Antagonista di Turati, sul piano teorico, meno su quello politico, non essendo stato per suo carattere e per la sua professione un militante della politica, fu il filosofo Antonio Labriola. La contrapposizione durò poco più di un decennio per la morte di Labriola nel 1904.
Labriola è stato considerato per lungo tempo il caposcuola di quello che si potrebbe definire l'”italomarxismo“, una scuola di pensiero che, da lui a Gramsci, ha innervato l’ideologia marxista nella particolare situazione di sviluppo cultura nazionale e, in specie, della ricerca filosofica.
Filosofo di professione, infatti, Labriola scoprì Marx abbastanza tardi quando era già avanzato nell’età: nel 1890, dopo essere stato un hegeliano ed un herbertiano. Avendo studiato in modo approfondito la dottrina di Marx, si dette a divulgarla dalla cattedra dell’università di Roma e in conferenze sulla “genesi del socialismo moderno“, sulla “storia generale del socialismo” e sulla “interpretazione materialistica della storia“.
La compiuta elaborazione del suo pensiero, interpretazione creativa, non scolastica, della teoria di Marx, è affidata ad opere che divennero famose come In memoria del Manifesto dei comunisti, Del materialismo storico e Discorrendo di socialismo e di filosofia, oltre che negli Scritti vari, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce.
Labriola è stato definito contraddittoriamente da alcuni come un “marxista puro“, addirittura più “marxista di Marx“; da altri un “revisionista“. In realtà lo stesso Labriola volle rispondere ai suoi critici del tempo, precisando che “avendo accettato la dottrina del materialismo storico, io l’ho esposta tenendo conto delle condizioni attuali della scienza e della politica e nella forma che conviene al mio carattere“. Un carattere, va detto per inciso, che non fu facile e che lo condusse a polemiche e a giudizi particolarmente aspri e a volte ingiusti nei confronti di molti esponenti del socialismo italiano dei suoi tempi. Specie nel fitto carteggio che egli intrattenne con Engels, rivolse strali pungenti, a volte col disprezzo elitario cui si sentiva autorizzato dalla sua dottrina e dalla sua acuta intelligenza, contro gli esponenti del nascente Partito socialista, primo tra i quali il Turati. Queste polemiche possono essere considerate la parte più caduca della sua opera. Ben altro peso e rilievo conservano invece i saggi suddetti, nei quali “si preoccupò in sostanza di dare un assetto organico al materialismo storico rifacendone la genesi, svolgendololo alla luce di nuove esperienze e depurandolo dalle contaminazioni operate dai seguaci incauti e dai ciarlatani della scienza“.
In questo sforzo esegetico e interpretativo Labriola si mantenne (e tale volle essere) perfettamente ortodosso alla dottrina marxista. E sicuramente, in base a ciò, può considerarsi come l’artefice di quella scuola di “italomarxismo” che tanti epigoni doveva avere in quei tanti “italomarxisti” che egli, almeno per la sua dottrina, la sua intelligenza, e la sua onestà, non meritava di avere. Labriola rimase fino alla sua morte (1903) fuori del Partito socialista, alla cui costituzione si era rifiutato di partecipare, ritenendola immatura alla luce della sua analisi (astratta) delle condizioni storiche della società italiana. Questo suo atteggiamento fece discutere, e fa ancora oggi discutere, seppure ormai in sede storiografica.
Un altro atteggiamento che suscitò infinite polemiche fu quello da lui assunto, in dissonanza con tutta la cultura socialista del tempo, sulle vicende coloniali Italiane di quegli anni. Quest’atteggiamento derivò anch’esso dalla sua analisi storica e socio-economica dell’Italia secondo la quale l’espansione coloniale era indispensabile allo sviluppo del capitalismo italiano e, di conseguenza, del movimento operaio. Probabilmente gli acri giudizi di Labriola su uomini e cose del socialismo di allora furono eccessivi o addirittura errati, come nel caso di Turati o di altri leader socialisti. Certamente ingiusta e non rispondente al vero è la descrizione da lui fatta in una lettera ad Engels della composizione del Partito socialista di allora come un assemblaggio “di studenti fuori corso, di artigiani autodidatti, di viaggiatori di commercio, di giocatori di carte e di biliardo, di avvocati senza clienti“.
In realtà la concezione che del partito ebbe Labriola risentiva della sua impostazione totalizzante della classe e del partito come “altro da sé” della società capitalistica da trasformare mediante la rivoluzione. Non è escluso che in questa concezione si riversassero anche i risultati delle sue ricerche storiche sui movimenti ereticali del Medioevo.
Labriola sapeva anche distinguere tra il movimento reale di classe che era combattivo e prorompente in quella fase storica e le deformazioni e deviazioni presenti nelle strutture di partito che non alteravano però la sostanziale vitalità dell’esperienza politica socialista. Di fronte alla nascita del PSI, Labriola ricavò “una sorta di pessimismo della volontà che lo portava a considerare la sua lotta teorica, i suoi studi di allora sul Manifesto (connessi al suo stesso insegnamento) in alternativa alla lotta politica attiva…“. In quelle circostanze, in cui erano operanti “i fabbricanti di cooperative pagati dai prefetti, tutti i negoziatori di voti socialisti, e tutti i filantropi affamati” il socialismo italiano non gli pareva “il principio di una vita, ma la manifestazione estrema della corruzione politica e intellettuale del paese. Egli continuava, nonostante tutto, a fare il fiancheggiatore attivo del movimento socialista, come appare da una sua lettera del 24 luglio 1892, ma era condizionato da una visione che accentuava i dati dell’arretratezza sociale e della stessa crisi morale post-risorgimentale“.
La sua idea era quella di creare un partito operaio e marxista, piccolo e omogeneo, nettamente distinto dagli anarchici come dai radicali. In fondo il PSI rispondeva a tali requisiti, ma per Labriola era prevalente il suo dissidio con Turati.
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