DALLA CRISI DEL RIFORMISMO ALLA CADUTA DELLA DEMOCRAZIA

Dalla crisi del riformismo alla prima guerra mondiale

Nella crisi del riformismo, che ha il suo punto di svolta nella politica coloniale avviata da Giolitti, la quale poneva ai socialisti questioni nuove e problemi al momento insuperabili, c’è un dato da considerare, nei suoi aspetti positivi e nelle sue conseguenze alla lunga dirompenti. È quello della estensione del suffragio, giustamente reclamato dai socialisti, fin dai tempi del “programma minimo” e ottenuto con oltre dieci anni di lotte e di abili alleanze parlamentari.

L’estensione del suffragio ha nell’immediato, con le elezioni del 1913, conseguenze solo in parte prevedibili. D’un lato essa immette nel circuito della vita politica masse molto più ampie di cittadini, e in particolare di contadini e operai; d’altro lato questa immissione, allargando potenzialmente la rappresentanza politica socialista, fa ricomparire tutte quelle fobie e quelle paure che avevano alimentato i comportamenti dei ceti conservatori nell’ultimo decennio del secolo precedente. A inasprire un contrasto che da virtuale tende a farsi rapidamente reale, è la vertenza libica, che non è altro che l’anticamera di una nuova politica internazionale dell’Italia quale potenza europea e mediterranea, pronta a caricarsi anche dei rischi di un conflitto bellico che è sempre più presente nell’orizzonte europeo.

La spedizione coloniale in Libia provoca la reazione popolare alla testa della quale si collocano sindacati e PSI. Questo scontro accentua la frattura con i settori traenti dell’industria, della borghesia e con l’esercito, un potere nient’affatto trascurabile, direttamente collegato alla monarchia sabauda. Sullo sfondo appare, già nel 1911, un atteggiamento di ostilità dei socialisti nei confronti di un sempre più possibile intervento dell’Italia in un eventuale conflitto europeo. E un Parlamento, nel quale la rappresentanza politica degli interessi popolari va smisuratamente ampliandosi, diventa un’istituzione di difficile controllo da parte della classe dirigente del paese.

Giolitti, come abbiamo visto, concede alle sfere della borghesia industriale e nazionalista quell’iniziativa coloniale, avversata dai socialisti, che è comunque priva di rischi, mentre è refrattario all’ipotesi di una politica di intervento in un eventuale conflitto, e non perde occasione per proclamare o far intendere nei fatti, in quegli anni, la sua convinzione neutralista. E, come pur abbiamo rilevato, abbraccia una strategia insieme di estensione della rappresentanza parlamentare con ampliamento del suffragio, probabilmente anche perché ritiene che una più lunga presenza di socialisti e di parlamentari condizionati dal voto cattolico possa rappresentare un sostegno alla sua linea di neutralità. Ma intanto molte cose erano cambiate, e di esse lo stesso Giolitti sembra non avvedersi; oppure, avvedendosene, ritiene di essere in grado di continuare a esercitare la sua funzione di controllo e di mediazione politica.

Era cambiato l’atteggiamento della monarchia, come rilevava anche per molti segni il comportamento del re e dell’esercito, influenzato dalla Casa Reale. Questa non era più quella che un brillante scrittore di cose politiche, che dovrà sopravvivere a molte epoche, Mario Missiroli, aveva definito come “La monarchia socialista“, che con Vittorio Emanuele III aveva mutato l’atteggiamento assunto dal suo predecessore e aveva accettato, e nella misura del possibile assecondato, l’opera di Giolitti, sia pure interpretandola in termini di paternalismo e, per dirla con il Missiroli, di “riformismo statale”, volto cioè a soddisfare esigenze sociali ed economiche dei lavoratori, ma, insieme, a rafforzare l’apparato amministrativo e burocratico ad essa fedele.

Era cambiato l’atteggiamento della borghesia imprenditiva e di quella culturale, sempre più proclive a dar ascolto alla risorgenza della “questione nazionale“, vuoi per cointeressenza economica del ceto imprenditoriale, vuoi per l’affermarsi di una cultura irrazionalistica ed antimaterialistica, che univa nella sua critica spiritualistica tanto le filosofie positivistiche che quella marxista.

Era rapidamente cambiato il PSI, e non soltanto nella sua dirigenza. Il congresso di Reggio Emilia infatti aveva visto i riformisti in minoranza. L’espulsione dei revisionisti di Bissolati e Bonomi, che aveva preso a motivo l’atto di deferenza di questo gruppo alla monarchia in occasione di un tentativo di attentato al re, rendeva praticamente impossibile un ritorno a breve tempo dei riformisti alla guida del partito. Così nel successivo congresso la dichiarazione di incompatibilità tra appartenenza alla massoneria e militanza socialista significava trasparentemente un attacco ai settori giolittiani che erano in stragrande maggioranza massoni, e alla stessa monarchia, essendo conosciuta, inconfutabilmente, l’appartenenza all’organizzazione massonica dello stesso Vittorio Emanuele III.

Il leader di questo processo di cambiamento, in forme addirittura iconoclastiche, del socialismo italiano, era quel Benito Mussolini balzato alla ribalta nazionale al congresso di Reggio Emilia, e che era stato addirittura il protagonista di quello di Ancona del 19 14 e aveva assunto la direzione dell'”Avanti!”, dopo che l’intransigente Lerda aveva dovuto abbandonarla essendo uno dei socialisti massoni incappati nella scomunica congressuale.

Sono fin troppo conosciute la personalità e la storia di Mussolini perché ci si debba soffermare a lungo su di lui. Oltre tutto, Renzo De Felice ha dedicato la sua fondamentale opera storica al mussolinismo, ed in particolar modo quel volume, Mussolini il rivoluzionario, al quale per tutto ciò che concerne Mussolini di questa fase, si può tranquillamente rinviare il lettore.

Ci sembra utile, tuttavia, citare questa notazione sul Mussolini di quei congressi, dovuta alla penna di Pietro Nenni, che il Mussolini conobbe in quel tempo forse meglio di ogni altro.

Scriveva Nenni, in quel volume ancora oggi di interessante lettura che è La lotta di classe in Italia, pubblicato in francese nel 1930 e solo di recente tradotto in Italia: “Molto giovane, sconosciuto, appena uscito di prigione dove aveva scontato una pena di cinque mesi, aggressivo e mordace, l’uomo che dieci anni dopo si sarebbe impadronito del potere con la reazione più sanguinosa, proveniva dalla Romagna. Nato in una famiglia socialista, ribelle per istinto, il suo socialismo aveva più di Blanqui che di Marx. Come Blanqui e i rivoluzionari classici aveva una nozione molto vaga dell’idea di classe, per contro professava una specie di mistica del partito; come Blanqui egli concepiva il socialismo come la rivolta dei poveri sotto la direzione di uno stato maggiore rivoluzionario.

Del marxismo non comprendeva che i motivi antiliberali: la concezione dell’egemonia e la dittatura del proletariato, la visione drammatica della vita e della società. Il nuovo capo era naturalmente un intransigente, un fanatico e un intollerante. Da quando divenne direttore dell'”Avanti!” ne fece un organo di quotidiani stimoli all’azione diretta e alla violenza. Nella sua propaganda il proletariato appariva – come Edoardo Berth ha detto di Sorel – come l’eroe di un dramma la cui felice riuscita dipende interamente dalla sua energia, dalla sua devozione e dalla sua capacità di sacrificio.

Lo scenario del dramma era, in quel momento, lo scontro sociale e politico che si faceva ogni giorno più aspro, e che non permetteva più alcuna iniziativa di mediazione. In questo scontro, che riporta il movimento socialista, o la maggioranza di esso, a un culto della violenza che era stato diffuso precedentemente alla costituzione del partito, e che era stato rifiutato per vent’anni, il partito tuttavia accrebbe la sua forza.

Divenuto improvvisamente combattivo, in modo addirittura esagerato, aggressivo e anche violento, in verità non soltanto per effetto della propaganda mussoliniana, il PSI vide non solo rafforzarsi nel 1913 la sua rappresentanza elettorale (i rivoluzionari non rinunciavano affatto al mandato parlamentare, anche se dell’istituzione dicevano peste e corna) ma vide anche ingrossarsi le sue fila, fino a raggiungere quasi i 50.000 iscritti. Turati, forse esagerando nella polemica, disse che questo avveniva perché ai lavoratori si aggiungeva la teppa. Certo è che la svolta politica coincise con questa rinnovata potenza del partito. Tutto questo esaltò la nuova dirigenza che, inebriata dai successi interni ed esterni, si buttò senza discernimento sulla strada dell’azione diretta, andando incontro a una grossa sconfitta, che segnò l’inizio di un momento critico per tutto il movimento.

Nelle elezioni amministrative che seguirono il congresso di Ancona, il PSI, che rifiutava ogni alleanza con altre forze progressiste, conquistò 400 comuni, tra cui Bologna, Milano e Alessandria.

Esaltati da questo risultato i “rivoluzionari” non ebbero più alcun freno, e con Mussolini in testa si buttarono a corpo morto nelle agitazioni che erano seguite anche dalla violenza fisica, senza accorgersi che il partito, pur crescendo di forza e di combattività, andava isolandosi e provocando reazioni psicologiche negative in tutta l’opinione pubblica.

Lo scontro politico raggiunse il punto culminante nella cosiddetta “settimana rossa” tra il 7 ed il 14 giugno, e fu determinato dall’esito di una manifestazione antimilitarista, proprio ad Ancona, dove la polizia sparò sulla folla per disperdere un corteo operaio, uccidendo due persone. Nenni, che ne fu partecipe, così racconta quella vicenda: “L’indignazione popolare prese allora la forma di una vera insurrezione. Lo sciopero generale fu proclamato da un estremo all’altro dell’Italia. I ferrovieri si aggregarono allo sciopero che durò sette giorni e prese il nome di “settimana rossa”. A Napoli, a Firenze e in altre città scorse il sangue. Nelle Romagne, nelle Marche e in Umbria i manifestanti occuparono i comuni ponendo in scacco le forze di polizia e proclamarono perfino la Repubblica. A Ravenna gli scioperanti arrestarono un generale. Ad Ancona il governo, sopraffatto, ricorse alle navi da guerra. A Roma, un corteo di operai tentò di protestare davanti al palazzo reale. Gli insorti incendiarono qualche Chiesa e gli uffici del dazio“.

Anche in questo caso, come in tanti altri, la violenza, sia pure scatenandosi a ragione di un eccidio brutale, non portò fortuna al movimento dei lavoratori. L’insurrezione non poteva avere, né forse voleva avere, uno sbocco rivoluzionario. Ne mancavano le condizioni, i rapporti di forza erano a favore del potere statale, degli apparati di polizia e dell’esercito, la direzione del partito socialista, pur proclamandosi “rivoluzionaria“, di rivoluzionario non aveva un disegno, né una strategia, né una organizzazione e neppure il nerbo.

L’agitazione fine a se stessa si risolse, come non poteva essere altrimenti, in una dura sconfitta. Dopo cinque giorni, la Confederazione generale del lavoro, sia pur tardivamente, revocò lo sciopero: certo in seguito alla pressione dei “riformisti” giustamente preoccupati delle conseguenze tragiche di questa avventura. L’ordine dovette attendere due giorni prima di essere completamente eseguito. La repressione fu durissima. (Non si aspettava altro!) Migliaia di militanti, non solo socialisti, ma anche anarchici, repubblicani ed altri, furono imprigionati e processati.

Si concludeva così uno degli episodi più nefasti del movimento socialista italiano: un episodio che per decenni è stato esaltato dalla retorica socialista e additato ad esempio di combattività popolare e di spirito di abnegazione. Con tutta la deferenza e il rispetto che si deve continuare ad avere per chi perse la vita o scontò con il carcere quell’insurrezione inconsulta, ci sembra di dover dire, a tanto tempo di distanza, che si trattò di un’iniziativa avventurosa e irresponsabile. E ancora più irresponsabile ci appare l’esaltazione che ne è stata fatta per molti anni. Alla luce di un’analisi storica serena, il mito della settimana rossa si dissolve. Lo stesso Nenni fu arrestato, insieme con molti altri capi dell’agitazione, mentre altri, tra cui l’anarchico Enrico Malatesta, riuscirono a riparare all’estero. Dopo sette mesi di carcere, con l’intervenuta amnistia dell’1 gennaio del 1915, uscirono dal carcere, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia.

Il colpo di pistola di Sarajevo, che virtualmente apriva il sipario della prima guerra mondiale, colse il PSI già nel turbine della crisi susseguente alla dura sconfitta della “settimana rossa” e delle polemiche tra “riformisti” e “rivoluzionari” (in particolare con un duro scambio di accuse tra Claudio Treves e Mussolini) che ovviamente ne seguirono.

La questione dell’intervento eventuale dell’Italia in guerra (in realtà si trattava dellaquestione nazionaleche tornava dopo il compimento del Risorgimento) trovò i socialisti non soltanto esausti per la cocente disfatta del tentativo insurrezionale, ma del tutto impreparati ad affrontarla.