“Alla elevazione della classe proletaria che, via via […] come più acquista di compattezza, di capacità, di valore, e più impara a farsi valere, a improntare di sé l’evoluzione storica, a instaurare nello Stato e nella nazione e nei rapporti internazionali la grande, la vera democrazia, quella del Lavoro, con le armi della intelligenza, della civiltà, della libertà più sconfinata, si sostituisce un gretto ideale di violenza armata e brutale”).

La cosiddetta dittatura del proletariato avrebbe escluso d’un sol colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi, e la stessa grande maggioranza dei lavoratori; rivelandosi così per essere la dittatura di alcuni uomini sul proletariato, ossia la dittatura contro lo stesso proletariato. Questo metodo apparteneva alla preistoria politica del movimento popolare, ed il socialismo scientifico non fu che “la reazione dottrinale e pratica contro questi vecchiumi”. Prima di esso dominava ancora il concetto che il socialismo potesse improvvisarsi in virtù della bontà della causa che esso rappresenta, per un atto di volontà, e quindi, o per decreto imperiale, o per concessione generosa delle classi dominanti, oppure per un atto di violenza delle masse; che una rivoluzione soprattutto economica, che interessa i più profondi tessuti dell’organizzazione sociale, potesse instaurarsi, trionfare, mantenersi prima della completa elaborazione di tutti gli elementi tecnici, morali, economici, politici, che rendono questa nuova formazione possibile (“La compagine sociale è un prodotto storico complicatissimo, di elementi economici, tecnici, morali, politici”).

Preciso che specifiche proposte – allora formulate anche da Turati – come la collettivizzazione dei mezzi di produzione, si dovrebbe trattarle con l’acquisita maggiore comprensione dei fenomeni economici, portato degli ulteriori 80 anni che ci separano dagli anni venti del 1900 (“Le formule dei programmi sono sempre effetto di transazioni […]. Poi la storia le seppellisce”). All’idea – un po’ ingenua – di un generalizzato collettivismo dei mezzi di produzione, si sostituisce l’idea di un intervento pubblico regolatore dei rapporti economici nel mondo del lavoro e della produzione, che tenda alla maggiore equità possibile nella distribuzione delle risorse economiche. Il ruolo pubblico funge, secondo una idea socialdemocratica, da valvola di sicurezza del sistema economico; garantisce la perpetuazione della circolazione dei beni e servizi contro l’indomita mortifera pulsione alle concentrazioni: la vita del mercato è infatti nella diffusa capacità di consumo di beni e servizi; e la rigenerazione della domanda di beni e servizi, motore primo del processo economico, si ottiene attraverso la redistribuzione delle risorse, considerando come sistema integrato lo stato sociale, il fisco, i salari, i prezzi, le tariffe dei servizi, le remunerazioni professionali, ecc.. Al primordiale collettivismo (retaggio della rivoluzione industriale del 1800) si sostituisce quindi l’idea di chiedere alla collettività di contribuire con progressività ai costi di una società eticamente giusta perché economicamente razionale. L’instaurazione ed il mantenimento della concorrenza, cosa che non si ottiene per virtù proprie dell’operatore privato (anche quando il Pubblico vesta gli abiti dell’operatore privato in monopolio od oligopolio), è possibile solo per opera dello Stato democratico e del suo ordinamento giuridico.

Il movimento socialista, tendendo all’allargamento al maggior numero di cittadini delle possibilità di sviluppo della persona, persegue esattamente la massima razionalità del sistema economico, anche contro le più immediate pulsioni degli operatori economici privati (singoli od associati; più o meno forti). Anche queste più rivisitate prospettazioni sono sicuramente opinabili e discutibili; ma sono sempre il frutto del suddetto metodo socialista di analisi.

Turati continuava su di esso

“Ora, questa infatuazione, secondo me, di fenomeni che avvengono in un mondo così diverso com’è il mondo russo, e in genere il mondo orientale, di fronte al mondo occidentale ed europeo, e la ingenua credenza che essi possano trasportarsi di peso in Italia, non dimostrano altro che l’assoluta mancanza di ogni senso critico e storico”.

In Italia il congegno pesante e tutto meccanico dei sovieti non sarebbe durato una settimana, ma sarebbe stato rovesciato dagli stessi operai e contadini, ben lontani dalla fatalistica e mistica rassegnazione dei poveri musgicchi. Da un altro lato, l’enorme impoverimento che la guerra aveva prodotto, costringeva la stessa borghesia nella necessità di introdurre fra le classi sociali una maggiore armonia, di riconoscere ai lavoratori maggiori diritti e di interessarli non solo negli utili, ma nella gestione della produzione, perché essa potesse avere un ritmo accelerato e la crisi potesse superarsi. Il principio cooperativo e lo stesso ruolo della classe lavoratrice avrebbero potuto averne immensi ed immediati vantaggi. Queste conseguenze della guerra, conseguenze socialiste, avevano tutte un carattere essenzialmente riformistico ed esigevano uno spirito audacemente ma prettamente riformistico per essere sfruttate e valorizzate. La situazione rendeva possibile un ritmo (anch’esso accelerato) di riforme, l’elevamento, l’irrobustimento del proletariato, la sua più rapida preparazione a una successione futura ma su un terreno tipicamente anti-insurrezionale (“Quando la borghesia avrà esaurito il suo compito, ed i proletari, armati di tutti i mezzi tecnici, intellettuali, morali, politici, potranno sostituirla interamente nella gestione della società. In altri termini, quando il proletariato, come classe, avrà cessato di esistere, e tutte le classi non ne faranno più che una sola”). Il programma del partito socialista del maggio 1917 recava appunto tutta una serie di profonde ed ardite riforme politiche ed economiche: politiche tout court, di politica estera (ricondotta nella competenza del Parlamento e quindi del popolo), di politica interna (con tutte le più ampie libertà possibili), di politica dei lavori pubblici, di politica dei consumi, di cultura ecc. E quel programma era infinitamente più attuabile per le condizioni economiche che la guerra aveva lasciato, per il bisogno che premeva la borghesia di diminuire il malcontento, di riattivare la produzione, ecc.[2]. Perciò essa sentiva la necessità di avere i socialisti compartecipi al governo, di placare, di conciliare, di concedere. Si era dunque in un periodo essenzialmente riformatore. Tutto stava nel saperne profittare; viceversa, secondo i massimalisti, tutto ciò avrebbe dovuto essere “gettato al letamaio”.

E, per saperne profittare, vi era lo strumento del suffragio universale maschile e (poi femminile). Anche se di esso il massimalismo non parlava, l’enorme maggioranza del suffragio universale sarebbe stato proletariato autentico (cioè operai industriali, lavoratori dei campi, lavoratori del mare, piccoli impiegati, “insomma tutta gente sfruttata, tutte classi oppresse ad un modo”). Un dilemma, quindi, s’imponeva ai massimalisti:

  • O essi credevano al suffragio universale, alla capacità e alla coscienza delle masse, già – come definite da loro – mature, ed allora, a dispetto di quei due o tre milioni di voti borghesi, che non potevano portare uno spostamento serio; in tale caso, il suffragio universale avrebbe dato loro la conquista dello Stato, tutte le conquiste che essi volevano raggiungere con l’insurrezione, e che l’insurrezione avrebbe invece allontanato.
  • Ovvero credevano questo impossibile, perché pensavano (e secondo Turati in ciò avevano perfettamente ragione) che mancasse ancora la coscienza politica a gran parte di quelle masse, ancora preda dei pregiudizi, soggiogate dei preti, suddite dei padroni; in tale altro caso, come avrebbero instaurato una dittatura del proletariato che non fosse contro la grande maggioranza del proletariato? Nella situazione italiana, tale dittatura non avrebbe potuto essere che la dittatura di alcuni uomini sopra, ed eventualmente contro, la grande maggioranza del proletariato. E se anche si fosse considerata comunque in favore del proletariato, la confutazione era semplice e disarmante: “Ma avete mai conosciuto […]. Avete mai sentito parlare di una tirannide qualunque, la quale non abbia preteso di esercitarsi per il bene del popolo? Non fu mai despota che non giustificasse il suo diritto divino come una difesa provvidenziale delle classi più povere”.

La verità era che il suffragio universale, quando fosse diventato consapevole (con la crescita della cultura ed dell’informazione, con quella economica e civile) è lo strumento più formidabile e più direttamente efficace per tutte le conquiste. Quando il suffragio universale sarebbe stato voluto, sentito e saputo fortemente manovrare dalle masse, se la classe borghese avesse tentato follemente di “rapirglielo con la violenza” per ricondurle in servitù, solo allora, l’atto di violenza difensiva del proletariato sarebbe stato non soltanto legittimo, ma necessario e vittorioso.

Ecco un altro dei sensi che può avere oggi il ripercorrere questi ragionamenti apparentemente datati. La democrazia liberale, in presenza di un Partito socialista che sappia analizzare la società, rendere con ciò consapevole l’elettorato, elaborare – sulla base di questa analisi condivisa – soluzioni perciò stesso condivise, può essere l’habitat ideale per l’evoluzione economica e civile, può consentire tutti gli avanzamenti possibili ai cittadini lavoratori. Questa rosea prospettiva non venne smentita dai fatti, giacché il fascismo intervenne su una democrazia ancora imperfetta (con una cittadinanza ancora immatura), bloccandone lo sviluppo. La previsione di Turati, invece, riguardava un ipotetico colpo di coda delle forze reazionarie in una società democratica in avanzato stato di sviluppo (quale può, forse, trovarsi oggi nelle democrazie nordiche, in Germania, negli USA). Ma bisogna ricordarsi sempre che la democrazia è una conquista continua, sempre soggetta alla involuzione in forme autocratiche, per l’azione delle forze economiche conservatrici (volte a perpetrare l’accumulazione della ricchezza). Quindi neanche gli USA o la Norvegia possono considerarsi immuni da regressioni nella forma politica.

Il successivo documento di cui mi avvalgo per sviscerare la questione del metodo socialista, è un manifesto che la frazione di concentrazione diffuse sul finire dell’estate 1922[3]. Citando l’introduzione della Critica, il valore del manifesto sta sopra tutto nella sua sincerità, nella chiarezza con cui segna i termini e le cause del dissidio che lacera il Partito.

“Bisogna decidersi, non fra la transigenza e l’intransigenza, non fra collaborazionismo e l’anticollaborazionismo – questioni secondarie di tattica e di metodo, la cui soluzione varia, perciò secondo i momenti, i luoghi, le opportunità – ma fra il socialismo e il bolscevismo”.

Bisognava scegliere fra:

  • il Partito socialista, fondato a Genova nel 1892, che voleva trasformare l’ordinamento sociale nell’interesse dei lavoratori utili, manuali e intellettuali – cioè della grandissima maggioranza dei cittadini – mercé la progressiva, libera e consapevole loro adesione e cooperazione, e che era quindi profondamente democratico nel suo procedimento;
  • ed il Partito comunista, che voleva imporre con la dittatura, con la forza, e (occorrendo) col terrore le proprie idee e la propria volontà, ed era perciò profondamente autocratico[4].

Bisognava decidersi fra il socialismo di Marx, Engels, Kautsky ed il comunismo di Lenin, Trotzky e Zinovieff. Sono due concezioni opposte, due metodi, anzi due principi, assolutamente inconciliabili. Ed i socialisti, fedeli all’assioma che l’emancipazione dei lavoratori non può essere che opera degli stessi lavoratori, proclamavano nel manifesto di esser decisamente contrari al metodo bolscevico, giacobino, autoritario, blanquista, dei colpi di mano, con cui un partito ancora in minoranza s’impadronisce del potere e tenta d’imporsi alla maggioranza. Questo metodo poteva portare al Governo i Bonaparte, i Lenin od anche i Mussolini, ma negava e calpestava la sovranità della classe lavoratrice, sia del braccio che della mente, che è la grandissima maggioranza della società. Tale metodo serviva a ritardare piuttosto che ad affrettare la formazione della società socialista. Gli esempi della Russia e dell’Ungheria lo dimostravano[5]. La superiore organizzazione sociale, nascente dallo sviluppo del capitalismo, non può formarsi che gradualmente. La classe lavoratrice non può essere emancipata forzosamente da un gruppo o partito di pretesi suoi rappresentanti e salvatori che l’illuminino con la violenza e col terrore, ma può emanciparsi soltanto per virtù propria, mediante la propria progressiva elevazione ed organizzazione, operante entro l’evolversi del processo capitalistico.

E questo metodo di analisi, che portava i socialisti ad essere evoluzionisti, legalitari, gradualisti, e disposti ad allearsi (come nel 1901) con le forze (individui e partiti) avverse alla reazione, non era in contraddizione con la consapevolezza dell’assoluta realtà del fatto “lotta di classe”: e cioè a dire dell’assoluta realtà dell’opposizione di interessi che esiste fra salariati e capitalisti, come fra consumatori e venditori, e quindi della necessità che i lavoratori, come i consumatori, non attendano il loro vantaggio dai partiti e dalle organizzazioni capitalistiche né si confondano con questi, ma si organizzino essi stessi economicamente e politicamente per la difesa dei loro interessi e per la trasformazione sociale.

Con l’abbandono del metodo socialista (questo fu l’obiettivo primo perseguito con l’intervento del fascismo[6]) soccombette anche l’unico antidoto contro la tendenza autocratica.

Non voglio paventare un analogo rischio per il presente della società italiana, perché – tra l’altro – nella modernità sono presenti modalità assai più sofistiche ed efficaci di gestione autocratica del popolo consumatore e spettatore appagato. Ma desidero evidenziare come – anche nella contemporaneità – la povertà e/o soccombenza dell’analisi socialista conduce ad appoggiare soluzioni di timbro conservatore, che – per loro natura – riducono la platea dei cittadini che possono sviluppare pienamente la propria persona. Portano con ciò stesso, secondo ragionamenti abbozzati precedentemente, a ridurre la capacità di consumo diffuso, ad un calo di domanda interna di beni e servizi, con le conseguenti prospettive di ulteriore regressione del funzionamento del sistema economico. È questo uno degli elementi determinanti della crisi che stiamo vivendo dal 2002 al 2012: non di sovraproduzione, bensì di mancanza di assorbimento delle merci per il dimezzamento degli stipendi del lavoro dipendente che si attuò nel gennaio-marzo 2002 con il cambio (taroccato all’italiana) lira-euro. La crisi finanziaria dello Stato è poi dovuta in prevalenza al fatto che invece di far pagare tasse dirette ai molti benestanti (che, non svolgendo un lavoro dipendente, si sono grandemente arricchiti, essendo stati lasciati nel privilegio della mancata tassazione, e di una mancata regolamentazione vera – se non altro – di loro prezzi/tariffe), gli si chiedono i soldi in prestito mettendo all’asta buoni del Tesoro. Con l’aggravante che questi titoli non li si rendono non negoziabili sui mercati secondari, per la evidente ragione che non sono titoli di una impresa qualunque, bensì di uno Stato che dovrebbe avere sovranità di imporre tributi (necessari e sufficienti anche alla sola sua sopravvivenza). Bensì, lo Stato vive con i soldi in prestito dei molti suoi ladri, e vive esponendosi, come qualunque debitore privato, alle speculazioni degli investitori nazionali ed internazionali.

Il socialismo (si chiami pure con un nome diverso, ma che abbia quel metodo indirizzato/indirizzante da/a quei valori) avrebbe ancora qualcosa da dire di decisivo per le sorti delle organizzazioni nazionali ed internazionali della comunità politica.

D.A.

 

Note

Questo lavoro è tratto da 1920-1922. Nascita e morte della democrazia in Parlamento. Dramma in cinque atti, inedito depositato presso le Biblioteche della Camera dei deputati (BCdD 2006.00751RES/1-2) e del Senato della Repubblica (BSR 258.XVII.2/1-2); tratti pure da esso: Sull’autoconvocazione in senso stretto, in «Nuovi studi politici», luglio-dicembre 2006, 3/4, a. XXXVI, nonché sul forum dei «Quaderni Costituzionali»; 1920-1922 La nuova organizzazione dei lavori della Camera dei deputati alla prova, 1920-1922 La normazione parlamentare sul bilancio e la decretazione governativa, 1920-1922 Il bacio di una consorte non importuna, la quale, femmina come è, ama un po’ di essere adulata.

[1] Tratti dall’edizione pubblicata dalla «Critica Sociale» nei suoi numeri 16 e 17, rispettivamente del 16-31 agosto 1920 e del 1°-15 settembre 1920; versione confrontata con quella tratta dal Resoconto stenografico del XVI Congresso nazionale del Partito socialista italiano (Bologna 5-6-7-8 ottobre 1919), Roma, edizione della Direzione del Partito socialista italiano, 1920.

[2] Ed infatti in questo contesto si inseriranno le riforme regolamentari alla Camera dei deputati del 1920 (mi permetto di citare il mio 1920-1922. Nascita e morte della democrazia in Parlamento. Dramma in cinque atti, depositato – inedito – presso le Biblioteche della Camera dei deputati (BCdD 2006.00751RES/1-2) e del Senato della Repubblica (BSR 258.XVII.2/1-2).

[3] Pubblicato poi sul numero della «Critica Sociale» del 1-15 settembre 1922.

[4] Tanto che in Russia perseguitava spietatamente non solo, gli avversari borghesi, ma gli stessi partiti proletari da esso dissenzienti, i socialisti, i mensceviki, i rivoluzionari e gli anarchici.

[5] Erano costretti a riconoscerlo anche i comunisti, dopo le loro delusioni e disfatte nel campo della ricostruzione sociale. Lenin, in condizioni terribilmente tragiche, si trovò nella necessità, ovvero si poté lusingare, di abolire teoricamente la borghesia – quel quasi nulla di borghesia che esisteva nella Russia degli Czar – ma poi era costretto a rivolgersi agli altri Stati d’Europa e ad invocare che gli fossero mandati dei borghesi, degli ingegneri, dei tecnici, pagati borghesissimamente, che gli fossero mandati dei quattrini, dei capitali, prodigando in compenso ogni sorta di concessioni, offrendo in pegno il paese, perché non poteva fare a meno del capitalismo, “visto che il vero e completo socialismo, che non debba rimanere sulla carta, né somigliare a un ergastolo”, in Russia era “lontano un carro di refe da ogni possibilità di essere anche soltanto iniziato”.

[6] Mi permetto di citare ancora una mia ricerca (1920-1922 Il bacio di una consorte non importuna, la quale, femmina come è, ama un po’ di essere adulata):

Quando le oligarchie compresero come l’evoluzione (innescata dal suffragio universale maschile e dalla proporzionale) del sistema liberale verso una compiuta democrazia parlamentare fosse incompatibile con il perpetuare una gestione proprietaria della cosa pubblica, e come fosse oramai precluso il ritorno al sistema politico censitario, decisero di non ostacolare, ma anzi appoggiare e finanziare, un gruppo di eversori del sistema legale. Scardinare la cornice dello stato liberale allo scopo di garantirsi una forma di controllo sulla popolazione, facendo un uso opportunistico della minaccia massimalista-comunista (con i suoi strombazzati espropri) per tutelare non semplicemente le loro sostanze, bensì le fonti dell’ineguaglianza.