Luigi Tenco era un cantautore scomodo. Molti dei suoi brani sono stati censurati dalla Rai in quanto considerati “troppo politicizzati.”
Sulla sua morte tante ombre. Ci si è spesi in innumerevoli ipotesi sul “mistero” della camera 219 e sono ancora molte le incertezze. La riesumazione del corpo nel 2006 e due sentenze della magistratura confermano si sia trattato di un suicidio, ma numerose controinchieste sembrano mettere in dubbio che Tenco si sia tolto la vita, depresso perché il suo brano venne scartato.
Si è scritto di tutto, dall’omicidio politico, passionale o ancora che sia stato ucciso per soldi o per sapere troppo. Per i 50 anni dalla sua morte è appena uscito il libro di Aldo Colonna, Vita di Luigi Tenco, che avvalora proprio questa tesi dell’omicidio.
Oltre ogni valida ipotesi, dietrologia o congettura la sola cosa indiscutibile è che risulta difficile interpretare il suo suicidio come un atto estremo di una persona che non sapeva perdere, come molte critiche asserivano. Tenco infatti ha sempre preso le distanze dalle logiche concorrenziali e speculative che toccano il mondo della musica. Non si conquistava il pubblico accondiscendendo nel provocargli soddisfazioni facili e tantomeno stava a giochi competitivi ed alla corruzione dei concorsi, lui cantava per comunicare.
Tenco, nella lettera d’addio che la perizia calligrafica conferma abbia fatto proprio lui, scriveva:
Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io, tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La Rivoluzione.” Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi
Il cantautorato progressista, la cosiddetta scuola di genovese, negli anni ‘60 rispecchiava una società in mutamento, ma la società nell’immaginario di Tenco era forse un po’ diversa, era oltre il suo tempo. In più situazioni si è dichiarato deluso dal sistema che lo circondava, e non si riferiva soltanto al mondo della musica. Luigi Tenco incarnava quel progressismo non di certo inedito negli anni delle grandi rivoluzioni culturali precedenti al sessantottismo, ma unico per i temi trattati e per come veicolava i suoi messaggi nella musica.
Luigi faticava a definirsi un cantante, in un’intervista rilasciata a Sandro Ciotti nel 1962 affermava che la sua più grande ambizione fosse di farsi capire dagli ascoltatori, “cosa che non è ancora successa”.
L’impressione è che usasse la musica come mezzo per arrivare alle persone con i suoi messaggi densi di ideali. Del resto cos’è la musica leggera, il “pop all’italiana,” se non ciò che vuole arrivare alle masse, al più ampio raggio possibile di persone?
Spesso con la fama si corre però il rischio di essere fraintesi — e questo Luigi non lo sopportava. Le sue canzoni, spesso dedicate impropriamente dagli ascoltatori alle fidanzate al solo udire della parola “amore”, venivano di frequente equivocate. Nei testi in cui l’autore si rivolgeva alla donna cercava in realtà di scostarsi dalle serenate edulcorate che rappresentavano l’innamoramento. In pezzi come Ballata dell’amore o Se fossi una brava ragazza Tenco prende le distanze da certi vincoli culturali nel corteggiamento ed al comportamento rigidamente conforme ai due ruoli di amanti.
A proposito di ruoli di genere e controcultura degli anni sessanta: come non ricordare Giornali Femminili, un pezzo fortemente dissacrante. Nella canzone Tenco ironizza sul ruolo dei media nello stabilire a cosa deve interessarsi la donna in quanto tale: i problemi di cuore, il lusso, la bellezza, ma mai le questioni piú grandi, “trasformare la scuola, abolire il razzismo, proporre nuove leggi, mantenere la pace.”
Luigi era un personaggio scostante, sicuramente disinteressato a conquistarsi il pubblico. Era incapace di scenderci a compromessi, ad eccezione di una volta: il fatidico festival di Sanremo del 1967 in cui portò Ciao amore, ciao con Dalida.
Il pezzo originariamente s’intitolava Li vidi tornare, ma dato il forte messaggio antimilitarista Tenco decise di ammorbidire i toni slittando sull’emigrazione italiana per non incorrere alla censura. Niente da fare, non è stato comunque apprezzato dalla giuria e questo fu frettolosamente interpretato da molti come il motivo per cui poi si sarebbe sparato alla tempia.
Luigi Tenco era un cantautore scomodo
Molti dei suoi brani sono stati censurati dalla Rai in quanto considerati “troppo politicizzati.” Rimarcava costantemente il tema delle uguaglianze, come in uno dei suoi pezzi più noti, Cara maestra: “quando entrava in classe il direttore tu ci facevi alzare tutti in piedi, e quando entrava in classe il bidello ci permettevi di restar seduti.” Emblematiche ed antisistema furono La ballata della moda, palese sbeffeggiamento alle dinamiche del marketing e Ognuno è libero, in cui trapela il disprezzo alla superficialità ed al consumismo.
Lo chiamavano “il ragazzo col sax,” ma agli esordi oltre che suonare nelle band Tenco aveva scelto Scienze Politiche. La scelta del percorso di studi è stata sicuramente determinante per la politicizzazione dell’artista. Sono in molti a considerarlo comunista anche se altrettanti ricordano che dopo gli eventi in Ungheria stracciò la tessera del partito. Dalida, celebre cantante francese amante di Tenco, in un’intervista al settimanale Oggi del 1987, prima di togliersi la vita, come Tenco, dichiarò: “Luigi mi disse che nel 1964 abbandonò il partito comunista… perché diceva che i rossi si erano completamente sbiaditi.”
Forse per questo poi si iscrisse al partito socialista con l’intenzione di militarvi, tant’è che arrivò a chiedere alla Dischi Ricordi, con cui aveva un contratto, di non comparire col suo nome per non subire danni d’immagine in qualità di studente di Scienze Politiche ed iscritto al PSI, pubblicò infatti numerosi brani sotto pseudonimo.
Come molti artisti di sinistra Tenco era schedato negli archivi del Sifar ed inserito nella “lista nera” del governo democristiano dell’epoca in quanto elemento considerato sovversivo.
Nella lettera lasciata prima di togliersi la vita Tenco esprimeva la sua speranza nell’utilità del suo gesto, voleva essere finalmente compreso. Indubbiamente era provato dalla delusione per un mondo che non lasciava troppo spazio a chi sognava la giustizia, come lui. Forse voleva riflettessimo su quella musica che più che arte e potente mezzo di comunicazione è soltanto successo e denaro. Forse, con il gesto più disperato, voleva dirci che se non c’è più nulla da fare il miglior modo per rimanere fedeli alla propria vocazione, quando è così pura, è non rassegnarsi, non adattarsi, ma lasciarla e “un bel giorno dire basta e andare via” (Ciao amore, ciao).
Fonte: thesubmarine.it
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