GIOVANI SPD: OGGI SIAMO NANI DOMANI POSSIAMO ESSERE DI NUOVO GIGANTI

di Carlo Patrignani Oggi siamo nani, domani possiamo di nuovo esser giganti. Questa la replica dei giovani socialisti della Spd, Jusos, guidati dal 28enne Kevin Kuhnert, contrari alla Grosse Koalition, a chi ha definito la loro posizione – scettici e conservatori – la rivolta dei nani. La Spd di Martin Schulz ha, comunque, dato, a maggioranza: 362 sì, 279 no, il via libera alla trattativa finale per la Grosse Koalition con l’Unione conservatrice, Cdu-Csu, di Angela Merkel per evitare di nuovo il ricorso al voto. L’esito del Congresso della Spd è stato subito salutato via twitter come un’ottima notizia per l’Europa più unita, forte e democratica da Martin Selmayr capo di gabinetto della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker. Sullo sfondo resta il No dei 279 delegati al Congresso tra i quali i giovani Jusos e quello rumoroso, fuori dell’assise congressuale, l’World Conference Center di Bonn, di molti militanti della Spd che sfoggiavano i cappelli degli gnomi rossi  con riferimento a scettici della Spd e conservatori che hanno respinto la campagna contro la Grosse Koalition. L’effetto Jeremy Corbyn si è fatto sentire all’World Conference Center quando nel corso del suo intervento Schulz ha fatto riferimento esplicito a Emanuel Macron: dalla platea si è levato un oh oh Jeremy! La sfida dei Jusos gnomi rossi all’establishment è stata apertamente lanciata. Fonte: alganews.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GERMANIA, SPD AL VOTO: IL GIOVANE KÜHNERT «sfida» Martin Schulz

Resa dei conti al congresso: a rischio l’intesa con Angela Merkel per la formazione della nuova alleanza di governo. Il principale ostacolo è un aspirante leader di 28 anni di Paolo Valentino Per un giorno la «piccola città in Germania» che John Le Carré rese celebre come una delle capitali della Guerra Fredda, torna al centro del mondo per una ragione che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. A Bonn, in riva al Reno, va in scena oggi una pièce ad alto contenuto drammatico, il cui esito avrà comunque conseguenze globali. In gioco sono non solo il futuro del partito socialdemocratico, ma la stabilità politica della quarta economia del pianeta, il potere di Angela Merkel e in ultima analisi il destino dell’Europa, le sue prospettive di rilancio e integrazione. Seicento delegati della Spd sono chiamati in congresso straordinario ad esprimersi su un solo punto in agenda: approvare o respingere il documento di 28 pagine, negoziato dalla leadership socialdemocratica con la Cdu-Csu della cancelliera, che apre la strada a trattative formali per un nuovo governo di Grosse Koalition. Non è per nulla scontato che Martin Schulz, il leader del partito, ottenga la maggioranza necessaria per andare avanti. Sostenuto da gran parte del gruppo dirigente e dai deputati al Bundestag, l’accordo è contestato in modo diffuso nelle federazioni, che hanno scelto i delegati. A guidare la «rivolta degli schiavi» è il «new kid on the block» della politica tedesca. Ha appena 28 anni, il tono flautato e il Milchgesicht, la faccia da bambino, secondo la definizione della Bild Zeitung, ma in soli due mesi Kevin Kühnert è diventato il principale ostacolo sulla strada che porta a un nuovo governo di centrosinistra sotto la guida di Angela Merkel. Kühnert è capo degli Jusos, i giovani socialdemocratici e si batte come un forsennato per tenere la Spd fuori da una Grosse Koalition. Ma quello che il ribelle rivendica come segnale di dibattito vivo e appassionato, è in realtà la bomba a orologeria, che potrebbe in un solo boato spaccare il partito e sprofondare la Germania in una fase di incertezza dalle ripercussioni incalcolabili. «Dobbiamo essere nani oggi per essere di nuovo giganti domani», ha detto Kuhnert al congresso della Spd a Bonn. «I temi comuni con l’Unione sono stati esauriti», ha aggiunto, esortando l’assemblea del congresso di partito a votare contro la Grosse Koalition con Angela Merkel. Erede di una tradizione che ha spesso visto gli Jusos «sparare sul quartier generale», contestando da sinistra la linea ufficiale, dagli euromissili voluti negli Anni Ottanta da Helmut Schmidt all’Agenda 2010 di Gerhard Schröder, Kühnert ha fatto un salto di qualità. Non più solo voce del ribellismo giovanile, ma leader carismatico dell’opposizione interna e punta di lancia del contrasto a Schulz. «La rigenerazione della Spd sarà all’opposizione o non sarà», è il grido di battaglia col quale ha dato voce a tutte le ansie esistenziali e i dubbi identitari della base socialdemocratica, diventando riferimento obbligato di quanti vedono in una nuova esperienza di governo un rischio mortale per il partito. Eppure, l’intesa spuntata nel negoziato con Merkel e i suoi alleati bavaresi recepisce punti importanti delle proposte socialdemocratiche. Pone in cima all’agenda un maggior impegno politico e finanziario della Germania in Europa, prevede la spesa del surplus di 45 miliardi di euro per le famiglie, i giovani e le infrastrutture. Ma la Spd ha dovuto subire il tetto di 200 mila persone al numero annuale di rifugiati e soprattutto rinunciare all’idea radicale di un’assicurazione sanitaria universale, in luogo del doppio sistema pubblico-privato in vigore attualmente. È quest’ultima rinuncia a fornire ai ribelli l’argomento più forte: l’assenza di una visione, di un progetto che metta il timbro socialdemocratico sul patto di governo. Schulz si è tuffato con passione nel tentativo di convincere una base scettica e impaurita, viaggiando in tutti i Land. Se il congresso dovesse bocciare i negoziati per una Grosse Koalition, ha ammonito in una intervista a Der Spiegel, la Germania «andrebbe a nuove elezioni e anche rapidamente». Ma attenzione, ha aggiunto, «i partiti che non riescono a formare un governo con le maggioranze disponibili al Bundestag, saranno puniti dagli elettori». I sondaggi più recenti danno la Spd perfino al di sotto del 20%, il minimo storico ottenuto lo scorso settembre. La prospettiva di elezioni anticipate preoccupa anche la cancelliera. Secondo molti analisti, nel caso di ritorno alle urne potrebbe non essere più Angela Merkel a condurre la Cdu-Csu. Dentro il partito crescerebbe infatti una fronda conservatrice guidata da Jens Spahn, ambizioso vice-ministro uscente dell’Economia, e Alexandr Dobrindts, nuovo capo dei deputati della Csu al Bundestag. Un tentativo di mediare tra fautori e nemici della Grosse Koalition è partito ieri dalle federazioni socialdemocratiche del Nord Reno Vestfalia e dell’Assia, che insieme esprimono oltre un terzo dei 600 delegati. Secondo la Süddeutsche Zeitung, la loro proposta prevede un sì all’intesa, ma subordinato alla revisione di alcuni punti in tema di assunzioni, sanità e ricongiungimenti familiari per i profughi. Unica obiezione, la signora Merkel ha già detto chiaramente che l’accordo, raggiunto dopo 5 giorni di duro negoziato e quasi subito dalla Cdu-Csu, non può essere cambiato nella sostanza. Fonte: corriere.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

La rassegna settimanale dei concorsi pubblici negli enti locali

Come di consueto si pubblica la rassegna dei concorsi pubblici: Gazzetta Ufficiale 4° Serie Speciale – Concorsi ed Esami n. 2 del 5.1.2018: COMUNE DI ALTAMURA CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per esami, per la copertura a tempo indeterminato di due posti di istruttore direttivo di vigilanza categoria D1, ex 7ª qualifica funzionale di cui un posto con riserva prioritaria ai volontari delle Forze Armate. (18E00015). COMUNE DI ALTAMURA CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per esami, per la copertura a tempo indeterminato di un posto di assistente sociale coordinatore – categoria D3, ex 8ª qualifica funzionale. (18E00016). COMUNE DI AURONZO DI CADORE CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per soli esami, per la copertura a tempo pieno ed indeterminato di un posto di istruttore direttivo amministrativo-contabile – categoria D1. (17E10173). COMUNE DI BORGORICCO CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto, a tempo indeterminato e part time 94,44% (trentaquattro ore settimanali), di istruttore amministrativo, categoria giuridica C, posizione di accesso C1, presso il Servizio ragioneria/personale. (17E10150). COMUNE DI BRENO CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di istruttore amministrativo, a tempo pieno e indeterminato, categoria C, profilo economico C1, settore finanziario. (17E10159). COMUNE DI CASTELFRANCO VENETO CONCORSO (scad. 5 febbraio 2018) Procedura selettiva pubblica, per esami, per l’assunzione di due agenti di polizia locale – categoria C, posizione economica C1 – a tempo indeterminato ed a tempo pieno, di cui uno riservato ai volontari delle Forze armate. (17E10155). COMUNE DI CASTELFRANCO VENETO CONCORSO (scad. 5 febbraio 2018) Procedura selettiva pubblica, per esami, per l’assunzione di un istruttore direttivo statistico – categoria D, posizione economica D1 – a tempo indeterminato ed a tempo parziale (50%). (17E10156). COMUNE DI CASTEL GOFFREDO CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per soli esami, per la copertura di un posto di istruttore tecnico – geometra – a tempo pieno e indeterminato, categoria C. (17E10148). COMUNE DI COLOGNO MONZESE CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per soli esami, per la copertura a tempo pieno e indeterminato di un posto di dirigente amministrativo. (18E00024). COMUNE DI CORCIANO CONCORSO (scad. 18 gennaio 2018) Selezione pubblica, per soli titoli, per la formazione di una graduatoria di educatori asilo nido – categoria C) – posizione economica C1) – per l’assunzione a tempo determinato pieno o part-time, da utilizzare per supplenze in sostituzione di personale di ruolo impiegato presso il nido comunale. (17E10157). COMUNE DI FOSSALTA DI PORTOGRUARO CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per un posto di istruttore direttivo tecnico – categoria giuridica D – posizione economica D1 a tempo pieno ed indeterminato presso l’Area lavori pubblici – urbanistica – edilizia. (17E10174). COMUNE DI GIOIA DEL COLLE CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura a tempo indeterminato part-time 50%, di due posti di istruttore tecnico geometra – categoria C – di cui un posto riservato ai soggetti di cui all’articolo 1, comma 1, legge 12 marzo 1999, n. 68. (17E10160). COMUNE DI INZAGO CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di istruttore direttivo contabile, area servizi finanziari, categoria giuridica D1, a tempo pieno ed indeterminato. (17E10103). COMUNE DI INZAGO CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di istruttore amministrativo, area servizi finanziari, categoria giuridica C, a tempo pieno ed indeterminato. (17E10104). COMUNE DI LATINA CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Selezione pubblica per l’assunzione a tempo pieno e determinato di un posto di dirigente finanziario per la copertura della posizione dirigenziale del Servizio finanziario e partecipate. (17E10161). COMUNE DI LUCERA CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Selezione pubblica, per titoli ed esami, per la copertura di due posti di istruttore tecnico, categoria giuridica C, a tempo indeterminato e pieno. (17E10169). COMUNE DI LUCERA CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Selezione pubblica, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di specialista in attivita’ tecniche, categoria giuridica D, a tempo indeterminato e pieno. (17E10170). COMUNE DI MAGLIE CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di istruttore tecnico – categoria C, a tempo pieno e indeterminato. (17E10177). COMUNE DI MAGLIE CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di istruttore direttivo tecnico – categoria D1, a tempo pieno e indeterminato. (17E10178). COMUNE DI MONTALTO UFFUGO CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di collaboratore professionale, profilo idraulico categoria B3 – part-time diciotto ore ed indeterminato. (17E10101). COMUNE DI MONTALTO UFFUGO CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di istruttore direttivo tecnico – categoria D1 – a tempo pieno ed indeterminato. (17E10102). COMUNE DI MONTE GRIMANO TERME CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Concorso pubblico, per esami, per la copertura di un posto di istruttore direttivo responsabile del settore economico e finanziario – categoria D1, a tempo pieno e indeterminato. (17E10165). COMUNE DI NOVOLI CONCORSO (scad. 4 febbraio 2018) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di due posti di istruttore contabile – categoria C – part-time 69,44% (venticinque ore settimanali) ed indeterminato, da assegnare al Settore economico finanziario – Ufficio tributi. (17E10149). COMUNE DI POLISTENA CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di funzionario amministrativo – direttore di biblioteca – categoria D3 – a tempo parziale (50%) ed indeterminato. (18E00028). COMUNE DI PREMANA CONCORSO (scad. 3 febbraio 2018) Selezione pubblica, per soli esami, per la formazione di una graduatoria per l’assunzione a tempo determinato, diciotto mesi eventualmente prorogabili, di un agente di polizia locale categoria C1, per il servizio associato di polizia locale dei Comuni di Premana e Pagnona a tempo pieno su sette giorni lavorativi con riposo settimanale. (18E00079). COMUNE DI SANTA GIUSTINA CONCORSO (scad. 22 gennaio 2018) Concorso pubblico, per soli esami, per il conferimento a tempo indeterminato e pieno di un posto di istruttore direttivo-contabile, categoria D1, presso …

VERSO LA SCISSIONE

Per dissipare ogni equivoco storiografico, va sottolineato come a Livorno si sia consumata la scissione di una minoranza. Infatti, la successione degli eventi non può lasciare alcun dubbio. L’11 ottobre del 1920 era stato reso noto a Milano il Manifesto Programmatico della frazione comunista del PSI. Ciò accadeva poco dopo la fine dell’occupazione delle fabbriche, nella quale i comunisti avevano visto una specie di prova generale della rivoluzione dei consigli operai. Da questo punto di vista l’occupazione aveva avuto un esito che era da considerarsi fallimentare; mentre doveva essere considerato positivo per le posizioni riformistiche. Il Manifesto Programmatico, con il quale la frazione comunista rilanciava la sua iniziativa, era firmato dagli esponenti dei vari gruppi che in essa confluivano: Bordiga, esponente del Mezzogiorno, ed ormai riconosciuto leader della frazione; Terracini, Gramsci ed altri per il gruppo dell’Ordine Nuovo di Torino; Bombacci, esponente del partito nell’Italia Centrale. Il Manifesto trovò un’approvazione formale al convegno di Imola della corrente, che si tenne il 28 ed il 29 novembre successivi. Com’è più noto, il fattore determinante della formazione della frazione (e poi della scissione) fu il rifiuto da parte degli altri settori rivoluzionari del PSI di accettare in blocco tutte le condizioni poste dal II congresso dall’Internazionale comunista (terza internazionale) per l’adesione ad essa dei singoli partiti operai nazionali: le famose 21 condizioni. Racconta un testimone di quegli eventi, Umberto Terracini, nella sua “Intervista” raccolta da Arturo Gismondi, che in una riunione della direzione socialista, appositamente convocata, i delegati partecipanti al congresso dell’Internazionale comunista riferirono sull’argomento. Secondo Terracini: “Pronto ad accettare 20 delle 21 condizioni, Serrati (che era uno dei delegati) chiese che il PSI riconfermasse la propria adesione all’Internazionale, chiedendo a quest’ultima di sollevarlo dall’obbligo di espellere i riformisti“. (Obbligo nel quale consisteva la ventunesima condizione.) Si contrapposero due ordini del giorno: uno, firmato da Adelchi Baratono, che formalizzava la posizione di Serrati; l’altro, di Terracini, che chiedeva la piena accettazione delle 21 condizioni. Questo secondo documento ottenne la maggioranza dei voti, compreso quello del segretario del partito, Gennari. La decisione maggioritaria del vertice del partito fu rovesciata dalla base nel corso del dibattito nelle istanze congressuali: e ciò, nonostante che alla frazione comunista si associassero la corrente Graziadei-Narabini, e quella detta dei “terzinternazionalisti” di Maffi e Riboldi. Pertanto dalla maggioranza ottenuta in direzione, la posizione comunista uscì largamente sconfitta dal voto di base. Cosicché l’esito del congresso (che dovette tenersi a Livorno, anziché a Firenze, per timore delle possibili violenze da parte dei fascisti) smentì categoricamente e clamorosamente la previsione fatta il 20 novembre 1920 da Zinoviev all’esecutivo dell’Internazionale comunista. Zinoviev aveva infatti dichiarato che “i comunisti di Bordiga e Terracini affermano di avere con loro dal 75 al 90 per cento del partito” e che, di conseguenza, “in questa situazione qualsiasi compromesso con Serrati sarebbe dannoso“. La controversia con Serrati non era puramente nominalistica, o di natura esclusivamente tattica. Investiva una questione storica di importanza tutt’altro che secondaria. Infatti la motivazione per la quale l’Internazionale comunista dichiarava incompatibile la presenza dei riformisti nel seno dei partiti ad essa aderenti era che i riformisti non avevano sabotato la guerra schierandosi nei rispettivi paesi contro di essa. Questa, agli occhi dell’Internazionale comunista, era la prova che i riformisti non erano internazionalisti, perché avevano anteposto, al momento decisivo, gli interessi nazionali a quelli internazionali della classe operaia. A questa argomentazione Serrati non opponeva un rifiuto di principio, bensì una contestazione di merito. Egli faceva presente che i riformisti Italiani, a differenza di quelli di altri paesi, non avevano affatto aderito alla guerra, anche se non l’avevano sabotata. Su tale problema, il loro atteggiamento non s’era discostato da quello del partito nel suo complesso: eccezion fatta per Bordiga. La stessa posizione di Gramsci era stata oscillante tra l’interventismo e la neutralità attiva. Se l’argomentazione dell’Internazionale doveva essere presa alla lettera, si sarebbe dovuto espellere quasi tutto il partito. Abbandonata la strada del compromesso con lo stesso Serrati e con i massimalisti che si rifiutavano di mettere fuori dal partito Turati ed i suoi, alla frazione comunista non rimase che la strada della scissione: che risultò essere una strada minoritaria, e che tale doveva restare anche dopo la costituzione del Partito comunista d’Italia, e per molto tempo ancora, se si pone mente al fatto che ancora nel 1946 i socialisti erano elettoralmente più forti dei comunisti. (Perché questi divengano il primo partito della sinistra italiana ci vorranno gli errori dei socialisti nel secondo dopoguerra, e la conseguente scissione di Palazzo Barberini.) Già nella vicenda della scissione di Livorno risaltano alcune caratteristiche permanenti e denotanti della storia comunista successiva. Tra di esse, principalmente, il rifiuto della regola democratica della maggioranza e l’antiriformismo. (La scissione venne compiuta perché la maggioranza si oppose alle condizioni ultimative dei comunisti, e perché si riteneva incompatibile la coesistenza con i riformisti nello stesso partito.) Inoltre, la totale consonanza del gruppo dirigente comunista con le indicazioni politiche provenienti da Mosca: ci vorranno circa sessant’anni prima che questo vincolo cominci ad attenuarsi e a dissolversi. In ogni modo, Livorno segnò un momento altamente drammatico della storia del movimento socialista e della sinistra italiana nel suo complesso. Condusse ad una crisi di orientamento politico, di spirito di iniziativa e di azione, di forza organizzativa per l’intero movimento dei lavoratori. Apri l’epoca delle dissociazioni e delle dispersioni, alimentò, ben presto, lo scoraggiamento dei quadri, dei militanti, degli elettori. E questo avveniva proprio nel momento in cui il movimento dei lavoratori, grazie anche alla conquista del suffragio universale, aveva tutte le possibilità di assumere un ruolo decisivo nella vita nazionale e nello sviluppo della democrazia italiana. La sua crisi fu la crisi del paese e del sistema politico che era sorto dal Risorgimento.   Il congresso di Livorno Ormai Giolitti, non riuscendo a concretizzare un’intesa con i riformisti, dopo essersi esposto sul piano sociale come mai in passato, e dopo aver rotto i ponti con l’altro partito di massa, quello popolare, vedeva restringersi le basi politiche della sua maggioranza, nonostante gli obiettivi realizzati in politica …

I SOCIALISTI E L’ECONOMIA

Su una sola cosa – osserva il Michels – i capi del socialismo italiano si trovarono d’accordo. Da Turati a Ferri, ad Arturo Labriola “stimavano consistere la loro funzione storica nel preparare in Italia il dominio del capitalismo“. Non si fraintenda il senso di questa affermazione, sostanzialmente esatta. La dirigenza socialista del tempo riteneva, al di là delle divisioni teoriche e politiche tra le varie tendenze, che un’accelerazione dello sviluppo capitalistico avrebbe fatto maturare più rapidamente le condizioni obiettive favorevoli sul superamento dello stesso capitalismo, per la costruzione di un ordine sociale nuovo. E si comporta, sul piano della politica economica, di conseguenza, cioè in perfetta coerenza con questa sua convinzione. Sempre il Michels conferma che “il socialismo italiano credeva suo dovere rinvigorire soprattutto le attività e dare alimento ai traffici del paese, liberare le forze produttive, industrializzare l’Italia“. Gli uomini professanti le opinioni più disparate convenivano nel concetto, confermato nella pratica, che la via del socialismo “debba fatalmente passare per un’era di intenso capitalismo“. Questa posizione, che si riassumeva nello slogan “per mezzo del capitalismo al socialismo” venne resa esplicita nel manifesto elettorale ufficiale per le elezioni del 1905 elaborato dalla direzione del partito. In esso veniva detto che i socialisti esigevano dallo Stato “quei subitanei alleviamenti tributari e quelle riforme che, promuovendo lo sviluppo finale di una borghesia modernamente produttiva, favoriscano ed accelerino l’avvento storico di quel regime di giustizia e di pace che è il socialismo“. A questa valutazione ideologica, se ne aggiungerà un’altra: che la “industrializzazione” comportava una crescita numerica e qualitativa della classe operaia, e, di conseguenza, un rafforzamento ed una espansione dell’unica forza politica operaistica che era il PSI. Inoltre essi pensavano che l’industrializzazione avrebbe potuto estendersi sempre di più nel Mezzogiorno, infrangendo rapporti economici e sociali ancora di marca feudale; scuotendo lo spirito di rassegnazione delle masse e della piccola borghesia; contrastando l’oscurantismo ed il confessionalismo dominanti; introducendo fattori dinamici in tutta una vasta zona della società italiana che ristagnava e non trovava altri sbocchi che non fossero quelli dell’emigrazione. Tali considerazioni furono alla radice dell’atteggiamento socialista che assunse una linea d’azione politica e parlamentare di netto stampo liberista, antiprotezionista (di qui la critica di Michels che era diventato già un protezionista convinto quando dava alle stampe la sua Storia critica) ed antifiscalista, contro il peso della burocrazia amministrativa e la sua corruzione, contro lo strapotere delle banche. Anche le stesse battaglie che venivano condotte contro le spese militari erano motivate oltre che da coerenza con le convinzioni pacifiste del partito, con il fatto che si trattava di “spese improduttive“, cioè di erogazione di risorse che venivano sottratte all’impiego nel mondo della produzione. Questa posizione socialista non soltanto attirava l’attenzione di economisti non marxisti, liberisti e marginalisti, quali Einaudi, De Viti, De Marco, Maffeo Pantaleoni, Ruini, che non mancarono di collaborare alle riviste socialiste, come “Critica Sociale”, ma determinò anche atteggiamenti favorevoli in varie epoche da parte di alcuni settori del ceto industriale, nel centro nord e nello stesso Mezzogiorno. Nella storia dei socialisti, dunque, non v’è quell’oscurantismo avverso allo sviluppo dell’economia di mercato di cui si vuole artificiosamente colpevolizzarli. Dal “programma minimo” del 1902, fino al 1919 il PSI è stato sempre alleato con i liberisti. Giuseppe Are, esaminando la posizione antiprotezionistica assunta dai socialisti, nella sua opera Economia e politica nell’Italia liberale (1890-1915), la giudica “un’accettazione acritica del modello liberistico come la condizione in ultima istanza più idonea ad un organico sviluppo del capitalismo“. Il che comportava, a suo giudizio, un atteggiamento di “attacco frontale” nei confronti di quei settori industriali che erano sorti e prosperavano “mercé il protezionismo“. La critica investe l’atteggiamento dei socialisti come un atteggiamento che non avrebbe tenuto conto delle esigenze di concentrazioni e di sostegno pubblico allo sviluppo industriale, per attardarsi ad uno schema meccanico che identificava lo sviluppo capitalistico generale con un sistema di concorrenza perfetta. Come è noto, la campagna liberista, cui i socialisti avevano appassionatamente partecipato, si concluse con un fallimento, ed essi dovettero constatare che il protezionismo non era tanto una forma transitoria, quanto una condizione fattuale che s’andava imponendo in ragione della competizione economica tra gli Stati, che riceverà una sanzione di legittimità nell’assetto bellico e in quello successivo alla prima guerra mondiale. Sta di fatto, comunque, che la linea di politica economica che guidava l’azione socialista non era affatto ostile allo sviluppo capitalistico, bensì rivolta ad aiutarlo e ad assecondarlo. Né ci pare di cogliere in questa strategia, che fu di larghe tendenze socialiste, quella dicotomia che vi coglie l’Are tra prassi e teoria marxiana: perché la prassi politica nasceva da un’interpretazione del pensiero marxista, non in contraddizione con essa. (Semmai sarebbe da confutare la esattezza di questa interpretazione.) C’era comunque, in questa interpretazione del marxismo, il germe di un revisionismo, divaricatosi in due correnti opposte di destra e di sinistra, che si andrà sviluppando nel tempo, e che farà una notevole strada nei decenni successivi. Un revisionismo al quale daranno un contributo essenziale, dentro e fuori del partito, personalità come quelle di Carlo Rosselli e di molti altri. Già nel 1906 Graziadei teorizzava la conciliabilità tra lotta di classe e collaborazione di classe. In una conferenza ad Imola – riportata nel libro Socialismo e sindacalismo – egli li considerava “fenomeni che si completano a vicenda“. Se degli scioperi si abusa, nasce nell’industria uno stato di incertezza che è dannoso alla produzione e che perciò si risolve anche in un danno per gli operai”. “Socialismo non deriva forse da socialista“, si domandava Graziadei, “e socialista non significa solidarietà?“. Nel suo pensiero, la lotta di classe riguardava la distribuzione del prodotto. “Ogni classe cerca di assicurarsi la maggiore e migliore parte della distribuzione sociale“. La lotta contro il mercato, l’”odium” contro il capitalismo ed il suo sviluppo furono in verità un prodotto del sovversivismo del primo dopoguerra. Un’importazione, in Italia, dell’ideologia leninista. Per chiarezza e audacia teorica, il gruppo più coerente e più anticipatore dei tempi fu senz’altro quello dei riformisti cosiddetti di “destra“, facenti capo a Bonomi e a …

NOMINATA SENATRICE A VITA LILIANA SEGRE, sopravvissuta ad Auschwitz: “Memoria vaccino contro l’indifferenza”

Liliana Segre, appena nominata senatrice a vita (foto ansa) Il Presidente della Repubblica le ha telefonato personalmente per informarla. Fu deportata nel 1944 da Milano al campo di concentramento Auschwitz-Birkenau. “Porterò al Senato la voce di chi subì le leggi razziali” sono state le prime parole della neo-senatrice ROMA – Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha nominato senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di concentramento, per “aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale”. Il decreto è stato controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni che ha definito la nomina “una decisione preziosa a 80 anni dalle leggi razziali”. • IL DISCORSO DELLA NEO-SENATRICE “Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”. Queste le prime parole di Liliana Segre dopo avere saputo della nomina. “Ringrazio il presidente della Repubblica per questo altissimo riconoscimento” afferma la neosenatrice. “La notizia – prosegue – mi ha colto completamente di sorpresa”. Mattarella ha informato telefonicamente la neo senatrice. LA TESTIMONIANZA “QUANDO MI VIETARONO DI ANDARE A SCUOLA” • LE REAZIONI Il Segretario generale della Presidenza della Repubblica, Ugo Zampetti provvederà alla consegna al Presidente del Senato della Repubblica, Pietro Grasso, del decreto di nomina. “Sono onorato – si legge in una nota del presidente del Senato – di dare il benvenuto, a una donna che ha insegnato a tutti noi a non cedere all’indifferenza, trasmettendo a generazioni di italiani il ricordo vivo e terribile di una esperienza vissuta in prima persona come reduce della Shoah”. “Esprimo la mia più grande soddisfazione per la scelta del Presidente Mattarella di nominare Liliana Segre senatrice a vita. Donna forte e coraggiosa, sopravvissuta all’orrore di Auschwitz, ha messo a disposizione delle giovani generazioni la sua esperienza” ha dichiarato la presidente della Camera, Laura Boldrini. Olocausto, finalmente a Milano le prime sei pietre d’inciampo per ricordare vittime nazismo “A nome di tutte le comunità ebraiche in Italia, esprimo la nostra commozione per la decisione del Presidente Mattarella” ha detto la presidente Ucei Noemi Di Segni, ricevuta la notizia, “risponde esattamente alla profonda esigenza di assicurare che l’istituzione chiamata a legiferare abbia a Memoria quanto avvenuto nel passato e sappia in ogni atto associare al formalismo della legge anche l’intrinseca giustizia e rispondenza ai fondamentali principi etici, in un contesto sempre più preoccupante nel quale l’oblio rischia di divenire legge oltre che fenomeno sociale”. IL RITRATTO CHI È LILIANA SEGRE Nata a Milano il 10 settembre 1930 è una reduce dell’Olocausto. Il 30 gennaio 1944 venne deportata dal binario 21 della stazione di Milano Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau da cui venne liberata il primo maggio 1945. Il 29 novembre del 2004, su iniziativa dell’allora Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, fu nominata commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. Fonte: La Repubblica SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

I REVISIONISTI

La debolezza e la contraddizione politica delle due ali revisionistiche si presentò con evidenza nel momento in cui nessuna delle due riuscì ad avere il controllo dell’organizzazione socialista, nonostante che entrambe queste tendenze privilegiassero il sindacato come soggetto delle loro proposte politiche, rispetto al partito. I riformisti turatiani ebbero, in generale, una più forte influenza sull’organizzazione sindacale, anche se i rapporti tra il sindacato e il partito non furono sempre cordiali e ispirati a comune strategia. Ciò che non aiutò le correnti revisioniste fu il fatto storico che, nella peculiarità della situazione italiana, il sindacato aveva bisogno del partito, per l’azione legislativa diretta a creare le condizioni di ascesa del movimento del lavoro, e il partito aveva bisogno del sindacato come base concreta ed organizzata nella società. Né si può sottovalutare il fatto, a differenza di altre esperienze nazionali, che il sindacato era stato in Italia preceduto dall’esperienza politica. Il PSI era nato nel 1892, la Confederazione generale del lavoro era nata nel 1906, raccogliendo esperienze complesse che s’erano sviluppate negli anni precedenti, ma prendendo forma organizzata e diffusa nazionalmente solo in quel periodo. La Confederazione generale del lavoro era un’organizzazione del tutto autonoma dal partito, e giustamente gelosa della sua autonomia. Già nell’ottobre del 1907 veniva a stipularsi un accordo tra partito e sindacato, che ne regolava i rispettivi compiti e funzioni. L’accordo ricalcava, in buona sostanza, una risoluzione del VII congresso della Seconda Internazionale tenutosi a Stoccarda nell’agosto 1906, nella quale venivano definiti appunto i rapporti tra partiti socialisti e organizzazioni sindacali. Nell’intesa tra PSI e CGL fu stabilito che entrambe dovessero ispirare la loro azione ai princìpi socialisti e a una strategia politica riformista e gradualista. In base al “patto“, la direzione degli scioperi economici spettava alla CGL, mentre quella delle manifestazioni politiche era lasciata al partito. Per gli scioperi politici si stabiliva che le decisioni relative ad essi dovevano concordarsi insieme. L’accordo tra il PSI e la CGL tagliava l’erba sotto i piedi del sindacalismo rivoluzionario; ma in realtà finiva anche per togliere ogni successiva piattaforma di influenza concreta sulle masse lavoratrici agli stessi teorici dell’economicismo sindacalistico e del laburismo, ai revisionisti di Bonomi e Bissolati. Il patto con la CGL rappresentò immediatamente un punto di forza per i turatiani. Infatti il congresso di Roma (ottobre 1906) aveva segnato la sconfitta dei sindacalisti rivoluzionari, caduti in minoranza. In quel congresso Labriola teorizzò che il partito dovesse essere un “organo subordinato, a volte superfluo ed inutile”. Pertanto “solo al sindacato di mestieri spettava la grande missione liberatrice delle classi lavoratrici“. Con una certa coerenza, essi avevano deciso di abbandonare il partito nel luglio 1907, dando vita ad una organizzazione autonoma, classista, basata appunto sui mestieri. Essi contavano, per la loro propaganda e per la loro azione, sull’accentuarsi della crisi economica, quale risultava in quei momenti, e sull’inasprimento dello scontro di classe. Presero occasione dallo sciopero di Milano dell’ottobre del 1907 e da quello di Parma, nell’aprile del 1908, per tentare la proclamazione di uno sciopero generale nazionale: ma la Confederazione generale del lavoro si oppose con energia al loro proposito. E ciò segnò la sconfitta del sindacalismo rivoluzionario, avviando alla conclusione la loro esperienza di corrente organica del movimento socialista. Leader e militanti di questa tendenza prenderanno ben presto le vie più disparate. La guerra di Libia darà a molti di essi l’occasione per una convergenza con l’agitazione nazionalistica, in particolar modo sospingendoli a guardare con simpatia a quei gruppi e personalità del nazionalismo di sinistra, come Sighele e Corradini, che andavano elaborando l’idea-forza della “nazione proletaria“. Su questa strada molti sindacalisti rivoluzionari s’incontreranno negli anni del primo dopoguerra con quei movimenti che, dal dannunzianesimo al fascismo, esprimeranno, soddisfacentemente per essi, quelle esigenze irrazionalistiche e volontaristiche che ne avevano ispirato la teoria e l’azione già tra le fila del PSI. Altri cinque anni durerà invece l’esperienza all’interno del Partito socialista della tendenza revisionista di Bonomi e Bissolati. Staccatisi dal gruppo riformista di Turati e Treves, essi andranno assumendo una fisionomia ideologica e politica sempre più netta, distinguendosi dai riformisti soprattutto sul tema della funzione del partito, su quello della partecipazione organica dei socialisti al governo di collaborazione e su quello dei rapporti tra socialismo e nazione. Bissolati ne diviene il teorico più lucido, che più si espone alle polemiche e agli scontri, fino all’espulsione dal PSI del gruppo nel congresso di Reggio Emilia del 1912. Alcuni studiosi del movimento socialista, tra i quali Giorgio Galli, tendono ad attenuare le differenze teoriche tra il riformismo turatiano e il revisionismo “di destra“. “Il revisionismo di Bonomi è esplicito, quello di Turati implicito”, afferma infatti Galli. Vista la questione con il senno del poi, può essere anche così. Certo è che la loro divisione in quei frangenti finì per indebolire non poco le possibilità politiche del riformismo all’interno del partito e in tutto lo scenario della situazione italiana. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

DEMOCRAZIA O CONFUCIANESIMO 4.0?

A partire dalla rilettura di Ralf Dahrendorf (“Quadrare il cerchio”, Laterza, 1995), una riflessione critica sulla post-democrazia confuciana teorizzata da Parag Khanna nel volume “La rinascita delle città-Stato”, di recente pubblicazione per Fazi: una proposta di governance tecnocratico-burocratica a misura degli interessi dominanti.   di Pierfranco Pellizzetti «La tirannia del costume è generalmente un ostacolo al progresso dell’umanità. […] Questo è il caso, per esempio, di tutto l’Oriente. In Oriente il costume domina arbitro supremo in tutte le cose»[1]. John Stuart Mill «Prima che l’umanità soffochi (o si delizi) nella prigione (o nel paradiso) di un impero globale di marca occidentale o di una società di mercato globale gravitante attorno all’Oriente asiatico, potrebbe anche bruciare tra gli orrori (o le glorie) della crescente violenza che ha accompagnato il disfacimento dell’ordine della Guerra Fredda»[2]. Giovanni Arrighi Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Laterza, Roma/Bari 1995 Parag Khanna, La rinascita delle città-Stato, Fazi, Roma 2017 Nostalgia di un mondo alla fine Nel pieno della grande transizione di fine Novecento, il sociologo anglo-tedesco Ralf Dahrendorf diede alle stampe uno smilzo libretto impregnato della consapevolezza melanconicamente profetica di assistere al tramonto del mondo in cui si era riconosciuto per tutta la sua esistenza militante. Il Primo Mondo, quale Occidente illuminato e civile, interpretato e propugnato con le categorie del liberale critico di stampo popperiano e newdealista: «a volte si ha l’impressione che la grande stagione stia per concludersi, o che sia quanto meno in pericolo»[3]. La società aperta che perseguiva «un equilibrio civile tra creazione della ricchezza, coesione sociale e libertà politica»[4]. In altre parole, la combinazione, realizzata nei suoi momenti migliori (e dimenticando le contraddizioni permanenti di esclusione, diseguaglianze e richiami bellici insite nel modello praticato), di uno sviluppo materiale che dischiudeva opportunità anche a coloro che non avevano ancora raggiunto la prosperità, la sostituzione del privilegio con il diritto generalizzato diffondendo cittadinanza e quella singolare combinazione del rispetto dello stato di diritto con i rischi della partecipazione popolare e l’alternanza di governi che chiamiamo “democrazia”. L’occhio attento dell’osservatore impegnato scorgeva con chiarezza i pericoli di arresto della difficile quadratura civile che – appunto – ormai iniziavano a manifestarsi in misura crescente alla fine del secolo scorso, grazie a quel nuovo corso inarrestabile chiamato “globalizzazione” (oggi aggiungiamo l’aggettivo “finanziaria”); in cui l’economia andava imponendo la propria egemonia marginalizzando la politica, cancellando le condizioni stesse del conflitto sociale che riequilibra il comando capitalistico e smantellando l’antemurale contro la prevaricazione rappresentato dai diritti sociali. Mentre la rinascente propaganda mediatica, al servizio dell’uso ideologico della paura, soppiantava la centralità della security (garanzia del proprio posto nella società) con la safety (la promessa di incolumità personale, nel mondo trasformato in un immenso Bronx terrorizzante). Il ritorno al comando della plutocrazia senza freni e contrappesi, che l’esperto di politica e faccende militari Edward Luttwak ha bollato sbrigativamente come “turbocapitalismo” («lo chiamano libero mercato, ma io lo definisco invece capitalismo sovralimentato, o più semplicemente turbocapitalismo»[5]). Dunque, il combinato disposto di deregulation e prevalenza degli interessi aziendali che andava creando la nuova forma di disuguaglianza che Dahrendorf riteneva più corretto definire “sperequazione”. Mentre andava in frantumi il cerchio che si è cercato a lungo di quadrare, qualcuno intravvedeva una soluzione auspicabile nei laboratori a Oriente, che perseguivano l’equilibrio grazie «alla ricerca di una rapida crescita economica che si sposi con una robusta coesione sociale, senza preoccuparsi troppo di promuovere insieme stato di diritto e democrazia politica»[6]. Progetto lontanissimo – anzi, alternativo – a quello occidentale (Giappone compreso), al tempo impersonato da quelle che venivano denominate “le tigri d’Asia”; o “i quattro dragoni”: Singapore, Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud. Arrivano i consulenti asiatici Infatti i teorici asiatici del nuovo modo di produrre stavano acquisendo la convinzione di non dover ripercorrere i passaggi evolutivi attraversati nei processi di industrializzazione/modernizzazione prima europei, poi americani, attingendo ai valori della propria ancestrale tradizione. Una tradizione a guida cinese che – secondo Arrighi – aveva prodotto dal sedicesimo al diciottesimo secolo una “rivoluzione industriosa”, insita nello sviluppo promosso da istituzioni e tecnologie ad alto contenuto di lavoro (in risposta alla scarsa disponibilità di risorse naturali); pur su basi di mercato ma senza l’attitudine a imboccare la via ad alta intensità di capitale e consumi energetici perseguita già dalla rivoluzione industriale inglese. Un assetto rigidamente organizzato, che diffondeva l’etica del lavoro in un contesto rigorosamente verticistico e gerarchico. Fedele all’ideale confuciano dell’armonia sociale «e non disposto a tradirlo per abbracciare una visione basata su una competizione di mercato senza freni e su una politica generalizzata di laissez-faire»[7]. Sulla scia di Stuart Mill, ora anche il nostro Dahrendorf scorgeva nel modello redivivo nel Far East la pericolosa contaminazione dei tradizionali valori asiatici calati dall’alto con l’autoritarismo politico; osservando come tale modello esotico piacesse già allora a moltissimi uomini d’affari e ai politici conservatori. Non a caso proprio nel fatidico 1995, in contemporanea con il saggio dahrendorfiano, veniva dato alle stampe il manuale del McKinsey boy Kenichi Ohmae, conclamato guru della consulenza del business, che gli contrappone uno squillante peana della stagione economica a venire: il migliore dei mondi possibili. Scriveva questo Pangloss con gli occhi a mandorla: «per molti dei valori fondamentali su cui si reggeva un ordine mondiale basato su una serie di Stati-nazione distinti e indipendenti – per esempio la democrazia liberale praticata dai Paesi occidentali e addirittura il concetto stesso di sovranità politica – si è effettivamente manifestata la necessità di una rigorosa ridefinizione o, in qualche caso, di una vera e propria sostituzione»[8]. Olè, in un colpo venivano fatti fuori la statualità, spazio prioritario (per non dire esclusivo) delle politiche di solidarietà, e la liberal-democrazia. Visto che l’ordine nascente ridisegnerebbe il panorama geopolitico sulla base della competitività. Un mondo tratteggiato a strisce (“come il pellame della zebra”) grazie al ruolo svolto da aziende multinazionali foot loose; in cui la politica accetta un ruolo servile, del tutto subalterno all’economia: «nell’odierno mondo senza frontiere, l’insegnamento che i governi debbono fare proprio è inequivocabile: se si rimane ancorati troppo a lungo al concetto di economia …

APPELLO PER LIVORNO 2018 – RITORNO AL FUTURO

La Storia è l’avvenire Noi Socialiste e Socialisti, di diverso orientamento e provenienza, ma uniti dalla volontà di un comune destino, riteniamo sia giunta l’ora di superare una scissione che, al di là delle ragioni storiche che l’hanno generata, oggi di sicuro non ha più ragione di esistere: la scissione di Livorno del 1921. Fu la scissione che portò alla sconfitta del partito Socialista e all’emergere del fascismo e della dittatura mussoliniana. Lo hanno riconosciuto anche molti artefici di quella scissione: “aveva ragione Turati” disse Umberto Terracini, storico dirigente e fondatore del PCd’I. Oggi occorre ripartire da qui, dagli errori storici, e da quelli più recenti che hanno massacrato l’Idea Socialista in Italia. Nel XXI secolo il socialismo, come idea di società retta da valori diversi e alternativi da quelli oggi dominanti, è più che mai attuale, soprattutto in un mondo dove non regnano la pace, la giustizia e la libertà e crescono le diseguaglianze. Una generica sinistra senza aggettivi non è in grado oggi di rispondere alle domande e ai problemi che hanno coloro che fanno del lavoro e della sua ricerca la propria ragione di vita, ma non è neppure in grado di valorizzare i meriti dei tanti giovani che, a causa di una società bloccata da consorterie, corporazioni, clientele e associazioni criminali, debbono andare all’estero per vedere riconosciuta la propria professionalità. L’involuzione neoliberista, il ritorno di fenomeni fascisti, le migrazioni epocali, lo sfaldarsi delle altre culture politiche storiche della sinistra italiana, europea e mondiale richiedono la ricostruzione, qui ed oggi, di una forza Socialista nel e per il ventunesimo secolo, per far fronte alle sfide nuove che si prospettano, e con un’organizzazione che sia adatta a sostenere queste sfide. Sono sfide epocali, a cominciare dal cambiamento climatico e dal diniego di accesso di milioni e milioni di esseri umani, anche i tenera età, a beni primari, dall’acqua potabile, ai beni per nutrirsi, alla cura della propria salute, all’istruzione, e lo possiamo fare solo partendo dall’unica cultura politica che tutt’ora è viva, quella socialista, che deve però essere alimentata da nuovi apporti. Noi socialisti firmatari di questo Appello riteniamo che sia sempre più necessario Riunire le sensibilità di chi si riconosce nel socialismo democratico e nell’azionismo di Giustizia e Libertà, Ridare piena dignità politica a tutte quelle aggregazioni di compagni e compagne che in questi anni nel paese hanno tenuto alta, con orgoglio, la “rossa bandiera su cui splende il sol dell’avvenir”, Sostenere chi sta lottando per il lavoro, i diritti umani, sociali e civili, per l’uguaglianza, la libertà e la democrazia. E’ innanzitutto a loro che ci rivolgiamo per porre termine ad una diaspora infinita di un popolo che voce non ha. Nello stesso tempo lanciamo un appello a tutti coloro e che hanno sostenuto il NO al referendum costituzionale del 4 dicembre e che, sull’onda delle campagne contro le leggi elettorali incostituzionali, sono stati i sostenitori per una giusta battaglia che ha battuto la “narrazione” renziana, e che continuano a lottare affinchè il popolo italiano possa scegliersi i suoi rappresentanti con un voto eguale, libero personale e diretto, battendo l’ennesimo esproprio della volontà popolare predisposto e votato con il “Rosatellum”. Per costruire un’Italia nuova democratica e solidale è necessario ripartire dalle origini del pensiero socialista, dalle sue parole d’ordine che erano e debbono tornare ad essere dirimenti: Libertà civili, Giustizia sociale, voto proporzionale, imposte progressive. Per questi motivi chiediamo a tutti i socialisti, ovunque essi siano, e a tutti coloro che vorranno condividere con noi le battaglie per la democrazia, ad  organizzare in tutte le regioni e nelle città degli incontri preparatori della  grande manifestazione dell’orgoglio socialista che si terrà a Livorno SABATO 24 marzo 2018 inizio lavori ore 9.30 l’evento si terrà presso la sede della “Società Volontaria di Soccorso” 57121 – Via delle Corallaie 10 – Livorno nord Tel.0586/428.001 Fax. 0586/411.877 mail: livornonord@pubblicaassistenza.it www.pubblicaassistenza.it e che avrà quale titolo “Livorno 1921, aveva ragione Turati” Sempre Avanti! compagne e compagni, la traversata del deserto sta per finire, il sol dell’avvenire sta risorgendo!!! PER LE ADESIONI si può scrivere a: socialismoitaliano1892@gmail.com INVIANDO il proprio indirizzo mail, numero telefonico e provincia di residenza. Nino Martino, Felice Besostri,  Massimo Bianchi, Turi Lombardo, Dario Allamano, Nicola Cariglia, Andrea Ermano, Marzia Casiraghi, Patrizia Virdis, Vincenzo Lorè, Giampaolo Mercanzin, Giampaolo Pagliai, Aldo Potenza, Angelo Sollazzo, Giancarlo Caldone (Sindaco di Volpedo), Silvano Veronese, Paola Bodojra, Daniela Cioci, Pina Cristadoro, Anna D’Amico, Annalisa DeTata, Anna Maria Pagano, Susy Rame, Domenico Argondizzo, Antonio Autuori, Luca Biagini, Marco Brunazzi, Michele Cassotta, Daniele Cavaleiro, Siro Centofanti, Gianluca Chiesa, Roberto Ciancaleoni, Mattia Corsini, Angelo Cresco, Aurelio Dozzini, Daniele D’Ubaldo, Sergio Ferrario, Renzo Fratton, Franco Gai, Giuseppe Josi, Bruno LoDuca, Massimo Lotti,  Antonio Meda, Bruno Mezzalira, Pietro Morabito, Gianni Natali, Giovanni Oranges, Fabio Panariello, Emanuele Pillitteri, Roberto Ranucci, Giuliano Romani, Stefano Rosati, Mauro Scarpellini, Luciano Taborchi, Luciano Vita, Luciano Zacchini, Stefano Zaffera, Arsenio Ermano (Direttore de L’Avvenire dei Lavoratori), Antonino Reina, Massimiliano Pastore, Giuseppe Iacopini, Sergio Labonia, Sergio Rizzi, Valter Casolari Rojas, Ennio Succi, Elio Danza, Fiorenzo Faini, Sergio Eletto, Nicolino Corrado, Stefano Orsi, Antonio Caputo, Sergio Negri, Bebo Moroni, Emiliano Mazzoli, Giovanni Battista Martini, Renato Pezzoli, Pietro Maria Delfino, Juan Camilo Zuluaga, Partito Socialista Italiano Castellamonte (TO) Il Segretario Morgando Vigna – Il Presidente Eugenio Bozzello, Fernando Rosato, Giulia Venia, Fulvio Fasano, Vincenzo Dongiovanni, Carlo Felici, Guerino Deluca, Annita Ferri, Alberto Acquarelli, Roberto Finessi, Giacomo Risso, Salvatore Cadau, Piero Ferrari, Umberto Costi, Antonello Sabiu, Mario Salvatore, Vincenzo Pettinella, Carmine Eliseo, Antonio Martino, Massimo Iannelli, Marco Raveggi, Giorgio Pratolongo, Pino Josi, Luigi Sergio Ricca, Marisa Cobellini, Gabriele Martinelli, Gennaro Acerra, Carlo Genovesi, Gianluca Soliani (Presidente della Federazione Psi Reggio Emilia), Virginio Dall’Aglio (Resp.le Organizzativo Federazione Psi Reggio Emila), Francesco Altomare, Stefano Betti, Simone Landi, Domenico Grassi, Fausto Fareri, Ivano Cannone, Felice Lombardi, Giuseppe Frabbri,  Andrea Fabbri, Roberto D’Ambra, Gaetano Dieni, Rosario Berardi, Zeno Stanghellini, Giuseppe Cecci, Alfredo De Cristofaro, Donato Libutti, Valdo Spini, Franco Galassi, Federico Basagni, Rita Pacini, Massimo Battisti, Alice Bianchini, Francesco Anaclerio, Andrea Renieri, Vincenzo Acerbo, Giovanni Amiranda, Fabio Amiranda, Angelo Morello (per il …

RIFORMISMO E REVISIONISMO

Nella storia dei primi decenni di vita del PSI, la figura, il pensiero, l’opera di Filippo Turati furono, senza alcun dubbio, dominanti. Dalla fondazione della “Critica Sociale” all’accorta ed abile guida delle battaglie parlamentari, alla leadership indiscussa di capo dell’ala riformista, alla gestione dei difficili ma fecondi rapporti con Giolitti, Turati risulta sempre protagonista di ogni battaglia socialista, sia di quelle da cui esce vincitore, sia di quelle in cui risulta soccombente. Il riformismo di Turati si sviluppò sulla base di una interpretazione gradualistica ed evoluzionistica del marxismo, o di quello che egli riteneva tale. Si distinse, anche nei momenti di più intenso scontro con le altre tendenze del partito, dal revisionismo teorico e da quello politico non solo di Bissolati e di Bonomi, ma anche da quello del Michels. Se sul piano politico la linea di Turati può essere definita di “sinistra riformista“, insieme con quella di Modigliani e Treves, differenziandosi da quella della “destra riformista” di Bissolati, Bonomi e Cabrini, sul piano teorico il suo riformismo “è ben dentro il solco marxista“, come ebbe a qualificarlo uno dei suoi discepoli, Giuseppe Faravelli, il quale ricorda appunto come la “Critica Sociale“, fondata e diretta da Turati, fu il centro dal quale s’irradiò il marxismo. Il socialismo scientifico di stampo marxista fu l’”arma ideologica” del nascente partito. Da allora, fino ai suoi ultimi anni, Turati ne sostenne, ne divulgò, ne difese i principi basilari – dalla lotta di classe all’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio – impegnando anche dure polemiche con le tesi revisionistiche elaborate da Bonomi, da Michels e anche da Graziadei. La “Critica Sociale” curò inoltre la traduzione e la pubblicazione di numerosi scritti di Marx, di Engels e di altri teorici loro seguaci, e in particolare quella del “Manifesto dei comunisti”, per il quale lo stesso Engels – che, con Turati, intrattenne una lunga e copiosa corrispondenza – scrisse la prefazione. Al di là di questi fatti, del resto non contestabili, v’e da dire che il “marxismo” di Mirati (e con lui della Kuliscioff, dal contributo della quale la sua elaborazione teorica e la sua azione politica sono inseparabili) ebbe connotazioni del tutto particolari, che condussero a ripetute contestazioni sul suo carattere realmente “marxista” da parte dei dottrinari ortodossi, o che si ritenevano tali, già nella sua epoca. Gli fu imputato di aver avuto una formazione filosofica positivistica ed anche una derivazione lombrosiana, che gli avrebbero impedito di comprendere in modo esatto e approfondito le premesse filosofiche del marxismo e, in particolare, il suo spirito dialettico. In realtà Turati non era un filosofo (anche se aveva una indubbia cultura filosofica), né, quel che più importa, un dogmatico. Non fu, certamente, un ortodosso, anche se restò fedele, o presunse di restarlo, ai canoni fondamentali della dottrina di Marx. La sua interpretazione ideologica si discostava dal revisionismo di Bernstein, contro il quale egli si schierò al fianco di Kautsky. Si mosse, su questo terreno, nella stessa direzione in cui si muoveva il leader socialista francese Jaurès “nel senso che riconobbe la giustezza di certe esigenze poste dal revisionista tedesco, pur negando che il marxismo mancasse della capacità di soddisfarle, onde occorresse deviare dalla sua linea maestra“. Soprattutto Turati, da acuto politico, si preoccupò di adattare e integrare la dottrina marxista alla luce dei cambiamenti avvenuti nella compagine sociale e delle nuove esperienze proletarie, tenendo presenti – ben più di quanto non si sia a volte ritenuto – le specifiche condizioni Italiane, m specie per quel che riguardava una vasta presenza delle masse rurali e l’arretratezza delle regioni meridionali. Si preoccupò soprattutto di conservare ed ampliare quelle condizioni di vita democratica che il Risorgimento aveva consegnato alle nuove generazioni, e che egli era convinto costituissero uno scenario favorevole allo sviluppo delle lotte sociali e politiche dei lavoratori. Il suo riformismo socialista consisteva nel concepire le riforme come progressiva attuazione del fine socialista, “non come elargizioni, ma conquiste, come funzione della coscienza proletaria e, ad un tempo, come arricchimento di essa in una sfera di sempre più ampia libertà“. Il fine del socialismo coincideva, per lui, figlio della sua epoca, nella attuazione di una società socialista, contrassegnata da un’economia socializzata. Coincideva, peraltro, con la realizzazione di un “universo democratico“, nella più ampia forma di democrazia possibile a concepirsi: la fede democratica di Turati, la sua incrollabile negazione della violenza come negatrice della storia, la religione della libertà coincidevano, non contraddicevano la finalità ultima del socialismo. Erano assenti, né poteva essere altrimenti, dalla sua cultura il sospetto delle minacce alla libertà con l’attuazione della società organizzata secondo i moduli dell’economia marxista. Quando nel 1919 si avvertiranno le prime avvisaglie di queste esperienze, Turati metterà in guardia i socialisti Italiani contro i facili miti della violenza e del socialismo costruito dall’alto. Uno dei più recenti studiosi della personalità di Turati, l’americano Spencer Di Scala, ha ricordato, nel suo volume Dilemmas of Italian Socialism: the Politics of Filippo Turati, come Turati, pur nella sua professione marxista, avesse fin dalla fine del secolo scorso abbandonato la teoria della dittatura del proletariato “in quanto generatrice di un concetto oligarchico all’interno del socialismo“. La preoccupazione maggiore di Turati, quella che costituì il nucleo essenziale del suo discorso e della sua azione politica, fu quella derivante dai problemi della tattica. Dagli avvenimenti drammatici della fine del secolo XIX – i cui effetti repressivi si abbatteranno anche su di lui e su Anna Kuliscioff, oltre che su tanti compagni di partito – egli trasse l’assoluta convinzione che bisognasse abbandonare la tattica ribellistica e rivoluzionaria, e sostituirla con una tattica riformistica e gradualistica, ricercando quelle alleanze sociali, culturali e politiche che avrebbero permesso al movimento socialista di esprimere tutta la sua potenzialità rinnovatrice. Fedele all’indicazione che già nel 1891 aveva dato la Lega socialista milanese, secondo la quale “il socialismo non si fa né con decreti dall’alto né con rivolte dal basso“, egli agì con grande coerenza su questa linea. Era convinto che, alla stessa stregua con cui il liberalismo aveva superato la società feudale, …