UNA NUOVA CLASSE DIRIGENTE SI AFFACCIA SULLA SCENA POLITICA NAZIONALE

Ne dovette prendere atto lo stesso Engels, il quale nella sua introduzione a Le lotte di classe in Francia – opportunamente e tempestivamente pubblicata in Italia da “Critica Sociale” – così scriveva: “Quando Bismarck si vide costretto ad introdurre questo diritto di voto (il suffragio universale) come unico mezzo per interessare le masse popolari ai suoi piani, i nostri operai immediatamente presero la cosa sul serio. E da quel giorno essi hanno utilizzato il diritto di voto in modo che ha loro recato vantaggi infiniti e che è servito da esempio agli operai di tutti i paesi“.

Gli operai Italiani non furono, in questo, diversi e non si comportarono diversamente. Il Partito operaio aveva colto al volo questa occasione, che non soltanto arrecò notevoli vantaggi alla classe in termini economici e sociali, ma divenne presto un canale di politicizzazione di tutto il movimento dei lavoratori, preparando il passaggio da quella situazione essenzialmente corporativa, in cui s’era collocato agli albori della sua autorganizzazione, a una situazione che preparava l’avvento della forma-partito quale nuovo soggetto della propria autonoma rappresentanza.

Il punto di svolta dell’evoluzione politica del proletariato italiano era segnato, così, da un’altra decisione presa da questo partito: partecipare alle competizioni elettorali, distinguendosi così dalle tesi antilegalitarie degli anarchici e dimostrando una precisa volontà di corrispondere ad un’esigenza di rappresentanza degli interessi dei lavoratori manuali nell’ambito delle istituzioni del nuovo Stato unitario. L’occasione era data al Partito operaio dalla concomitanza della promulgazione della nuova legge elettorale, proprio nel 1882, grazie alla quale il diritto di voto veniva esteso a molti altri cittadini in larga misura lavoratori manuali. Con la legge del 24 settembre di quell’anno, infatti, gli elettori salirono da 621.896 a 2.017.829, vale a dire il 6,9 per cento della popolazione. E mutò anche la qualità del corpo elettorale, perché gli elettori iscritti per censo scesero dall’80 per cento del corpo elettorale, come era prima della nuova legge, al 34,7.

La riforma era dovuta soprattutto ad Agostino Depretis, e fu un’iniziativa che, nel bilancio generale del fenomeno del “trasformismo“, va senz’altro iscritta tra le poche partite attive.

Il Partito operaio aveva saputo cogliere quest’occasione diversificando nettamente la sua posizione da quella degli anarchici, che continuarono a mantenere la loro pregiudiziale negativa nei confronti di qualsiasi impegno elettorale: e questa decisione fu segno di notevole intelligenza politica, perché contribuì non poco a favorire l’evoluzione legalitaria del movimento dei lavoratori in Italia, tanto più che si andavano preparando situazioni di scontro e repressione sociale che avrebbe potuto determinare orientamenti dei lavoratori in senso opposto. Se l’influenza mazziniana andò indebolendosi, non altrettanto però avvenne per il movimento anarchico.

Nonostante la crisi successiva al 1879, dopo il fallimento dei moti di Bologna e di Benevento, l’allontanamento dal movimento di Andrea Costa e le nuove posizioni assunte dallo stesso Cafiero, la predicazione bakuniana, pur perdendo larghe zone di seguaci, aveva mantenuto una sua forza, specie nelle regioni meridionali e nelle aree agrarie dell’Emilia Romagna, della stessa Lombardia e del Veneto.

La crisi cerealicola di quegli anni rendeva più esasperante la condizione di vita dei contadini, provocava scioperi e lotte, che però inducevano i lavoratori delle campagne ad autorganizzarsi e a formare leghe e cooperative: cioè quelle strutture che con il loro comporsi li aiuteranno ad uscire dall’isolamento individuale e a far prevalere le forme di una lotta organizzata su quelle dettate da un comprensibile sentimento di ribellione, individuale o di gruppo.

Il segnale più eloquente di questa evoluzione fu dato, come è noto, da Andrea Costa che, trascorso dall’anarchismo al socialismo, aveva invitato gli anarchici delle sue terre, con la lettera Agli amici di Romagna, a uscire dall’utopia e a entrare nella realtà delle condizioni economiche. Costa fonda nel 1881 il settimanale “Avanti!” per propugnare le sue nuove idee e il Partito socialista rivoluzionario di Romagna, presentandosi alle elezioni in Parlamento, ottenendo nel 1882 il mandato. Era il primo deputato socialista, dieci anni prima della costituzione del partito.

Poiché la nostra indagine ha per oggetto il Partito socialista italiano, non ci soffermiamo ulteriormente sul periodo, che pure è di grande interesse storico, precedente la sua formazione.

Abbiamo ritenuto opportuno richiamare quelle linee e quei fatti che sono essenziali a individuare il processo sociale e politico che conduce alla formazione del partito.

Da tutto ciò che abbiamo innanzi ricapitolato, si possono far emergere i tratti salienti della vicenda, tutt’altro che semplice, della costituzione del partito.

Tre erano le correnti ideali ed organizzative presenti a Genova. Quella anarchica, dalla quale, come abbiamo visto, s’erano distaccati molti dei suoi protagonisti, ma che manteneva ancora una forte influenza nel mondo contadino. Quella operaistica-corporativa, espressione del proletariato delle fabbriche, che pur nel suo rigore classista, aveva avviato la politicizzazione del movimento, comprendendo l’importanza della partecipazione alle battaglie elettorali. Quella, infine, degli intellettuali socialisti, a grande maggioranza di orientamento marxista, la cui punta di diamante era costituita dal gruppo della “Critica Sociale” di Milano, mentre a Roma viveva e insegnava, in una posizione critica, sostanzialmente isolata, Antonio Labriola. Ma né Costa, né Labriola presenziarono al congresso. Il Partito operaio era sorto sul presupposto che “gli operai non solo potevano, ma dovevano fare a meno della collaborazione degli intellettuali, anche se compagni di fede“, per cui la fondazione di questo partito era stata la “rivincita del grosso buonsenso operaio contro quelle che a molti sembravano essere le elucubrazioni di cervelli o sopraffini, o per lo meno sognatori ed utopistici“.

Nel 1882 la costituzione del partito delle “mani callose” era stata determinata tra l’altro dalla “disistima nella quale l’azione dei socialisti intellettuali era caduta, specie dopo il misero fallimento dei tentativi insurrezionali, presso le masse lavoratrici“. Ma dopo la costituzione del Partito operaio, e forse grazie ad essa, era avvenuto che mentre gli anarchici persistevano nelle loro idee sostanzialmente antilegalitarie e ostili a qualsiasi partecipazione elettorale, i “socialisti intellettuali“, invece, abbandonavano ogni sogno insurrezionale, cercavano e in parte riuscivano a radicarsi nel movimento popolare, impegnandosi nelle battaglie sui problemi concreti del mondo del lavoro e partecipando anch’essi, in piena autonomia rispetto agli operaisti, alle competizioni elettorali. Anzi, in alcuni casi, erano stati gli operaisti a perdere il contatto con le masse popolari: come, ad esempio a Milano, avvenne per Antonio Maffi, fonditore “operaista“, il quale una volta eletto aderì in Parlamento al gruppo repubblicano, perdendo il contatto con quel settori operai a cui doveva la sua elezione.

Insomma: socialisti “intellettuali” come il Gnocchi Viani, il Cafiero, il Costa, il Barbanti-Brodano, il Covelli, il Gambuzzi, il Cipriani, il Colajanni stesso, che erano stati candidati alle elezioni, andavano mostrando con la loro azione sociale e politica di non essere quegli intellettuali “acchiappanuvole” che gli operaisti temevano, e non a torto, dovendosi in quelle condizioni operare prima di ogni cosa per tutelare gli interessi elementari delle classi lavoratrici.

Il Michels, scrivendo molti anni dopo, nel 1925, la storia dei socialisti di quel periodo, classifica gli “intellettuali socialisti” in quella categoria ormai classica del suo sistema di sociologia del partito politico dei cosiddetti “intellettuali spostati“. Con questa definizione egli intendeva quegli intellettuali di estrazione borghese (e all’epoca lo erano pressoché tutti, perché difficilmente un individuo di estrazione sociale diversa poteva accedere al mondo degli studi), che spostandosi dalla fascia sociale di origine, si collocavano nell’area degli interessi sociali, culturali e politici della classe operaia e di quella contadina. Tali erano i già citati; come tali erano i Turati, i Treves, i Prampolini, i Bissolati: giornalisti, professori, avvocati, spesso professionisti seri e stimati, anche se assoggettati al controllo di polizia, che attraverso esperienze personali diverse erano pervenuti alla fede socialista e accompagnavano le elaborazioni teoriche all’impegno delle lotte sociali, fianco a fianco con i lavoratori. Non erano più, come aveva scritto Marx quindici anni prima, solo “una combriccola di spostati, il rifiuto della borghesia… avvocati senza clienti, medici senza ammalati e senza cognizioni, studenti assidui al biliardo, commessi viaggiatori di commercio e specialmente giornalisti della piccola stampa di fama più o meno dubbia“.

Addirittura quegli intellettuali “spostati” erano divenuti nel frattempo i diffusori del verbo marxista e gli interpreti autorevoli, non solo in Italia ma anche all’estero, del pensiero marxista dell’epoca, ricevendo il viatico, insieme con la collaborazione e il consiglio, direttamente dal compagno di Marx e coautore di molte opere di dottrina e di strategia, quel Friedrich Engels che Turati, appena divenuto direttore della “Critica Sociale“, volle ripresentare ai socialisti Italiani dopo alcuni anni di silenzio.

In un volume pubblicato in esilio, nel 1933, Giuseppe Faravelli, socialista di scuola turatiana, divenuto dopo la seconda guerra mondiale per lunghi anni direttore di “Critica Sociale”, così sintetizza questa funzione degli “intellettuali socialisti”: “L’introduzione del marxismo in Italia, mentre spinge la cultura a un profondo generale rinnovamento, segna l’ingresso della classe lavoratrice nella vita politica nazionale e, quindi, dà impulso ad un profondo rinnovamento di questa vita. Non già che prima dell’apparizione del marxismo non esistesse in Italia un movimento operaio e che le correnti socialiste non vi avessero preso piede. Ma solo il marxismo, trionfando della corrente cosiddetta nazionale del socialismo, ossia del generico rivoluzionarismo democratico e repubblicano filiato dalle lotte del Risorgimento, trionfando dell’utopismo anarchico divulgato dal Bakunin e dai suoi seguaci, soprattutto nell’Italia Meridionale e Centrale, trionfando infine del riformismo umanitario dei maloniani raccolti nel Settentrione intorno alla “Plebe” di Bignami e di Gnocchi-Viani, dette alle classi lavoratrici una direttiva organica e coerente di azione, suscitandone l’organizzazione in partito politico autonomo volto alla conquista dei poteri dello “Stato“”.

Il marxismo del gruppo della “Critica Sociale” e degli altri “intellettuali socialisti” era evoluzionistico, gradualistico, legalitario, riformistico. Anche se patentato da Engels, sorgono notevoli dubbi se esso potesse considerarsi un’interpretazione autentica del pensiero rivoluzionario di Marx. Era comunque ben lontano dall’indirizzo che quel marxismo internazionale doveva successivamente assumere, volgendosi, tra interpretazioni catastrofiche, o volontaristiche, in direzione del leninismo.

Dal 1892, data della formazione del Partito operaio a Genova, mentre s’accentuò il distacco tra questo e gli anarchici, diminuì rapidamente la distanza con gli “intellettuali socialisti“, e in particolar modo con il gruppo milanese. Scrive Gaetano Arfé che la “presenza costante e via via sempre più attiva del gruppo marxista milanese nella discussione e nell’agitazione dei problemi sociali più pressanti e drammatici stabiliva un legame con le organizzazioni operaie, tra le quali la teorizzazione dell’inconciliabile antagonismo tra le classi dava contenuto alla nascente coscienza della propria autonomia e della propria funzione“. Si determinò in tal modo quella convergenza di interessi e di idealità che convinsero il Partito operaio a superare la pregiudiziale esclusivista e ad accettare la fusione con quegli “intellettuali” che non avevano le “mani callose“, ma già rappresentavano una componente necessaria all’autonomia e alla identificazione politica del partito della classe lavoratrice.

Sociologicamente, dunque, il partito che nasce nell’agosto del 1892 è rappresentativo in modo indiscutibile di due componenti: quella del lavoro manuale, operaio e contadino, e quella “intellettuale“, cioè di lavoratori non manuali già borghesi, ma che hanno rifiutato la loro collocazione di classe originaria. Da questa sintesi deriva un fenomeno politico-sociale del tutto nuovo: quello dell’affacciarsi sulla scena politica nazionale di una porzione di classe dirigente che non coincide con le classi sociali tradizionali, tra cui la borghesia, e che è ad esse alternativa. Questa nuova porzione di classe dirigente nasceva da una frattura della borghesia ed ebbe un effetto a catena in quanto destinata a produrne una successiva, all’interno della stessa borghesia, tra una parte che si pose a combattere pregiudizialmente e intransigentemente questo nuovo soggetto politico; e una parte che tendeva a rendersi conto della necessità storica della nascita di questo nuovo soggetto e che si apprestava, in un modo o nell’altro, a fare i conti con esso, non escludendo neppure la possibilità di convergenze e alleanze sia pur temporanee.

Questo processo a catena rivelava l’affiorare di una reciproca consapevolezza politica: la sostanziale, anche se ancora non del tutto esplicitata, accettazione delle istituzioni dello Stato democratico con la cui formazione s’era compiuto il Risorgimento. Sia da parte della borghesia liberale, sia da parte del nascente movimento politico socialista, cominciava a manifestarsi il convincimento che le istituzioni dello Stato democratico costituivano un terreno irrefutabile di evoluzione politica, e insieme, il terreno sul quale era possibile il reciproco affermarsi e potenziarsi come soggetti determinanti, tanto nel conflitto sociale, quanto nella contesa politica.

All’opposto, sia la borghesia conservatrice o decisamente reazionaria, sia l’estremismo insurrezionale e intransigente, scorgono in queste istituzioni un ostacolo ai loro rispettivi disegni strategici. Per entrambi esso diviene un ostacolo da abbattere, in nome di idealità opposte, ma convergenti nel fine comune. Comincia così già a delinearsi, nell’ultimo decennio del XIX secolo, il profilo dello scontro politico fondamentale che si svilupperà nei decenni successivi: tra una destra e una sinistra che si contrasteranno nell’ambito di una concezione sostanzialmente comune di accettazione dell’impianto democratico dello Stato risorgimentale; e una destra e una sinistra che, apertamente o implicitamente, contrasteranno questa adesione, proponendosi di svellere o di modificare in senso autoritario l’organizzazione statuale.