I SOCIALISTI E L’ECONOMIA

Su una sola cosa – osserva il Michels – i capi del socialismo italiano si trovarono d’accordo. Da Turati a Ferri, ad Arturo Labriola “stimavano consistere la loro funzione storica nel preparare in Italia il dominio del capitalismo“.

Non si fraintenda il senso di questa affermazione, sostanzialmente esatta. La dirigenza socialista del tempo riteneva, al di là delle divisioni teoriche e politiche tra le varie tendenze, che un’accelerazione dello sviluppo capitalistico avrebbe fatto maturare più rapidamente le condizioni obiettive favorevoli sul superamento dello stesso capitalismo, per la costruzione di un ordine sociale nuovo. E si comporta, sul piano della politica economica, di conseguenza, cioè in perfetta coerenza con questa sua convinzione. Sempre il Michels conferma che “il socialismo italiano credeva suo dovere rinvigorire soprattutto le attività e dare alimento ai traffici del paese, liberare le forze produttive, industrializzare l’Italia“.

Gli uomini professanti le opinioni più disparate convenivano nel concetto, confermato nella pratica, che la via del socialismo “debba fatalmente passare per un’era di intenso capitalismo“. Questa posizione, che si riassumeva nello slogan “per mezzo del capitalismo al socialismo” venne resa esplicita nel manifesto elettorale ufficiale per le elezioni del 1905 elaborato dalla direzione del partito. In esso veniva detto che i socialisti esigevano dallo Stato “quei subitanei alleviamenti tributari e quelle riforme che, promuovendo lo sviluppo finale di una borghesia modernamente produttiva, favoriscano ed accelerino l’avvento storico di quel regime di giustizia e di pace che è il socialismo“.

A questa valutazione ideologica, se ne aggiungerà un’altra: che la “industrializzazione” comportava una crescita numerica e qualitativa della classe operaia, e, di conseguenza, un rafforzamento ed una espansione dell’unica forza politica operaistica che era il PSI.

Inoltre essi pensavano che l’industrializzazione avrebbe potuto estendersi sempre di più nel Mezzogiorno, infrangendo rapporti economici e sociali ancora di marca feudale; scuotendo lo spirito di rassegnazione delle masse e della piccola borghesia; contrastando l’oscurantismo ed il confessionalismo dominanti; introducendo fattori dinamici in tutta una vasta zona della società italiana che ristagnava e non trovava altri sbocchi che non fossero quelli dell’emigrazione.

Tali considerazioni furono alla radice dell’atteggiamento socialista che assunse una linea d’azione politica e parlamentare di netto stampo liberista, antiprotezionista (di qui la critica di Michels che era diventato già un protezionista convinto quando dava alle stampe la sua Storia critica) ed antifiscalista, contro il peso della burocrazia amministrativa e la sua corruzione, contro lo strapotere delle banche. Anche le stesse battaglie che venivano condotte contro le spese militari erano motivate oltre che da coerenza con le convinzioni pacifiste del partito, con il fatto che si trattava di “spese improduttive“, cioè di erogazione di risorse che venivano sottratte all’impiego nel mondo della produzione.

Questa posizione socialista non soltanto attirava l’attenzione di economisti non marxisti, liberisti e marginalisti, quali Einaudi, De Viti, De Marco, Maffeo Pantaleoni, Ruini, che non mancarono di collaborare alle riviste socialiste, come “Critica Sociale”, ma determinò anche atteggiamenti favorevoli in varie epoche da parte di alcuni settori del ceto industriale, nel centro nord e nello stesso Mezzogiorno.

Nella storia dei socialisti, dunque, non v’è quell’oscurantismo avverso allo sviluppo dell’economia di mercato di cui si vuole artificiosamente colpevolizzarli. Dal “programma minimo” del 1902, fino al 1919 il PSI è stato sempre alleato con i liberisti. Giuseppe Are, esaminando la posizione antiprotezionistica assunta dai socialisti, nella sua opera Economia e politica nell’Italia liberale (1890-1915), la giudica “un’accettazione acritica del modello liberistico come la condizione in ultima istanza più idonea ad un organico sviluppo del capitalismo“. Il che comportava, a suo giudizio, un atteggiamento di “attacco frontale” nei confronti di quei settori industriali che erano sorti e prosperavano “mercé il protezionismo“.

La critica investe l’atteggiamento dei socialisti come un atteggiamento che non avrebbe tenuto conto delle esigenze di concentrazioni e di sostegno pubblico allo sviluppo industriale, per attardarsi ad uno schema meccanico che identificava lo sviluppo capitalistico generale con un sistema di concorrenza perfetta.

Come è noto, la campagna liberista, cui i socialisti avevano appassionatamente partecipato, si concluse con un fallimento, ed essi dovettero constatare che il protezionismo non era tanto una forma transitoria, quanto una condizione fattuale che s’andava imponendo in ragione della competizione economica tra gli Stati, che riceverà una sanzione di legittimità nell’assetto bellico e in quello successivo alla prima guerra mondiale.

Sta di fatto, comunque, che la linea di politica economica che guidava l’azione socialista non era affatto ostile allo sviluppo capitalistico, bensì rivolta ad aiutarlo e ad assecondarlo. Né ci pare di cogliere in questa strategia, che fu di larghe tendenze socialiste, quella dicotomia che vi coglie l’Are tra prassi e teoria marxiana: perché la prassi politica nasceva da un’interpretazione del pensiero marxista, non in contraddizione con essa. (Semmai sarebbe da confutare la esattezza di questa interpretazione.) C’era comunque, in questa interpretazione del marxismo, il germe di un revisionismo, divaricatosi in due correnti opposte di destra e di sinistra, che si andrà sviluppando nel tempo, e che farà una notevole strada nei decenni successivi. Un revisionismo al quale daranno un contributo essenziale, dentro e fuori del partito, personalità come quelle di Carlo Rosselli e di molti altri.

Già nel 1906 Graziadei teorizzava la conciliabilità tra lotta di classe e collaborazione di classe. In una conferenza ad Imola – riportata nel libro Socialismo e sindacalismo – egli li considerava “fenomeni che si completano a vicenda“. Se degli scioperi si abusa, nasce nell’industria uno stato di incertezza che è dannoso alla produzione e che perciò si risolve anche in un danno per gli operai”. “Socialismo non deriva forse da socialista“, si domandava Graziadei, “e socialista non significa solidarietà?“. Nel suo pensiero, la lotta di classe riguardava la distribuzione del prodotto. “Ogni classe cerca di assicurarsi la maggiore e migliore parte della distribuzione sociale“.

La lotta contro il mercato, l'”odium” contro il capitalismo ed il suo sviluppo furono in verità un prodotto del sovversivismo del primo dopoguerra. Un’importazione, in Italia, dell’ideologia leninista.

Per chiarezza e audacia teorica, il gruppo più coerente e più anticipatore dei tempi fu senz’altro quello dei riformisti cosiddetti di “destra“, facenti capo a Bonomi e a Bissolati, espulsi dal PSI al congresso di Reggio Emilia del 1912.

Il più attento studioso di questa corrente politica e di pensiero, Ettore A. Albertoni (relatore nel Convegno nazionale su “Ivanoe Bonomi, un protagonista del ‘900”, Mantova 16-17 ottobre 1987), ha osservato che il riformismo di Bonomi e Bissolati “costituisce l’autentico e concreto tentativo di interpretazione in casa nostra del miglior fabianesimo e dell’organizzazione tradeunionistica inglese“. Al “fabianesimo“, ricorda Albertoni, Bonomi si richiamò esplicitamente nella sua opera Le nuove vie del socialismo (1907) nella quale “esprime in forma inequivocabile l’orientamento circa il rapporto tra i programmi economici e sindacali socialisti e lo sviluppo della democrazia politica in Italia“.

E giustamente Albertoni ritiene che questa posizione, che è “insieme teorica e politica e che rappresenta una compiuta base di azione riformista” deve “ancora essere adeguatamente valutata sia sul piano storiografico che politico“. Il Bonomi, rileva sempre Albertoni, “intimamente convinto dell’autonoma capacità di organizzazione politica espressa dal proletariato di estrazione contadina (con una precisa percezione, quindi, della reale stratificazione di classe in Italia) nutrì il suo riformismo di scelte ideali non retoriche e di contenuti politici pragmatici“. Gettando così insieme con il Bissolati un seme che non fu allora raccolto, ma che frutterà copiosamente nei nostri tempi.