PIETRO NENNI

Repubblicano, interventista, socialista, amico di Mussolini e poi antifascista. Nenni, durante la sua lunga vita, è riuscito a issare molte delle barricate costruite in fretta e furia durante un secolo in fiamme: il Novecento. di Antonio Martino* I raggi d’altoforno del sole di Maggio sventagliano sulla piazza affollata raffiche di calore e sudore. Sulle tante teste, racchiuse nello spazio esiguo del ciottolato alla maniera di una scatola di spilli, si contano più capelli che cappelli. Nel 1898 nessuno, nemmeno il miserabile, esce di casa senza coprirsi il capo. Dal vociare confuso, poi, non s’alza nemmeno una bestemmia, una volgarità. Il rumore di fondo, esasperato ed esasperante, assomiglia pericolosamente a quello di un rosario, sommesso e quieto pigolare delle beghine. C’è però un ma, e di dimensioni notevoli. Alle beghine si son sostituite decine e decine di azdore, ben lontane dalla calma del Tempio, decise a tutto per un motivo atavico e vitale: la fame. L’esercito di angeli del focolare, inzaccherate di farina e rabbia, si spartiscono i frutti della loro scorribanda. Filoni, sfilatini, pagnotte e biscotti sono i frutti del recente e femmineo assalto al forno locale, amara conseguenza dell’esasperazione che il 1898 ha disseminato in lungo e largo nel regno di Umberto I. Nella miseria l’eguaglianza dei sessi ha sempre trovato una spietata tutrice: alla massa nero-bianca delle infarinate ecco avvicinarsi un manipolo di operai, sporchi di fatica e grasso. Sciopero generale! gridano, e l’urlo sembra scuotere le pietre di Faenza. I benpensanti e i galantuomini son da tempo alla finestra, ad osservare tremanti la plebaglia che osa rivoltarsi. Occhiate fugaci corrono da persiana a stipite, mormorii borghesi invocano la salvifica autorità della Forza pubblica. Dov’è l’argine alla canaglia? Naturalmente al proprio posto, pensa il delegato di Pubblica Sicurezza, mentre fissa avvicinarsi la mandria di miserabili. Comanda uno squadrone di cavalleria rafforzato da Carabinieri Reali: sa cosa fare. Tre squilli di tromba- a cui seguono pernacchie proletarie- e poi il caricat! s’addossa l’onere di ristabilire l’ordine. Al modesto riparo di una colonna, un bimbo osserva la plastica dimostrazione dei rapporti di forza tra le classi manifestarsi sulla pelle dura e rugosa degl’operai e delle massaie. Voleva, o meglio doveva andare a scuola, ma quella parolina impertinente, sciopero, lo aveva indirizzato verso la piazza, rabdomantico presagio di una vita. Quel giorno di maggio Pietro Nenni e il Novecento si presentano, inconsapevoli e precoci, l’uno all’altro per non perdersi più. Pietro nasce a Faenza il 9 febbraio del 1891 da Giuseppe e Angela Castellani. I genitori sono dei contadini inurbati, scesi in città per servire la famiglia dei conti Ginnasi. Nell’Italia fin de siecle la campagna è ancora sinonimo di fatica, vita dura, condanna perenne alla terra: per i Nenni vale la pena servire dei patrizi pur di abbandonare la realtà dei campi. A Giuseppe però la scommessa non porta granché fortuna, e nello stesso anno della disfatta di Adua trapassa a miglior vita lasciando al lutto e sul lastrico moglie e figlio. Beneficiata dalla carità della contessa, sua padrona, la madre riesce a iscrivere il piccolo all’Orfanotrofio Maschile e Opera Pia Cattani. La nobildonna vorrebbe farne un uomo di Chiesa; per tutta risposta il mancato seminarista autograferà di Viva Bresci! i corridoi dell’istituto, con ovvio e pauroso orrore del sabaudo direttore. V’è vocazione in Pietro, ma è chiamata umana e non divina, ribellione che percuote e anima le gracili membra del già miope scolaretto lungo gli anni faticosi e gretti del collegio. Al posto delle Vite dei Santi Nenni legge di nascosto le lettere alla madre di Giuseppe Mazzini; a Salgari e Verne preferisce Hugo e Zola, benvolentieri scambiando il Corriere dei Piccoli dei suoi coetanei con sacrileghi e dinamitardi opuscoli repubblicani e socialisti. Le Belle Epoque si consuma di splendore decadente quando, nel 1908, il giovinetto esce dall’orfanotrofio e s’impiega- da buon faentino- in una fabbrica di ceramiche. La Romagna, avanguardia d’Italia, bolle. Una nuova leva di ribelli, pronti a sovvertire l’esistente ed incendiare l’ordine costituito irrompe nelle piazze e nei caffè della quiete vita di provincia. Nenni è immerso in quest’atmosfera dinamitarda, cresce a pane e estremismo: per uno sciopero di solidarietà perde il posto e trova la strada, dura e formidabile compagna. Viene eletto nel Comitato Federale dei giovani repubblicani, componente giovanile di quel Partito Repubblicano tenacemente radicato in terra di Romagna, libertario e antimonarchico, popolare e ancor più eversivo del Socialismo d’allora. La gioventù randagia lo porta a Milano, dove approda a 18 anni su interessamento di Alessandrina Ravizza. Alla Biblioteca di Brera il giovane approfondisce il pensiero di Mazzini e Cattaneo, avvicinandosi altresì al Marx del Manifesto e degli studi storici. L’apprendistato tra i libri consente a Pietro una più esatta comprensione della realtà, un approccio più pratico e concreto al problema operaio e alla fattiva organizzazione delle forze rivoluzionarie. Durante una dimostrazione pratica degli studi effettuati all’ombra della Madonnina, nell’autunno del 1909 viene arrestato a Carrara e condannato a due giorni di reclusione per uno sciopero: non sarà l’ultima segnatura del suo ruolino penale. Sulla scia delle teorie di Georges Sorel, il sindacalismo rivoluzionario d’anteguerra a cui Pietro guarda con interesse lo porta d’agitazione in agitazione, da guardina a guardina sino alla data fatale del 1911. Nel settembre Giolitti intraprende l’avventura di Libia: in Romagna la guerra contro l’Impero Ottomano riesce nella folle impresa d’unire gialli e rossi, repubblicani e socialisti, contro il comune nemico militar-liberale. Nel PSI il capo- non ancora duce, almeno in quel senso… – si chiama Benito Mussolini, maestro elementare e avido lettore di Nietzsche e Sorel. Insieme a Pietro Nenni, i due fomenteranno per 48 ore (25-26 settembre) gli scontri e le baruffe tra forze dell’ordine e rivoltosi, riuscendo financo a occupare la stazione ferroviaria di Forlì ed impedire l’avvio delle tradotte. Vittoria effimera, spazzata via dalla reazione furente del Governo e del Regio Esercito, ma pur sempre trionfo. Il lauro del successo incorona la coppia sottoforma di manette di piombo, nel gran sfarzo celebrativo di un’aula di Tribunale. Nenni e Mussolini sono infatti arrestati e condannati per direttissima ad un …

RIFLESSIONI “VERSO LIVORNO 2018”

di Nunziante Mastrolia Il 14 marzo del 1912 Vittorio Emanuele III scampò ad un attentato. Tra coloro che si felicitarono perchè il re non ci aveva rimesso le penne, come il padre Umberto I, ci furono i socialisti Ivanoe Bonomi, Angiolo Cabrini e Leonida Bissolati (che salì anche al Quirinale). Quello era anche un modo per dire che non era sparando a un capo di Stato che si faceva avanzare la causa della democrazia e della classe operaia. Nel luglio successivo al congresso del PSI di Reggio Emilia Bissolati, Bonomi, Cabrini furono espulsi dal Partito. L’ala massimalista prese il sopravvento: il primo dicembre di quello stesso anno il ventinovenne Benito Mussolini assunse la direzione dell’Avanti! e ne fece lo strumento per la sua lotta contro quelli che definiva i “socialtraditori” e soprattutto contro gli avversari rimasti all’interno del partito, tra questi Turati, Treves, Modigliani, Matteotti. Lo sbocco di tale stato di cose non poteva essere che la scissione: che è quanto avvenne a Livorno nel 1921. Al grido di “Fare come a Mosca” nasceva il Partito Comunista d’Italia, membro della Terza Internazionale di stampo leninista. Nelle parole di Terracini: “noi pensiamo che la lotta rivoluzionaria del proletariato non può che seguire, nelle sue linee generali, le tracce che la rivoluzione russa ha segnato”. Sognavano Lenin ma si ritrovarono Mussolini e il povero Gramsci dovette prendere atto, marcendo in carcere, che a Mosca la rivoluzione era riuscita perchè lo stato era debole, in Italia no. Di qui la via gramsciana della conquista dell’egemonia culturale nella società (le fortezze e casematte) per coprirsi le spalle prima di conquistare la cittadella politica dello Stato liberale. In questo senso può dirsi che Gramsci altro non fece che adattare il leninismo alle condizioni di quei paesi dove lo Stato moderno è forte e non al collasso come era in Russia nel 1917. Sognavano la rivoluzione purificatrice e si ritrovarono le manganellate, l’olio di ricino, il confino, l’esilio e la morte, come per Matteotti. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL TEMPO E LA STORIA – Il Riformismo di Filippo Turati

Filippo Turati È l’uomo politico che ha contribuito più di ogni altro alla nascita e alla crescita del socialismo in Italia. A Filippo Turati è dedicato il nuovo appuntamento con “Il Tempo e la Storia”, il programma di Rai Cultura, in onda su Rai Storia. Ospite di Massimo Bernardini, il professor Giovanni Sabbatucci ricorda l’uomo che, per circa mezzo secolo, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Trenta, attraversa la storia del socialismo, una storia di lotte interne, di scissioni, ma anche di grandi conquiste sociali. È Turati che con la sua opera infaticabile, inserisce per la prima volta i bisogni e le istanze della classe operaia nel processo di sviluppo dello Stato italiano, aprendo la strada ad una legislazione che tutela i diritti dei lavoratori. Il socialismo, per Turati, non è un’imposizione violenta ma un processo graduale che si attua all’interno delle istituzioni attraverso le riforme e la diffusione pacifica delle idee socialiste. Solo così, infatti, si compie la rivoluzione. Per Sandro Pertini è stato “un uomo giusto, un uomo buono, un maestro, anzi, il Maestro”. Per Carlo Rosselli ha rappresentato la guida delle classe lavoratrici, l’educatore di tre generazioni italiane, un socialista e un patriota vero”. Filippo Turati con Giovanni Sabbatucci di Sabrina Sgueglia della Marra     SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LE LATTINE D’OLIO RACCONTANO L’ITALIA – Collezione Museo Guatelli

di Maria G. Vitali-Volant* Un filo d’olio… Le lattine d’olio (e il loro imballaggio) sono un originale tassello nella storia dell’emigrazione italiana nel mondo e emblematiche del nostro ricchissimo patrimonio culturale e imprenditoriale. La collezione Guatelli di lattine d’olio d’oliva e il suo museo a Chiusanico (Imperia), un esempio dell’industria e delle tecniche italiane d’eccellenza. L’imballaggio fa parte della nostra cultura, ne diventa un elemento importante, un’icona del nostro tempo. La storia degli imballaggi è collegata anche nel nostro paese ai cambiamenti del sistema economico. La rapidità della crescita dell’Italia, dalla fine del XIX° secolo ad oggi, ha comportato un rivoluzionamento delle economie tradizionali, dei mercati e, di conseguenza, della struttura stessa del sistema produttivo e della sua distribuzione sul territorio. È cambiato il modo di vivere, di rapportarsi con il territorio e quindi di consumare. Le distanze sono aumentate, le merci, prodotte in un luogo, vengono trasportate altrove per essere consumate, le persone vivono in un posto e lavorano in un altro. Si ridisegnano così i meccanismi di produzione, di circolazione e di consumo dei prodotti e, di conseguenza, dei loro imballaggi. Che cos’è l’imballaggio? In sintesi è qualcosa che permette lo spostamento nel tempo e nello spazio del consumo di un bene. Ma non solo. Oltre le funzioni strettamente strutturali, l’imballaggio è un ‘mezzo’ per comunicare, per entrare in relazione con il consumatore e fornirgli tutte le informazioni necessarie alla conoscenza del prodotto che contiene. Al volgere del Ventesimo secolo le tecniche di produzione si erano tanto sviluppate da consentire la realizzazione di contenitori in ogni forma e materiale, utili non solo a vendere il prodotto ma capaci di rispondere a nuove esigenze, a modificare la propria immagine in relazione alle condizioni socioeconomiche contingenti e all’orientamento dei diversi movimenti estetici. L’involucro può essere definito una “ricerca di forme tridimensionali, capaci di contenere in maniera opportuna, funzionale ed estetica” un bene destinato alla vendita; ma i termini opportuno, funzionale ed estetico assumono nel corso del secolo differenti significati. All’inizio del Novecento si chiede alla confezione di proteggere il contenuto durante il trasporto e di presentarlo all’ipotetico acquirente con un vestito elegante, che ne esalti la forma e soddisfi il desiderio visivo. La bellezza è una prerogativa assolutamente necessaria per l’involucro che, lungi dall’essere considerato entità comunicativa, viene sentito ancora come un oggetto totalmente indipendente dal contenuto: l’uno da consumare, l’altro da collezionare. In questo senso è da “leggere” la collezione Guatelli a Chiusanico in provincia di Imperia. In un antico frantoio del Seicento circa 6.000 lattine che contenevano olio d’oliva sono in mostra per evocare i consumi degli emigrati italiani di questo prezioso elisir del ricordo e materia prima che gli italiani consumano da sempre con cura e attenzione cosi’ come tutti i popoli “mediterranei”. Come in uno “studiolo” di antica memoria, ritroviamo le immagini della nostra storia in un luogo costituito come teatro che concentra saperi tenendoli insieme in maniera virtuale. La lattina d’olio rappresenta il significante, l’effimero contenitore di un senso; è come la olla olearia del mondo antico, ma, meno anonima, essa veicola un messaggio, racchiude ancora un filo d’olio che ci lega al nostro passato di migranti, cosi’ come legava allora gli espatriati alle loro tradizioni e culture. Una motivazione in più per fare di questo “Museo” di cultura materiale più di una curiosità: è anche un viaggio nelle nostre abitudini e nei nostri gusti, nonché nel nostro ieri. Questi “oggetti” sono un’eccellenza italiana che va dalla fine del XX° secolo ai giorni nostri. Da dove vengono? Da tutto il mondo perché seguirono gli emigrati italiani nelle loro erranze. Dice Tiziana Guatelli proprietaria della omonima collezione: “Sono sempre stata attratta, fin da bambina, dai colori e dalle immagini delle scatole in latta e questa passione ha accompagnato tutta la mia vita. Poi, dopo l’incontro con mio marito Riccardo Guatelli, erede di una delle storiche aziende produttrici di latte d’olio di Imperia, questo interesse è andato aumentando. È per questa ragione che abbiamo deciso di realizzare, nel 2006, nell’entroterra di Imperia, all’interno di un frantoio del XVII secolo il Museo della latta d’olio. Nella nostra avventura siamo stati affiancati da molti amici che hanno voluto condividere con noi questa passione: gli eredi della famiglia Renzetti che ci hanno donato un buon numero di pezzi, la dottoressa Daniela Lauria che, coadiuvata da Antonella Tallone, ha studiato e catalogato la collezione che attualmente consta di ben 6 000 imballi. Il prestigio della nostra raccolta sta nel fatto che si tratta dei primi “cliché” che dovevano servire come riferimento per la tiratura dell’intera produzione che costituiscono una chiara testimonianza di come, a cavallo tra Ottocento e Novecento, in Liguria, in particolare nella città di Imperia, a seguito dell’incremento della produzione dell’olio di oliva, sorsero stabilimenti che fornivano imballaggi in banda stagnata litografata per l’industria esportatrice italiana. Le lattine di olio erano destinate sia alle famiglie, ma soprattutto agli emigrati, i quali, giunti nel nuovo paese, richiedevano questo fondamentale ingrediente della cucina italiana. Nostalgici della patria, non si accontentavano della solita latta, la volevano bella e decorata con i simboli dell’Italia. Anche il famoso regista Premio Oscar Francis Ford Coppola, grande appassionato di storia dell’emigrazione italiana, venuto a conoscenza della nostra collezione, ne ha voluto alcuni pezzi che ha collocato in California presso la sua tenuta di Napa Valley e ogni anno sono visitati e apprezzati da moltissime persone. Pertanto mi sento di affermare con grande orgoglio che la nostra collezione aggiunge un originale ma importante tassello nella storia dell’emigrazione italiana nel mondo.” ***** LA STORIA (Si ringrazia la professoressa Daniela Lauria, curatrice scientifica della Collezione Guatelli, per il prezioso aiuto) Nei primi anni del Novecento, in Liguria si registrò un forte incremento nella produzione di olio d’oliva, fenomeno dovuto all’introduzione della chimica nel settore alimentare, che permise di rendere commestibili anche quegli oli che risultavano essere inadatti al consumo alimentare. Imperia, in questa nuova realtà, rivestì un ruolo di primissimo piano, in quanto nell’arco di pochi anni, si concentrarono i più importanti stabilimenti per la produzione e la …

LA PROFEZIA DI FILIPPO TURATI

di Antonio Caputo* Aveva ragione Turati? Nel gennaio del 1921 si svolge a Livorno il XVII Congresso del Partito Socialista che segnerà la scissione dei “comunisti puri” di Gramsci, Terracini e Bordiga, e la nascita del PC d’Italia. L’intervento di Filippo Turati viene riletto oggi come una profezia. Egli stesso rivolgendosi ai compagni che stavano abbandonando il partito dice: “voglio fare una profezia“. Cosi’ si concludeva il suo discorso: “Ond’è che quando avrete fatto il Partito comunista, quando avrete – e non mi pare che ancora vi ci si avvii molto rapidamente – impiantato i Soviety in Italia, se vorrete fare qualche cosa che sia rivoluzionaria davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, ma dopo ci verrete, perché siete onesti, con convinzione, a percorrere completamente la nostra via, a percorrere la via dei socialtraditori, e questo lo dovrete fare perché questo è il socialismo che è solo immortale, che è solo quello che veramente rimane di vitale in tutte queste nostre beghe e diatribe. Dovete fare questa azione graduale, e dovendo fare questa azione, che non può essere che quella, non ce n’è altre e tutto il resto è clamore, è sangue, è orrore, è reazione, è delusione, dovendo fare questa opera voi dovrete poi anche fare da oggi un’opera di ricostruzione sociale. Io sono già imputato, e dovrei essere oggi alla sbarra, con le guardie rosse accanto, di un discorso pronunziato alla Camera il 20 giugno: «Rifare l’Italia», in cui cercavo di delineare, come lo penso io, il programma di ricostruzione sociale del nostro paese, perché abbiamo parecchio da fare nel nostro paese. Leggetelo. Probabilmente non lo avete letto ed avete fatto male! Leggetelo e vedrete altre profezie e vi accorgerete che questo corpo di reato è il comune programma. Voi temete oggi di costruire per la borghesia. Preferite lasciar crollare la casa comune al conquistarla per voi. Fate vostro il «tanto peggio tanto meglio» degli anarchici. Credete o sperate che dalla miseria crescente possa nascere la rivendicazione sociale: non nascono che le guardie regie e il fascismo, la miseria, l’ignoranza, lo sfacelo. Voi non intendete ancora che questa rivoluzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, sarà il maggior passo, il maggior slancio, il maggior fondamento per la rivoluzione proletaria completa di un giorno. E allora, in quel giorno, noi trionferemo insieme! Io forse non vedrò quel giorno. Troppa gente nuova è venuta per forza di cose, che renderà più aspra e difficile la nostra via, ma indubbiamente si trionferà in quella via; maggioranza, minoranza, non conta niente, non si tratta di numeri, frazione scacciata o frazione tenuta, alleanza di frazione o non, collaborazione di frazioni o non, fortuna di uomini scacciati via o tenuti, tutto questo è ridicolo di fronte alle necessità della storia, tutto questo non ha importanza, ciò che ha importanza è la forza operante, per cui io vissi, nella cui fede onestamente morrò, con voi o senza di voi, uguale sempre a me stesso, e combattendo io resto, e credo nel suo trionfo, con voi, perché questa forza operante è il socialismo. Ebbene: Viva il socialismo!” Il cammino è ancor lungo e con questa storia si incrocia l’eresia attualissima di Giustizia e Libertà e dell’azionismo, che hanno fecondato la strada ancora impervia, illuminandola di una nuova prospettiva, che va oltre l’orizzonte del socialismo del primo novecento, irrorando la Costituzione repubblicana del 1948, nata dalla Lotta di Liberazione. Quella Resistenza che, come affermò un grande azionista, Piero Calamandrei, costituisce , la traduzione in forma giuridica di quei principi, racchiuisi nel nome Giustizia e Liberta’. Cosi’, un programma da compiere ed attuare, avendo quale stella polare l’art.3 Cost.2 che prescrive quale compito fondamentale della Repubblica la rimozione degli ostacoli che non consentono il pieno sviluppo della persona e la piena partecipazione dei cittadini alla vita economica, sociale e politica del paese in condizioni di eguaglianza sostanziale e non meramente formale. La storia di Carlo Rosselli, fondatore e anima di GL, a ridosso di quegli anni e’ emblematica in questo percorso, e profetica. Egli si iscrisse a Firenze al corso di Scienze sociali, laureandosi a pieni voti il 4 luglio 1921 con una tesi sul sindacalismo e si preparò a sostenere anche gli esami di maturità classica per ottenere il diritto di frequentare altri corsi universitari. Tramite il fratello Nello aveva conosciuto Gaetano Salvemini, professore dell’Università fiorentina, che sarà da allora un costante punto di riferimento per entrambi i fratelli. Gli fece rivedere la sua tesi, che Salvemini giudicò «non un’opera critica, equilibrata, sostanziosa», ma in essa «era incapsulata un’idea fondamentale: la ricerca di un socialismo che facesse sua la dottrina liberale e non la ripudiasse». In questo periodo si avvicinò al Partito socialista, simpatizzando, in contrapposizione a quella massimalista di Serrati, per la corrente riformista di Turati, che egli conobbe personalmente nel 1921 a Livorno, durante il Congresso che sanzionò la scissione della frazione comunista, e scrisse nella sua rivista «Critica sociale». Nell’ottobre del 1922 Mussolini salì al potere; i riformisti di Turati vennero espulsi dal PSI. In dicembre Carlo Rosselli si trasferì a Torino, dove frequentò il gruppo della rivista gobettiana «La Rivoluzione liberale», in quel momento fortemente impegnata in senso antifascista, e con la quale, dall’aprile 1923, iniziò a collaborare. Conobbe Giacomo Matteotti, segretario dell’appena fondato Partito Socialista Unitario, nel quale erano confluiti Piero Gobetti e la componente riformista espulsa dal PSI. Nel febbraio del 1923, a Firenze, il gruppo dei socialisti liberali che si raccoglieva intorno alla figura carismatica di Salvemini inaugurò il «Circolo di Cultura». Oltre ai Rosselli vi erano: Piero Calamandrei, Enrico Finzi, Gino Frontali, Piero Jahier, Ludovico Limentani, Alfredo Niccoli ed Ernesto Rossi. Il circolo fu frequentato anche da un giovane studente dell’Istituto di Scienze sociali “Cesare Alfieri”, Sandro Pertini. Nel febbraio del 1924, inaugurò la sua collaborazione con la rivista della Federazione giovanile del PSU, «Libertà», scrivendo proprio un articolo sul movimento laburista inglese. Pochi mesi dopo il delitto Matteotti s’iscrisse al P.S.U. Era pessimista sulle condizioni politiche dell’Italia: la secessione aventiniana …

BETTINO CRAXI ultimo discorso alla Camera dei Deputati 29 Aprile 1993

Discorso alla Camera dei Deputati del 29 Aprile 1993 – Bettino Craxi “Circa dieci mesi or sono prendendo la parola di fronte alla Camera dissi con franchezza cio’ che un ex Presidente della Repubblica defini’ poi come l’apertura di quella “grande confessione” verso la quale avrebbe dovuto e dovrebbe aprirsi, con tutta la sincerità necessaria, tutto o gran parte almeno del mondo politico. I giudici che mi accusano l’hanno considerata invece come una “confessione extragiudiziale” elevandola subito e senz’altro a prova di primo grado contro di me. Quella per la verità era ed è rimasta la sola prova di quell’accusa. Sempre che una dichiarazione una analisi ed una riflessione fatte di fronte al Parlamento possano essere considerate alla stregua di una prova penale. Ricordo che, ancor prima di allora, commentando a caldo le prime esplosioni scandalistiche milanesi che aprivano il libro dagli inesauribili capitoli apertosi poi un po’ dovunque, mi ero permesso semplicemente di dire :”Su quanto sta accadendo la classe politica ha di che riflettere“. Questa affermazione fu allora maltrattata come espressione di un atteggiamento intimidatorio, provocatorio, financo ricattatorio. In realtà non era difficile avvertire gia’ da allora tutta la dimensione del problema che si era aperto, tutta la sua gravità e la sua complessità. Non era difficile cogliere la inutilità e l’errore di una difesa e di una giustificazione che non fossero improntate al linguaggio della verità. Per le responsabilità che mi competevano, per il ruolo che, per lungo tempo, avevo esercitato, di Segretario nazionale del Partito Socialista, io non ho negato la realtà, non ho minimizzato, non ho sottovalutato il significato morale, politico, istituzionale della questione che veniva clamorosamente alla luce riguardante il finanziamento irregolare ed illegale ai partiti ed alle attività politiche ed anche il vasto intreccio degenerativo che ad esso si collegava o poteva, anche a nostra insaputa, essersi collegato. Come si ricorderà ne parlai proprio di fronte a voi seguendo una traccia che stamane mi consentirete di riprendere. Osservavo nel Luglio del ’92: “C’è un problema di moralizzazione della vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e con rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche. E’ tornato alla ribalta, in modo devastante, il problema del finanziamento dei Partiti, meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalita’ che si verificano da tempo, forse da tempo immemorabile. Bisogna innanzitutto dire la verita’ delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso e in certi casi hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel paese, nella vita delle istituzioni e della pubblica amministrazione, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica, uno stato di cose che suscita la piu’ viva indignazione, leggittimando un vero e proprio allarme sociale, ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidita’ e con efficacia. I casi sono della piu’ diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralita’ e di asocialita’. Purtroppo anche nella vita dei Partiti molto spesso e’ difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette sia per la impossibilita’ oggettiva di un controllo adeguato, sia talvolta, per l’esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E cosi’ all’ombra di un finanziamento irregolare ai Partiti e, ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti trattati provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, cio’ che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, e’ che buona parte del finanziamento politico e’ irregolare od illegale. I Partiti specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attivita’ propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro“. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall’estero sarebbe solo il caso di ripetere l’arcinoto “tutti sapevano e nessuno parlava“. Ed osservavo ancora:”Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quante reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato non e’ e non puo’ essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere ne’ le correzioni che si impongono ne’ un’opera di risanamento efficace ma solo la disgragazione e l’avventura. A questa situazione va ora posto un rimedio, anzi piu’ di un rimedio“. Mi spiace che tutto questo sia stato, allora, sottovalutato. Tante verità negate o sottaciute sono venute una dopo l’altra a galla e tante ne verranno, ne possono e ne dovranno venire ancora. E mentre molti si considerano tuttora al riparo dietro una regola di reticenza e di menzogna, non si è posto mano a nessun rimedio ragionevole e costruttivo. Questo deve valere anche per i Partiti che se debbono continuare ad esistere come elementi attivi della democrazia italiana ed europea sia pure in un diverso ruolo ed in diverse configurazioni, debbono essere posti di fronte a nuove regole impegnative ed utili a rinnovare e a far rifiorire la loro essenza associativa e democratica. Si e’ invece fatto strada con la forza di una valanga un processo di criminalizzazione dei partiti e della classe politica. Un processo spesso generalizzato ed indiscriminato che ha investito in particolare la classe politica ed i partiti di governo anche se, per …

LA STORIA E L’AVVENIRE discorso di Bettino Craxi in occasione della celebrazione del centenario del PSI

Cento anni fa, nella Sala dei garibaldini genovesi, nasce a Genova il Partito Socialista Italiano. E il quattrocentesimo anniversario della scoperta dell’America e i viaggi in treno per Genova, sede delle celebrazioni colombiane, sono a tariffa ridotta. La Liguria era stata il cuore della lotta popolare e democratica del Risorgimento: la terra di Garibaldi e di Mazzini. Qui, e nelle regioni più sviluppate del Nord, le prime Leghe di Mutuo Soccorso tra i lavoratori e gli artigiani, i primi sindacati, le prime cooperative, avevano costruito le radici del movimento socialista. Un movimento internazionalista ma patriota, proprio come Garibaldi, l’eroe dei due mondi, il grande combattente per la libertà dei popoli. Difensore della democrazia parlamentare conquistata dalla borghesia, ma con l’obiettivo del suffragio universale della emancipazione dei lavoratori, come Mazzini. Rispettoso della religione, ma anche della libertà dei cattolici, come Camillo Prampolini, l’apostolo cristiano dei poveri, che vedeva in Gesù il primo socialista. L’internazionale Socialista ha anche in Italia le sue radici. Le prime lotte confuse e disordinate dei lavoratori hanno le gambe dell’organizzazione. I delegati, insegnanti ed artigiani, cooperatori e protagonisti del volontariato, operai, contadini, medici e professionisti rappresentano centinaia di associazioni. Eleggono la direzione, dopo la separazione da un’anima della sinistra che sarebbe sempre stata inconciliabile: quella dei rappresentanti anarchici e rivoluzionari, fautori di una sovversione violenta, anziché della paziente e graduale costruzione progettata dal riformismo. Inizia un lungo cammino. Un secolo di sacrifici e di lotte. Al termine del quale si può dire, senza forzature retoriche: tutte le conquiste sociali, di libertà, di progresso, assolutamente tutte, sono state raggiunte in Italia, come in Europa, con il contributo decisivo del movimento socialista. Nel Natale del 1896 viene fondato l’Avanti!, il primo quotidiano veramente nazionale. Difende la libertà contro la reazione della destra e dei militari, sempre più preoccupati della rapida diffusione delle idee progressiste e della forza organizzata dei lavoratori. Sicilia. La reazione tenta di schiacciare i fasci operai e contadini, centinaia sono i morti, migliaia gli arresti giudicati con processi sommari. 1899. Milano. Mentre il governo, con le leggi eccezionali, arresta i democratici, il generale Bava-Beccaris spara con i cannoni contro i lavoratori. Un massacro. Una medaglia del Re per ringraziarlo. Ma i socialisti non sono più soli, perché anche tra le classi dirigenti si vanno diffondendo le nuove idee sociali. La democrazia parlamentare regge, progredisce, allarga il suo consenso. Il nuovo secolo nasce con le grandi speranze aperte della rivoluzione industriale trionfante ed al progresso scientifico. E in questa rivoluzione industriale, che fa progredire e trasformare il Paese, il riformismo socialista trova il terreno favorevole per far progredire e far avanzare il movimento dei lavoratori. Dirigenti socialisti libertari, marxisti, cattolici, trasformano le plebi in una classe sociale cosciente di sé, impegnata a spezzare davvero le catene dell’ignoranza e della sottomissione. L’Avanti viene letto la sera, da chi sa leggere, ai compagni che ancora non sanno. Il Partito “insegna”, con lo spirito dei maestri di scuola socialisti, dei grandi scrittori ed educatori socialisti da Edmondo De Amicis a Giovanni Pascoli. Le pazienti, quotidiane campagne per l’alfabetizzazione, contro l’alcolismo, la prostituzione e la bestemmia. Per l’igiene, l’uso dei contraccettivi, per il rispetto dei deboli, delle donne e dei bambini, per la protezione degli animali. E le grandi campagne politiche che prefigurano conquiste che oggi sembrano ovvie. Per il diritto allo sciopero. Per il suffragio universale. Per la scuola elementare obbligatoria aperta a tutti. Per l’abolizione della censura sulla stampa. Per la settimana lavorativa non oltre le 48 ore. Per la salute dei fanciulli e delle donne lavoratrici. Per il superamento delle differenze abissali tra Nord e Sud. Per la tutela degli emigrati. Per la libertà religiosa e la non ingerenza del clero nella politica. Contro gli scandali della grande borghesia imprenditoriale e finanziaria. Contro le guerre coloniali dell’Italia; Per l’emancipazione femminile, la parità in famiglia e sui luoghi di lavoro. Per il voto alle donne. “Perché il voto — dice Anna Kuliscioff — è la difesa del lavoro. E il lavoro non ha sesso”. Passo dopo passo, il Partito cresce. Conquista i comuni di Milano e di Genova. Dopo il suffragio universale, dopo il 1912, ottiene 57 deputati. Nel 1919 saranno 152: il 35% dei voti. Ma c’è nel Partito anche un’anima rivoluzionaria e massimalista; Cova nel mondo una esplosione di violenza e irrazionalità. Mussolini, leader della sinistra intransigente del Partito, direttore dell’Avanti. ‘Chi ha ferro ha pane”, “la rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette”. Nel 1914, spera nella guerra levatrice della storia. Si scontra con il pacifismo dei socialisti. Fonda il Popolo d’Italia. Diventerà il capo del fascismo. La guerra è levatrice di una storia orrenda. Dieci milioni di morti. Il demone dell’irrazionalità e della violenza. Lo scatenamento di tutti gli estremismi. La fine della democrazia in mezza Europa. La rivoluzione bolscevica. Una grande speranza, un mito che durerà decenni, ma anche una grande e tragica illusione per tanta parte della sinistra, l’origine di una scissione dalla quale il movimento socialista non si riprenderà più. L’ala rivoluzionaria del Partito ubbidisce ai bolscevichi russi, vuole fare come in Russia. Al Congresso di Livorno, rompe con i socialisti e fonda- il Partito Comunista. Turati vede il pericolo delle velleità rivoluzionarie in presenza della reazione fascista. Il fascismo spazza via decenni di lotta per la democrazia e il riformismo. Le case del popolo sono incendiate, i sindacati sciolti, le cooperative cancellate. La sede dell’Avanti è devastata. Il giornale è censurato e incendiato per le strade. Il Re e la classe dirigente economica preferiscono consegnare il Paese ai fascisti piuttosto che difendere la democrazia. Mussolini prende il potere. Nel Parlamento ormai svuotato, Matteotti, capo dei socialisti riformisti pronuncia la sua ultima requisitoria contro la dittatura. “Voi ucciderete me, ma non l’idea che è in me”. I fascisti lo sequestrano e con il ritrovamento del suo cadavere non vendicato finisce la libertà in Italia. Viene ucciso anche Gobetti. Verrà ucciso Rosselli, teorico del socialismo liberale. E tanti, tanti altri. Ma, come aveva detto Matteotti, l’idea socialista non verrà uccisa. Una …

L’ITALO-MARXISMO DI ANTONIO LABRIOLA

Antagonista di Turati, sul piano teorico, meno su quello politico, non essendo stato per suo carattere e per la sua professione un militante della politica, fu il filosofo Antonio Labriola. La contrapposizione durò poco più di un decennio per la morte di Labriola nel 1904. Labriola è stato considerato per lungo tempo il caposcuola di quello che si potrebbe definire l’”italomarxismo“, una scuola di pensiero che, da lui a Gramsci, ha innervato l’ideologia marxista nella particolare situazione di sviluppo cultura nazionale e, in specie, della ricerca filosofica. Filosofo di professione, infatti, Labriola scoprì Marx abbastanza tardi quando era già avanzato nell’età: nel 1890, dopo essere stato un hegeliano ed un herbertiano. Avendo studiato in modo approfondito la dottrina di Marx, si dette a divulgarla dalla cattedra dell’università di Roma e in conferenze sulla “genesi del socialismo moderno“, sulla “storia generale del socialismo” e sulla “interpretazione materialistica della storia“. La compiuta elaborazione del suo pensiero, interpretazione creativa, non scolastica, della teoria di Marx, è affidata ad opere che divennero famose come In memoria del Manifesto dei comunisti, Del materialismo storico e Discorrendo di socialismo e di filosofia, oltre che negli Scritti vari, raccolti e pubblicati da Benedetto Croce. Labriola è stato definito contraddittoriamente da alcuni come un “marxista puro“, addirittura più “marxista di Marx“; da altri un “revisionista“. In realtà lo stesso Labriola volle rispondere ai suoi critici del tempo, precisando che “avendo accettato la dottrina del materialismo storico, io l’ho esposta tenendo conto delle condizioni attuali della scienza e della politica e nella forma che conviene al mio carattere“. Un carattere, va detto per inciso, che non fu facile e che lo condusse a polemiche e a giudizi particolarmente aspri e a volte ingiusti nei confronti di molti esponenti del socialismo italiano dei suoi tempi. Specie nel fitto carteggio che egli intrattenne con Engels, rivolse strali pungenti, a volte col disprezzo elitario cui si sentiva autorizzato dalla sua dottrina e dalla sua acuta intelligenza, contro gli esponenti del nascente Partito socialista, primo tra i quali il Turati. Queste polemiche possono essere considerate la parte più caduca della sua opera. Ben altro peso e rilievo conservano invece i saggi suddetti, nei quali “si preoccupò in sostanza di dare un assetto organico al materialismo storico rifacendone la genesi, svolgendololo alla luce di nuove esperienze e depurandolo dalle contaminazioni operate dai seguaci incauti e dai ciarlatani della scienza“. In questo sforzo esegetico e interpretativo Labriola si mantenne (e tale volle essere) perfettamente ortodosso alla dottrina marxista. E sicuramente, in base a ciò, può considerarsi come l’artefice di quella scuola di “italomarxismo” che tanti epigoni doveva avere in quei tanti “italomarxisti” che egli, almeno per la sua dottrina, la sua intelligenza, e la sua onestà, non meritava di avere. Labriola rimase fino alla sua morte (1903) fuori del Partito socialista, alla cui costituzione si era rifiutato di partecipare, ritenendola immatura alla luce della sua analisi (astratta) delle condizioni storiche della società italiana. Questo suo atteggiamento fece discutere, e fa ancora oggi discutere, seppure ormai in sede storiografica. Un altro atteggiamento che suscitò infinite polemiche fu quello da lui assunto, in dissonanza con tutta la cultura socialista del tempo, sulle vicende coloniali Italiane di quegli anni. Quest’atteggiamento derivò anch’esso dalla sua analisi storica e socio-economica dell’Italia secondo la quale l’espansione coloniale era indispensabile allo sviluppo del capitalismo italiano e, di conseguenza, del movimento operaio. Probabilmente gli acri giudizi di Labriola su uomini e cose del socialismo di allora furono eccessivi o addirittura errati, come nel caso di Turati o di altri leader socialisti. Certamente ingiusta e non rispondente al vero è la descrizione da lui fatta in una lettera ad Engels della composizione del Partito socialista di allora come un assemblaggio “di studenti fuori corso, di artigiani autodidatti, di viaggiatori di commercio, di giocatori di carte e di biliardo, di avvocati senza clienti“. In realtà la concezione che del partito ebbe Labriola risentiva della sua impostazione totalizzante della classe e del partito come “altro da sé” della società capitalistica da trasformare mediante la rivoluzione. Non è escluso che in questa concezione si riversassero anche i risultati delle sue ricerche storiche sui movimenti ereticali del Medioevo. Labriola sapeva anche distinguere tra il movimento reale di classe che era combattivo e prorompente in quella fase storica e le deformazioni e deviazioni presenti nelle strutture di partito che non alteravano però la sostanziale vitalità dell’esperienza politica socialista. Di fronte alla nascita del PSI, Labriola ricavò “una sorta di pessimismo della volontà che lo portava a considerare la sua lotta teorica, i suoi studi di allora sul Manifesto (connessi al suo stesso insegnamento) in alternativa alla lotta politica attiva…“. In quelle circostanze, in cui erano operanti “i fabbricanti di cooperative pagati dai prefetti, tutti i negoziatori di voti socialisti, e tutti i filantropi affamati” il socialismo italiano non gli pareva “il principio di una vita, ma la manifestazione estrema della corruzione politica e intellettuale del paese. Egli continuava, nonostante tutto, a fare il fiancheggiatore attivo del movimento socialista, come appare da una sua lettera del 24 luglio 1892, ma era condizionato da una visione che accentuava i dati dell’arretratezza sociale e della stessa crisi morale post-risorgimentale“. La sua idea era quella di creare un partito operaio e marxista, piccolo e omogeneo, nettamente distinto dagli anarchici come dai radicali. In fondo il PSI rispondeva a tali requisiti, ma per Labriola era prevalente il suo dissidio con Turati. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA TERZA INTERNAZIONALE

Fondata su iniziativa dei bolscevichi russi nel marzo 1919 a Mosca col nome di Comintern, fu integrata con V° Internazionale sindacale rossa (1921), poi col Soccorso rosso e operaio internazionale. La rivoluzione d’ottobre aveva aperto, nella storia delle lotte del proletariato, una fase nuova per la conquista del potere politico, pertanto la Terza Internazionale si prefisse lo scopo di fornire lo strumento organizzativo per la rivoluzione comunista mondiale. L’organizzazione tenne tra luglio ed agosto del 1920 il suo secondo congresso a cui parteciparono delegazioni di trentasette paesi e tracciò le basi ideali e programmatiche accogliendo i ventuno punti proposti da Lenin: i partiti che intendevano aderire si impegnavano a darsi una struttura analoga a quella del Partito comunista sovietico, ad appoggiare l’Urss, a fare proprie le direttive del Comintern, a lottare contro la socialdemocrazia onde favorire la nascita di partiti rivoluzionari autonomi. La presidenza del comitato esecutivo permanente, con sede a Mosca, fu affidata a Zinov’ev. Negli anni successivi il Comintern risentì pesantemente dei conflitti interni al gruppo dirigente del Partito comunista dell’Urss, che condizionò le scelte politiche subordinando in più di un’occasione agli interessi nazionali sovietici le esigenze dei partiti comunisti dei vari stati, soprattutto negli anni di Stalin. Dopo l’espulsione dei comunisti di sinistra divenne un mezzo della politica estera sovietica finché il 15 maggio 1943 fu soppressa da Stalin per favorire la collaborazione con gli Alleati durante la seconda guerra mondiale. I successivi contrasti fra Occidentali e Sovietici portarono alla costituzione del Cominform (5 ottobre 1947), che riuniva una serie di partiti comunisti europei. In seguito anche questo organismo fu sciolto (1956).   La Quarta Internazionale Fondata da Trotzkij, espulso dal partito comunista alla fine del 1927, sorse nel 1938 a conclusione della lotta ingaggiata dalla frazione di sinistra del Pcus dal 1930 come opposizione internazionale alle tendenze nazionaliste di Stalin, con il proposito di attuare la rivoluzione e la costituzione della dittatura mondiale del proletariato. La Quarta Internazionale incontrò gravi difficoltà per la dura repressione dei regimi fascisti, delle persecuzioni staliniste e dell’isolamento in cui gli stessi trozkisti si erano cacciati opponendosi alla condotta unitaria della guerra civile spagnola e alla politica dei fronti popolari. Raccolse tra i suoi membri molti comunisti dissidenti fuggiti dall’URSS dopo le “purghe” staliniane del 1936. Fu abbastanza forte nell’America latina e nell’Estremo Oriente. Alla morte di Trotzkij (1940), per il mutare del quadro politico internazionale, perse mano mano la sua carica vitale e fu condannata ad una vita puramente effimera, semplice punto di riferimento ideale per tutti coloro che si ispiravano alle teorie del comunismo. Il secondo congresso mondiale si tenne nel 1948 ma dopo di esso avvennero una serie di divisioni che ne ridussero ulteriormente la capacità di azione e la diffusione. Ufficialmente la Quarta Internazionale esiste tuttora, e viene definita dalle altre fazioni del trockijsmo come SU (Segretariato Unificato, il massimo organismo del gruppo) o US in inglese, o semplicemente come “pablisti“, dallo pseudonimo di Marco Pablo, uno dei suoi dirigenti degli anni ’50 del XX secolo. L’immagine è tratta da un’opera del pittore messicano Diego Rivera   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

IL MITO DELLA RIVOLUZIONE

Gramsci, che il 24 dicembre 1917 aveva scritto sull’”Avanti!” un interessante articolo critico sulla Rivoluzione bolscevica, La Rivoluzione contro il Capitale (nel quale aveva messo in luce il salto storico effettuato da Lenin che contraddiceva le condizioni storiche di quella società nella quale non s’era prodotta la fase di ciclo capitalistico dominato dalla borghesia), appare schierato su una posizione nuova, che corrisponde alla realtà particolare del gruppo torinese che propugna una rivoluzione dei consigli operai, distaccandosi tanto dai riformisti quanto dai massimalisti. Ma anche l’analisi di Gramsci è errata, perché Nitti non è Kerensky, ne il potere statale 2 il potere economico e finanziario in Italia sono, com’egli invece reputava, al collasso e al disfacimento. In questa fase è Claudio Treves, tra i riformisti, ancor più dello stesso Turati a comprendere che “la vera linea divisoria era lì, tra l’ideologia evoluzionistica del socialismo d’anteguerra, e i princìpi teorici nuovi del leninismo“, come scrive Luigi Cortesi. Una frattura non più sanabile, e che sarebbe probabilmente meglio portare subito alle estreme conseguenze: la giusta opposizione tra le due strategie, quella della rivoluzione democratica da realizzarsi con l’assemblea costituente e con le riforme, e quella della rivoluzione socialista, mediante l’instaurazione della dittatura del proletariato, non solo si contraddicevano, ma si annullavano a vicenda, causando soltanto confusione e generando una totale impotenza politica del PSI. Un esempio di questa confusione fu dato dal sindacalista D’Aragona, il quale, delegato dalla CGL alla conferenza internazionale di Southport delle organizzazioni operaie, che decise lo sciopero generale in tutti i paesi a sostegno della rivoluzione russa contro l’intervento militare straniero (al quale la CGL aderì), così illustrava la situazione italiana: “Non ci sorprenderà affatto se un movimento rivoluzionario scoppia da noi. I risultati non potranno essere decisivi, ma l’insurrezione è inevitabile“. E D’Aragona apparteneva alla “destra” del partito, oltre che essere uno dei capi più ascoltati dall’organizzazione sindacale. I fatti sembravano solo apparentemente dare ragione su questo punto a lui, e a tutti quei dirigenti socialisti che, massimalisti o no, si attendevano l’insurrezione. Lo scontro sociale tendeva a radicalizzarsi e culminava con le manifestazioni contro il carovita, cui aderirono demagogicamente fascisti e nazionalisti. La formazione del governo Nitti aveva scatenato la destra, cui si univano apertamente ambienti militari, in odio all’uomo politico lucano che era considerato eccessivamente riformista e pacifista. Per chiari segni, nonostante il pullulare degli scioperi, l’iniziativa di piazza tendeva a spostarsi in direzione opposta, in direzione delle forze avverse ai socialisti e ai sindacati. Dopo lo sciopero a difesa della Russia sovietica, proclamato per il 20 e il 21 giugno, apparve chiaro che l’offensiva della stampa era tutta incentrata sul motivo del pericolo di una rivoluzione bolscevica in Italia; ed era un’accusa che accomunava, sia pure strumentalmente, tutta la sinistra italiana, senza fare distinzioni tra rivoluzionari e riformisti, e senza tenere conto che la stessa CGL s’era all’ultimo momento ritirata dallo sciopero stesso. Apparve chiaro che ormai la destra sosteneva apertamente l’azione dei fascisti, dei nazionalisti e dei futuristi. Esaltava l’impresa fiumana di D’Annunzio, sorvolando, con senso tattico, sul fatto che la Repubblica del Carnaro, come D’Annunzio l’aveva fantasiosamente denominata, sfoggiava un programma sociale “di sinistra“, ispirato da ex sindacalisti rivoluzionari come De Ambris. A Nitti, che voleva sfuggire all’abbraccio mortale della destra, e che si proponeva da un lato di restaurare nella legalità l’ordine pubblico e di avviare una politica di giustizia sociale, non resta altro che sciogliere la Camera e indire nuove elezioni: ciò che fece il 29 settembre, ma dopo aver varato la riforma elettorale in senso proporzionale, con l’obiettivo di dare forza ai partiti, contro il movimento incontrollabile. Lenin aveva ragione, dal suo punto di vista, a interessarsi così attentamente alle vicende del socialismo italiano. In breve volgere di tempo, infatti, il leninismo conquistò il gruppo dirigente del PSI. I massimalisti – come ormai ufficialmente si denominavano – rimasero colpiti dagli avvenimenti che avevano condotto Lenin e i bolscevichi al potere in Russia, sfruttando spregiudicatamente e con l’uso della violenza le conseguenze della rivoluzione democratica del febbraio 1917. Con il mito dell’Unione Sovietica, patria del socialismo, si creava anche il mito della violenza rivoluzionaria “levatrice della storia“. Del resto la guerra abitua all’idea della violenza. E mai, prima del conflitto del ’15-18, s’era assistito a una guerra così cruenta e di tale violenza. I massimalisti, poi, confondevano il disagio economico delle masse che tornavano esasperate da anni di caserma o di trincea, il malcontento per il caroprezzi, l’insofferenza dei proletari e specialmente quella dei contadini meridionali, con l’esistenza di una volontà rivoluzionaria della classe lavoratrice. Ammesso che essa fosse auspicabile, non c’era nessuna delle condizioni favorevoli alla possibilità di una rivoluzione. Lo Stato sabaudo usciva rinforzato dall’esito positivo del conflitto e, nonostante le polemiche sulla “vittoria mutilata”, rinforzato anche per l’annessione dei territori Italiani che, sottratti all’Austria, completavano l’unità territoriale della nazione. Il potere militare, al di là degli sbandamenti e dei madornali errori verificatisi nel corso del conflitto (e che avevano finito per aggravare il bilancio di vite umane sacrificate), era anch’esso vittorioso e quindi più forte. I gruppi economici dominanti, specie quelli dell’industria pesante, uscivano baldanzosi da una situazione nella quale avevano realizzato ingenti profitti con le commesse di guerra e con la protezione dello Stato. Si cominciavano di conseguenza già ad avvertire i primi segni di manifestazione di quella tendenza alla simbiosi tra lo Stato e il capitalismo privato, che si svilupperà nei decenni successivi. Basterebbero già questi pochi cenni per comprendere come fosse del tutto illusoria – a prescindere da ogni giudizio di valore – una prospettiva rivoluzionaria in Italia. Trotzkj aveva salacemente definito l’atto rivoluzionario come “un pugno sferrato contro un paralitico“. In Italia il potere economico e il potere statale erano tutt’altro che paralitici. Del resto, se non si era potuto (non lo si era neppure tentato) “trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria“, come si sarebbe potuto trasformare la vittoria in rivoluzione? Se la guerra e soprattutto la guerra perduta costituiva, per la strategia leninista, la condizione più favorevole a un attacco al …