LA QUESTIONE NAZIONALE

Già la guerra di Libia avrebbe dovuto metterli sull’avviso. La risposta che era stata data dal sindacato e dal partito aveva ricalcato fedelmente i canoni dell’ideologia pacifica e internazionalista che aveva accompagnato il PSI dalla sua nascita. La “questione nazionale” non aveva occupato l’attenzione di nessuno dei teorici “riformisti” o “rivoluzionari” perché nei vent’anni precedenti essa era stata sostituita dalla “questione sociale”, che era indubbiamente la più pertinente alla vita e allo sviluppo del movimento socialista. Qualcuno, come Antonio Labriola, aveva manifestato il suo assenso per l’espansione coloniale del capitalismo italiano: ma era stato il risultato di un’analisi “marxista”, che aveva destato, più che altro, curiosità e stupore. Certo dalla tradizione risorgimentale che in una qualche misura i socialisti avevano ereditato da Garibaldi, da Pisacane e da altri socialisti dell’Ottocento, il tema della “questione nazionale” aveva in qualche modo continuato a vivere nell’animo di alcuni intellettuali socialisti, soprattutto come sentimento di solidarietà per i popoli oppressi. Ora essa tornava in campo, con la prepotenza degli eventi che si susseguivano con la rapidità del vento. La propaganda nazionalistica, essenzialmente antidemocratica e conservatrice, tranne che per alcune eccezioni, non aiutava affatto alla comprensione del problema: anche se alcuni scrittori nazionalisti, come Corradini e Sighele, avevano avvertito l’esigenza di collegare il discorso nazionale al discorso sociale, tentando una difficile, e forse impossibile, sintesi tra le esigenze del movimento operaio e quelle nazionali. Cos’è che divideva il nazionalismo e la sua cultura dal socialismo e anche dalla democrazia? “In questo quadro – commenta Giorgio Galli nella sua disamina storica – si appalesa in tutta la sua evidenza… di fronte a tutte le forze: da quelle economiche, ben note, a quelle psicologiche, trascurate, che si scatenano nell’estate 1914“. La stragrande maggioranza dei socialisti scelse in realtà la strada più tradizionale, mitigandola proprio per tener conto delle “forze psicologiche” che emergevano nell’opinione pubblica e degli orientamenti dei poteri reali, dalla monarchia all’esercito e alla grande industria, che buttavano alle ortiche la vecchia politica triplicista e si apprestavano a schierarsi a fianco della Francia e dei suoi alleati. La posizione sostanzialmente neutralista dei socialisti corrispondeva, per onore della verità, al sentimento più diffuso tra i militanti, che erano pacifisti e in larga parte antimilitaristi (non si dimentichi che appena qualche mese prima la “settimana rossa” era nata da una manifestazione antimilitarista). La formula coniata dal segretario del partito, Costantino Lazzari, “né aderire né sabotare“, all’atto dell’entrata in guerra, era, allo stato delle cose, la più corrispondente ai sentimenti delle masse. Né, come è noto, il neutralismo era solo dei socialisti: era anche la posizione dei cattolici, quella di Giolitti e dei giolittiani. Ecco la ragione per cui l’interventismo democratico di Bissolati (già fuori del partito) e l’interventismo rivoluzionario di Mussolini (che ne venne espulso) finirono per avere una scarsa incidenza sulla base socialista. A distanza di tempo si può fare un’opera di revisione critica dell’atteggiamento neutralista, ma occorre serenamente riconoscere che esso corrispondeva al modo di pensare della stragrande maggioranza dei socialisti in quel momento. Altre ipotesi come quella dell’interventismo nel suo duplice aspetto, o quella leninista, che fu appena conosciuta in Italia, furono in realtà ipotesi che almeno all’inizio del conflitto appartennero a ristrette minoranze, sempre se si fa riferimento al mondo popolare e all’area del socialismo. Per quanto riguarda Mussolini, il suo mutamento di posizione fu senza dubbio troppo rapido e troppo brusco: in pochi mesi, dal giugno all’ottobre, egli passò da una posizione antimilitarista, pacifista e sovversiva, di cui al momento della “settimana rossa” era stato il fautore e il propagandista più scalmanato, a quella di interventista attivo, cioè di interventista “prima” che la patria fosse in guerra. Lungi da noi ogni indulgenza a forme di dietrologia, che tra l’altro spiegano poco o addirittura nulla. Interessa soltanto il pettegolezzo e l’aneddotica storica il discorso sui veri o presunti finanziamenti stranieri. Quello che importa rilevare per un corretto giudizio sui fatti del tempo, è che Mussolini non fu in grado allora, né mai, di spiegare in modo convincente questo brusco passaggio da una posizione estrema a un’altra, altrettanto estrema anche se opposta a quella precedente. Sarebbe stato più comprensibile un suo trascorrere a una posizione interventista se ciò fosse avvenuto nel maggio del 1915, “dopo” l’entrata in guerra dell’Italia. Resta difficilmente spiegabile come un uomo che nel giugno del 1914 si atteggiava ostentatamente a leader del sovversivismo e dell’odio antimilitarista, nel volgere di un’estate – sia pur carica di eventi drammatici – si trasformi in un acceso sostenitore dell’intervento militare italiano. Da questo punto di vista appare scarsamente attendibile anche il paragone con Guesde e con i socialisti francesi, i quali si risolsero a schierarsi per la difesa della Francia quando il loro paese era già sotto la minaccia degli Imperi Centrali. Forse l’atteggiamento di Mussolini può paragonarsi a quello che, sulla sponda opposta avevano assunto i socialdemocratici tedeschi, i quali avevano votato i crediti di guerra. Ma i socialdemocratici tedeschi non erano stati, come lui, su posizioni rivoluzionarie e antimilitariste fino a pochi mesi prima, quando dalle colonne dell’”Avanti!” incitava all’odio di classe, all’attacco fisico anche contro l’esercito, oltre che contro il capitalismo e la monarchia. Dalle colonne dello stesso “Avanti!” il 18 ottobre 1914 Mussolini confermava le voci che già circolavano da qualche settimana circa un suo sorprendente mutamento di opinione rispetto alla posizione neutralistica assunta dal partito. Per la verità, come scrive Leo Valiani, “alcuni socialisti indipendenti, come Battisti, Salvemini, Giuseppe Lombardo Radice, e dei libertari come Massimo Rocca, premettero pubblicamente su di lui” perché assumesse questa posizione. Valga per tutte la lettera che gli indirizzò Gaetano Salvemini. Mussolini rimase del tutto isolato nella riunione della direzione del partito che confermò la linea neutralista, e dovette dimettersi dal posto di direttore dell’”Avanti!” che, per la verità storica, aveva riportato a tirature allora vertiginose. Sfruttò subito la sua indubbiamente eccezionale capacità giornalistica fondando “Il Popolo d’Italia“, dalle colonne del quale iniziò immediatamente una incandescente campagna a favore dell’intervento, definendo la guerra, tanto per non smentirsi del tutto, come “intrinsecamente rivoluzionaria”. I fedeli …

UN PATTO PER LA COSTITUZIONE E PER LA DEMOCRAZIA

La vittoria referendaria del 4 Dicembre e il rifiuto da parte del corpo elettorale, per la seconda volta, di una riforma verticistica, che avrebbe stravolto natura democratica e modello parlamentare della nostra Carta fondamentale, ridotto gli spazi di democrazia e compromesso il primato della sovranità popolare, impongono un impegno stringente a quanti vogliano rispettare le indicazioni del corpo elettorale e farsi garanti delle ulteriori richieste che da quella vittoria sono scaturite: l’attuazione e la messa in sicurezza della Costituzione. Per questo i sottoscritti si impegnano a contrastare ogni ulteriore proposta di riforma che miri a modificare, palesemente o surrettiziamente, la forma democratica e parlamentare del nostro modello repubblicano, ovvero a costituzionalizzare principi neoliberisti o a limitare la sovranità popolare, i diritti fondamentali delle persone, i diritti politici e la partecipazione politica degli elettori. Altresì, si impegnano a garantire, nell’ambito del programma elettorale e dell’azione politica della propria Lista o della Lista che sosterranno, la piena e completa attuazione dei principi fondamentali della Costituzione e del dettato costituzionale, con particolare riferimento: 1) All’art. 1 Cost., nell’inscindibile relazione che, nella nostra democrazia, lega l’esercizio della sovranità popolare alla garanzia del diritto al lavoro, e all’inclusione nei percorsi lavorativi delle persone con disabilità, impegnandosi a rendere effettivo tale diritto nella sua accezione più ampia e comprensiva dei diritti assistenziali e pensionistici, parimenti remunerato e tutelato per donne e uomini, per i lavoratori di tutte le categorie e di tutte le generazioni in attuazione del precetto dell’art. 36 Costituzione, per assicurare  un’esistenza libera e dignitosa. 2) All’art 3, 2° comma Cost., riaffermando il ruolo della Repubblica, in tutte le sue articolazioni e poteri, nella rimozione delle diseguaglianze economiche, sociali, di genere, generazionali, territoriali che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la piena partecipazione di tutti i cittadini e di intere generazioni, gruppi sociali, ampie fasce della popolazione alla vita sociale, politica e democratica del Paese. A tal fine è imprescindibile garantire la piena effettività di tutti i diritti civili e sociali e il rilancio del modello universalistico dei servizi, a partire da un alto e uguale livello di tutela della salute, come fondamentale diritto garantito dall’art. 32 Cost., e dell’assistenza sociale su scala nazionale e senza discriminazioni territoriali, dal rilancio e rifinanziamento della ricerca e dell’istruzione pubblica, dal diritto di accesso a una giustizia rapida e certa, parimenti accessibile con pari chance e possibilità per tutti i cittadini a prescindere dal reddito. 3) Alla piena attuazione del Titolo III della Costituzione sui “Rapporti economici” tramite un opportuno e necessario intervento pubblico in economia per la garanzia dei diritti fondamentali e dei diritti sociali, alla cui previa effettività devono essere conformate le scelte di bilancio e l’equilibrio dei conti pubblici. 4) All’interpretazione e revisione dei Trattati europei alla luce dei principi inderogabili dettati dalla  Costituzione  e della previa e preminente effettività dei principi e dei diritti fondamentali, nonché dell’autonomia politica del Paese, anche nell’ambito di una rafforzata  cooperazione nella UE, nelle scelte di governo e nel modello di sviluppo più coerenti con il carattere democratico, personalista, pluralista e solidarista della Costituzione. 5) Agli art. 10 e 11 Cost., tramite la firma e la ratifica dei trattati per la messa al bando delle armi nucleari, la revisione delle politiche sui flussi migratori alla luce della piena effettività dei principi costituzionali sul diritto d’asilo, la cancellazione degli accordi che non garantiscano il pieno rispetto della dignità e dei diritti fondamentali delle persone, dei migranti economici e di quanti a qualsiasi titolo fuggano da regimi totalitari, territori di guerra o colpiti da crisi, carestie, disastri ambientali e violazioni dei diritti umani. 6) Alla piena garanzia, anche giurisdizionale, dei diritti di elettorato attivo e passivo, nonché dei diritti di partecipazione politica, impegnandosi a promuovere una legge elettorale conforme al prioritario rispetto del principio di rappresentanza democratica, dell’autonomia e della centralità del Parlamento e dei parlamentari, tale da sancire il diritto degli elettori a partecipare attivamente alla selezione delle candidature e alla scelta degli eletti, nel rispetto della parità di genere e dell’equilibrio fra generazioni. Di queste tutele è premessa essenziale l’attuazione dell’art. 49 Cost. e la messa in sicurezza dell’art. 138 Cost. da modelli elettorali e composizioni parlamentari che falsino il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Felice BESOSTRI, Anna FALCONE, Vincenzo VITA, Lara TRUCCO, Gianni FERRARA, Emma IMPARATO, Paolo MADDALENA, Giovanni PALOMBARINI, Antonio ESPOSITO, Antonio CAPUTO, Aldo GIANNULI, Pietro ADAMI, Giovanni SCIROCCO, Aldo FERRARA. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

“UNA RIVOLUZIONE MANCATA: IL RIFORMISMO DI FILIPPO TURATI”

Lezione di storia, 12 marzo 2011 (Piazza S. Giovanni, Roma) di Spencer Di Scala* Antonio Gramsci, nell’analizzare il Risorgimento, utilizzò la frase “rivoluzione mancata” per criticare Giuseppe Garibaldi perchè egli aveva donato l’appena conquistato Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna nel compimento dell’Unità italiana. Secondo Gramsci, c’erano le condizioni per le quali fosse possibile fare una rivoluzione sociale nel Sud che Garibaldi, invece, aveva soffocato con questo atto. Secondo me, facendo questa analisi Gramsci aveva torto, anche se la sua frase ha avuto fortuna fra gli storici della sinistra italiana. Io credo che l’evidenza citata da Gramsci non regge e ho anche i miei dubbi riguardo al concetto. Si può, quindi, chiedere per quale motive ho utilizzato l’idea della rivoluzione mancata nel titolo di questa lezione. La ragione è che nel caso di Filippo Turati, padre del riformismo italiano, il confronto tra quello che i riformisti italiani volevano fare, alla luce dello svilippo della società e della politica italiana, è molto più concreto che nel caso che ho citato. Nel caso del riformismo turatiano si possono individuare idee concrete e soluzioni per problemi che ancora affliggono l’Italia e, se i riformisti avessero vinto le loro battaglie, avremo oggi un’Italia molto più civile e moderna. Inoltre, si è persa la memoria storica di Turati e dei riformisti della sua epoca sicchè al giorno d’oggi, quando si parla tanto di riformismo, dopo 85 anni, gli italiani sono costretti a riscoprire una robusta tradizione italiana invece di poter costruire delle politiche adeguate per confrontare il mondo moderno sulle fondamenta gettate da Turati e dai riformisti della fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Purtroppo, la colpa ce l’hanno non solo i politici ma anche gli storici. Per ricuperare la memoria storica di cui sto parlando, ho deciso di dividere questa lezione in tre parti: l’ideologia, la pratica, e la storiografia. L’Ideologia Nel discutere dell’ideologia di Filippo Turati e dei riformisti della fine dell’ottocento, il linguaggio naturalmente potrà sembrare un pò datato, ma i concetti si capiscono benissimo. Si deve tenere a mente che Turati, come fondatore del Partito, era un socialista che aveva dei forti agganci con i leaders di spicco del socialismo del periodo. Voglio anche far presente che nel riassumere la sua ideologia, ho considerato le idee che Turati ha espresso intorno al 1892, data ufficiale della fondazione del Partito socialista italiano. Durante quel periodo, come in molti periodi successive, si discuteva della violenza. Gli estremisti di allora, come quelli di oggi, argomentavano che solo la violenza poteva sconfiggere il capitalismo. Anche con l’avallo della sua compagna Anna Kuliscioff, che aveva già passato degli anni accanto ad Andrea Costa e che aveva avuto una lunga esperienza in Russia, in Francia e in Italia dove la violenza non aveva funzionato, Turati si è sempre opposto alla violenza. Egli sostenne con convinzione e coerenza, invece, l’idea che il socialismo si poteva affermarsi solo come risultato di una lenta e pacifica trasformazione del capitalismo. Negò che la violenza costituisse parte integrante dell’ideologia marxista. “Così una rivoluzione non è tale per la violenza,” Turati scrisse, “ma a malgrado della violenza.” La violenza rivoluzionaria non fa altro che dimostrare che una società non è pronta per il socialismo.(1) Secondo Turati, le idee socialiste devono essere diffuse pacificamente fino al momento in cui esse saranno penetrate nella società in modo talmente profondo che l’uomo non avrà più volontà di resistere ad esse. Una tale rivoluzione spirituale richiede naturalmente una intensa preparazione, allo scopo di approntare il terreno ideale per l’evoluzione, la quale, nel pensiero di Turati, è sinonomo di rivoluzione. Perciò Turati ha sempre condannato la “dittatura del proletariato”, e chi la predica si illude. La rivoluzione arriverà soltanto attraverso una evoluzione della società borghese e il suo segno distintivo sarà costituito dall’assenza o dal minor uso possibile della violenza. Questo concetto di evoluzione sociale pervade tutto il pensiero di Turati. Egli era convinto che le contraddizioni insite nel capitalismo avrebbero presto o tardi causato il suo collasso, ma la sua peculiare avversione alla violenza e l’enfatizazzione della necessità di una evoluzione graduale differenziano la sua interpretazione di Marx. Non immaginò mai che il capitalismo sarebbe giunto alla fine in un breve periodo di tempo, e che quindi ai socialisti bastasse aspettare pazientemente. I socialisti devono al contrario operare per accelerare, attraverso le riforme, la naturale tendenza del capitalismo all’autodistruzzione. Perciò, quando Turati parla della “lotta di classe”, intende la lotta del proletariato per ottenere le riforme, un processo che dipende dalla volontà umana che esclude la violenza. Per questo, evoluzione e rivoluzione sono la stessa cosa.(2) Il concetto di rivoluzione elaborato da Turati giocò una parte importante nella sua analisi del ruolo del proletariato italiano. Siccome la classe lavoratrice italiana non sarebbe in grado di improvvisare una società socialista, non è desiderabile che essa prenda il potere immediatamente.(3) Durante gli anni, la classe lavoratrice ha assorbito essa stessa la cultura borghese: “Esso è tutto pieno di principi, di tendenze, di residui borghesi: il nemico che ha contro di se` lo ha anche in se stesso. Deve…gettare il vecchio uomo: questo non avviene in un giorno”.(4) Per il socialista, promettere ai lavoratori immediata e totale soddisfazione attraverso la violenza significa agire con intento fraudolento o, nella migliore delle ipotesi, con ignoranza. Il proletariato italiano, argomenta Turati, non può essere poco cosciente di se stesso e arretrato, come i socialisti lamentano, e al contempo domandare l’affermazione di una dittatura allo scopo di guidare la civiltà verso nuove frontiere. Il concetto di dittatura del proletariato conduce direttamente ad una concezione oligarchica di socialismo: i leaders che impongono le proprie idee sulle masse. Questo concetto porterebbe all’affermazione non già della dittatura del proletariato, ma all’affermazione di una dittatura contro il proletariato. Per Turati, “il socialismo e` una forza in divenire”, non l’imposizione violenta di un programma da parte dei leaders dei socialisti, e il partito ha il compito di “elevare” il proletariato. “L’elevamento della classe operaia”, Turati scisse nel 1892, “non è tanto un elevamento economico quanto un …

LA POLITICA DELLE ALLEANZE

Del resto lo stesso Engels aveva dato un suggerimento in tal senso a Turati e alla Kuliscioff che gli avevano chiesto la sua opinione su come dovesse comportarsi il partito di fronte ai movimenti delle masse. Era il 1894, un anno cruciale di conflitti e di repressioni, ed Engels addirittura pronosticava la possibilità della instaurazione di una Repubblica borghese ad opera di radicali e repubblicani Italiani, considerando comunque come positiva l’azione di queste forze che “allargherebbe ancora e di assai la nostra libertà“. Stava ai socialisti, secondo il collaboratore del defunto Marx, assecondare questo movimento, mantenendo la piena indipendenza ideologica e organizzativa. Il PSI doveva essere “alleato pel momento ai radicali e repubblicani, ma interamente distinto da essi“. Più che da un’analisi di tipo ideologico, la linea era imposta al partito da una necessità addirittura esistenziale. Sta di fatto che l’estremizzazione, in quegli anni, della lotta sociale e politica non portò il giovane partito ad estremizzare le sue posizioni in senso, come si dirà in fasi successive, “massimalistico“. All’opposto, ne maturò rapidamente la capacità politica, l’intelligenza tattica e il carattere morale. I suoi dirigenti e i suoi militanti non si tirarono indietro di fronte allo scontro e solidarizzarono con le masse; ma agirono politicamente in modo saggio e concreto per uscire dalla situazione che si era pericolosamente creata, per cercare e consolidare le alleanze possibili, facendo fare un passo innanzi al processo di rafforzamento e di espansione del sistema democratico, ancora recente ed ancora notevolmente fragile. Allo stesso tempo, sia pure in modo del tutto consapevole, il partito tendeva a sciogliere quella contraddizione tra finalità rivoluzionarie e mezzi legalitari che aveva presieduto la sua nascita, e che riapparirà anche in fasi successive. Uno storico del socialismo italiano, Giorgio Galli, definisce il biennio 1894-95 come “il paradigma” di un processo “ripetitivo” in cui “la legalità deve essere utilizzata per accumulare energie rivoluzionarie; ma quando le energie si manifestano, la tensione sociale si accentua, sino a mettere in pericolo la legalità“. Ci sembra che, almeno in quella fase, il gruppo dirigente socialista non abbia attuato né una strategia né delle tattiche corrispondenti a questo paradigma. Non era stato un loro obiettivo la crescita della tensione sociale, che era indiscutibilmente un prodotto delle condizioni di arretratezza sociale di molte zone del paese, di ritardo nel riconoscimento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, condizioni inasprite dalla crisi economica di quel periodo che aveva condotto (con il rincaro del Prezzo del pane) alla esasperazione larghi strati popolari che vivevano in condizioni di precarietà e di indigenza. Lo scopo prioritario del PSI era quello di costituire una struttura rappresentativa organica delle esigenze popolari e di garantirne il rafforzamento e l’espansione: questo scopo coincideva con il rafforzamento delle istituzioni, l’allargamento della vita democratica, attraverso, ad esempio, l’allargamento del suffragio, l’introduzione nella vita politica di zone della società civile che ne erano state escluse fino ad allora. Per tali ragioni, il gruppo dirigente socialista – almeno nella sua grande maggioranza – non si fece travolgere dagli avvenimenti, non tentò di “cavalcare la tigre” rivoluzionaria (anche se non mancavano alcune sirene che li sollecitavano in questa direzione) e riuscì ad uscire con successo dalla prova di quegli anni. La coscienza dell’importanza della vita parlamentare, come sede elevata della lotta politica democratica, fece dei socialisti i più intransigenti difensori del Parlamento e delle sue prerogative. Nel Parlamento i socialisti condussero tutte le battaglie per la libertà di associazione dei lavoratori, per il diritto di sciopero, per la giustizia sociale attraverso la legislazione del lavoro. E condussero anche una lotta intransigente contro la repressione autoritaria di Crispi, Di Rudinì e Pelloux, che intendevano colpire i lavoratori e, con essi, tutti i democratici.   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

GLI EFFETTI DEL “COMPROMESSO RIFORMISTA”

Con il congresso di Ancona del 1914 poteva dirsi conclusa quella fase, di grande importanza storica, nella quale l’ala riformista socialista aveva guidato, sia pure con alterne vicende, il partito, riuscendo a realizzare alcuni obiettivi fondamentali tra quelli indicati dal programma “minimo” varato da Imola all’inizio del secolo. Questa fase aveva coinciso con una forte espansione organizzativa ed elettorale del PSI. Momenti fondamentali di questa politica erano stati quelli in cui, pur tra tante contraddizioni, il PSI era riuscito a trovare punti di congiunzione con quelle forze della democrazia liberale, guidate da Giolitti, da cui erano sortiti effetti benefici e positivi per tutto il sistema sociale e politico nazionale. Quello che potrebbe essere definito il “compromesso riformista” si sviluppa praticamente lungo l’arco di un quindicennio e in gran parte coincide con la guida del governo da parte di Giolitti. Basti pensare all’attuazione, nel 1902, della legge sul lavoro dei fanciulli e delle donne, che costituisce una pietra miliare nella storia dell’evoluzione sociale in Italia. Essa fu, in un certo senso, il segnale d’avvio di un ciclo politico che, pur nelle sue intermittenze, presentò uno sviluppo unitario e sostanzialmente organico. Già prima di quella legge il movimento dei lavoratori Italiani aveva tratto notevoli vantaggi dal dialogo e dalle convergenze tra dirigenza riformista socialista e democrazia liberale. Fin dall’epoca dei Fasci siciliani apparve evidente la differenza tra la politica giolittiana e quella repressiva di Crispi, Di Rudinì, Pelloux e Saracco. L’atteggiamento di Giolitti nei confronti delle controversie del lavoro fu democratico e fattivo. Egli affermò il principio della neutralità tra padroni e lavoratori nei conflitti di lavoro, anche i più aspri, da parte dello Stato, che non doveva intervenire a sostegno di una delle parti in conflitto. Principio che sfatava la veridicità del dogma marxista, per cui lo Stato costituiva comunque la protezione giuridica degli interessi della borghesia. E ciò favoriva il revisionismo teorico dei riformisti, e, di conseguenza, il loro positivo pragmatismo politico. Non sempre questo principio fu applicato: e molte violazioni ad esso si registrarono nelle campagne e nel Mezzogiorno, dando voce alla protesta di esponenti politici e di intellettuali come Salvemini. In effetti, la politica giolittiana trovava più facili condizioni di attuazione nelle aree più evolute economicamente e socialmente del paese, che non in quelle più sfortunate e nelle quali la borghesia era più debole e insieme più miope politicamente. Al di là di questa contraddizione, non di poco conto, l’effetto determinante che il “compromesso riformista” ebbe sulle possibilità di espansione della forza organizzata dei lavoratori e di garanzia dei loro diritti individuali e collettivi, si evidenzia proprio negli anni dell’accantonamento di Giolitti, dopo lo scandalo della Banca Romana: gli anni della repressione autoritaria, fino ai fatti del 1898 e gli inizi del secolo. Il governo Zanardelli con Giolitti agli Interni segnò il vero punto di svolta. La differenza nello stile di comportamento con i governi precedenti risultò subito in maniera trasparente. “Gli scioperi del 1901 e del 1902 furono il banco di prova della politica democratica che il ministero si era impegnato ad adottare. La prova fu superata in maniera brillante: veramente l’Italia aveva voltato pagina e la politica repressiva dell’ultimo scorcio dell’Ottocento era solo un brutto ricordo“. Questa volta trovò riscontro sul piano legislativo: i socialisti ottennero importanti concessioni: oltre alla legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, l’aumento degli stipendi ai ferrovieri, il riconoscimento legale delle associazioni operaie e delle leghe contadine, le provvidenze per i poveri colpiti da pellagra e da malaria ecc… Il “pacchetto” di provvedimenti realizzati in quel biennio servì a Turati, Bissolati e compagni per tenere a bada le correnti di “sinistra” nel partito, fino al congresso di Imola, dove tra le due “anime” socialiste si addivenne ad una unità del tutto fittizia, ma che permise il varo di quel programma “minimo” che rappresentò il punto di riferimento del PSI in tutto il periodo successivo, fino al 1914. Sull’onda di questa positiva collaborazione – che non si concretizzava tuttavia nell’appoggio al governo – Giolitti aveva assunto l’iniziativa delle dimissioni da ministro degli Interni, per varare una coalizione governativa da lui presieduta, con la partecipazione dei socialisti, o con il loro sostegno. Non ottenne né l’una, ne l’altra, perché i riformisti non potevano assumersi la responsabilità di una rottura clamorosa con le altre tendenze del partito, che avrebbe potuto condurre ad una lacerazione probabilmente insanabile. Non per questo il dialogo e la collaborazione ebbero a cessare. I socialisti assecondarono in Parlamento tutte quelle iniziative legislative di stampo riformistico che il gabinetto presieduto da Giolitti propose, dalla sanità alla giustizia, all’istruzione e per favorire un’evoluzione delle regioni meridionali, fino a che l’ala sindacalista rivoluzionaria alleata con quella massimalista non prevalse nel congresso di Bologna del 1904, ed impose lo sciopero generale nel settembre dello stesso anno. Lo sciopero si rivelò un fallimento e preluse a nuove elezioni, dalle quali i socialisti uscirono indeboliti, come i radicali: non fu Giolitti a beneficiarne, la situazione gli era sfuggita dalle mani, e paradossalmente i deputati socialisti concessero a Sonnino quell’appoggio al governo che non avevano mai concesso a Giolitti. Successivi momenti di incontro si realizzarono dopo il congresso di Roma del 1906, con l’inserimento nel programma di governo da parte di Giolitti di provvedimenti richiesti dai socialisti (miglioramenti salariali, provvidenze per le regioni meridionali, conversione della rendita, oltre al riconoscimento della giustezza delle critiche dei socialisti per lo scandalo delle commesse alla Società Terni), e, nel 1912, in occasione del varo della legge elettorale che estendeva ampiamente il suffragio, con il riconoscimento dell’indennità a parlamentari e con il monopolio delle assicurazioni sulla vita. Nel frattempo s’era inserito nel dialogo un nuovo interlocutore: la Confederazione generale del lavoro che, legata da un patto di solidarietà e d’azione comune con il PSI, e in particolare con la sua ala riformista, sapeva farsi valere dal governo, e ottenere oltre a riforme normative essenziali, anche benefici concreti come ad esempio cospicue sovvenzioni alle cooperative. Compromesso, dunque: perché mai si trattò di alleanza, e soprattutto di una alleanza organica, quale …

LE VIE MAESTRE DEL SOCIALISMO

di Rodolfo Mondolfo Nel centenario della nascita di Filippo Turati, in Italia i socialisti delle distinte e contrastanti correnti si adoperarono ad onorarne degnamente la memoria con tutta una serie di pubblicazioni che ne rievocassero la nobilissima figura di uomo politico, di pensatore e di scrittore. Ma la personalità di Turati, per la sua altezza e nobiltà e per l’importanza della sua azione storica, trascende la sfora del partito di cui pure fu, per lunghi decenni e nelle alterne e fortunose vicende da esso attraversate, il più eletto e significativo rappresentante, ed assume un valore nazionale che tutti gli italiani debbono riconoscere, inchinandosi reverenti alla sua memoria. Rare volte si presentò sulla scena delle lotte politiche un intelletto e un carattere di pari nobiltà e dirittura, che abbia, come lui, considerato la partecipazione alla vita politica siccome una missione e un apostolato che esiga la dedizione intiera e disinteressata dell’uomo al servizio del suo ideale, senza risparmio di fatiche, senza timore dei rischi inevitabili, senza preoccupazione delle ostilità ed ingiurie degli avversari e dell’incomprensione e ingratitudine di molti fra gli stessi compagni di lotta, sereno e costante in mezzo alle amarezze ed alle avversità Conobbe più volte gli attacchi e le ingiurie di frazioni a lui opposte del suo partito, e conobbe le persecuzioni, il carcere, l’esilio. Nel 1898 un tribunale militare gli infligga una condanna a 18 anni di reclusione, da cui dopo 14 mesi lo liberarono la trionfale rielezione a deputato e le eloquenti manifestazioni della volontà popolare; nel 1926, a un anno dalla uccisione di Matteotti ed a breve distanza dalla morte di Anna Kuliscioff, dovette sottrarsi alle già iniziate persecuzioni fasciste con una fortunosa fuga per mare, e vivere gli ultimi suoi anni all’esilio, ove lo colse la morte nel marzo 1932. Ma di fronte a tutte le amarezze, le avversità, le persecuzioni, la sua fermezza non piegò mai, e la sua linea di condotta non subì deviazioni. Poteva dire di se stesso quello che, in un articolo del 1895, aveva scritto riguardo all’atteggiamento che doveva mantenere il partito nella lotta politica e di fronte alla reazione: “il partito non assale, ma non rincula; non provocano accolta provocazioni, ma rimane al suo posto… I suoi giornali sono sequestrati? …li sorregge con maggior lena… Si arrestano i compagni? ed esso li soccorre e li surroga. Stringe le file: uno per tutti e tutti per uno. Ogni suo atto è l’affermazione di un diritto… Dalla stessa persecuzione trae argomento per nuove propagande, dalla compressione politica fa scaturire la prova della necessità di una più vigorosa azione ed educazione politica“. Così, all’uscita del reclusorio di Pallanza, nel 1899, riprendeva la pubblicazione interrotta della sua rivista, la Critica sociale, con un articolo che s’intitolava al motto del monaco spagnolo tornato da lunga prigionia all’insegnamento: Heri dicebamus; così più tardi, nell’esilio, continuava la lotta contro il fascismo e per la libertà, ammonendo gli ingenui e fiduciosi democratici e socialisti europei, che non sentivano ravvicinarsi del nazismo, della necessità di una vigile difesa contro i pericoli che minacciavano la libertà e la civiltà universale. Sempre la sua attività politica si manteneva costante nella stessa direzione; illuminata da una profonda fede nel suo ideale e incitata dalla voce inferiore di un alto senso del dovere, che esigeva da lui il continuato sacrificio, la perseverante dedizione alla lotta. Se un nuovo Fiatone dovesse scriver oggi un nuovo Uomo politico, ben potrebbe nella vita e nell’esempio di Turati ritrovare elementi inspiratori, per disegnare la figura ideale del lottatore civile. Nella sua diuturna attività politica possiamo noi oggi riconoscere quelle caratteristiche che egli ritrovava nel 1920 al ripercorrere una raccolta di scritti suoi, riuniti da Alessandro Levi nel volume Trent’anni di Critica Sociale (Bologna, Zanichelli, 1921): “una comunità di pensiero, una colleganza ed unità ideale che avvicina e fonde gli anni, uno spirito, sempre il medesimo, che alita dentro“. Questa continuità nasceva dalla unità e costanza dell’ispirazione che egli così teorizza in uno dei suoi discorsi ai congressi: “Se interroghiamo unicamente il nostro spirito, che ha una sua propria profonda personalità continuativa, e sinceramente ne accogliamo l’ispirazione, troveremo la sola coerenza che un uomo politico debba a se stesso e alla parte nella quale milita. La sola coerenza vera e degna si trova nel carattere“. Simile eletta ispirazione morale fa dell’uomo politico un educatore che col suo esempio offre alle masse un modello di condotta sempre diretta da una profonda coscienza di responsabilità. “Noi abbiamo proclamava Turati al Congresso di Roma del 1918 un solo dovere, un dovere d’altronde assai più facile clic non sia il dare la vita per il proprio ideale: non mentire a noi stessi, non ricevere comandi che dalla nostra coscienza; sempre, di fronte alla folla che ci applaude, che ci lusinga, che ci spingerebbe a non esser noi, esser sempre sinceri. Altrimenti non siamo più un partito d’avvenire, siamo un partito decrepito, corrotto, disfatto come tutti gli altri. Ebbene, io voglio poter morire proclamando che a questi dogmi ed indizi della corruzione del mio partito io non ho dato mai il minimo contributo o consenso. Mai!“. La propaganda socialista doveva per ciò essere sopra tutto una educazione costante dello masse proletario, che lo abilitasse alla azione politica di trasformazione della struttura sociale. Contro le concezioni sindacaliste e massimalistica, che del pari vedevano nell’infatuazione del mito rivoluzionario l’unica preparazione occorrente al proletariato – una preparazione del tutto negativa, di opposizione all’organizzazione esistente per farla crollare – Turati concepiva ed affermava la necessità di un’educazione positiva da compiere in una continua creazione costruttiva di nuove forme, di nuovi rapporti, di nuove istituzioni, in cui non solo si andasse modificando la società, oggettivamente, ma si formasse la preparazione soggettiva alla gestione sociale, con l’educazione delle coscienze, con l’orientazione delle volontà, delle esigenze, delle norme di condotta. Da ciò era sorta in lui, già dai primi anni della sua partecipazione al movimento socialista, l’esigenza di un programma minimo, che si formasse via via, progressivamente, dalle rivendicazioni più urgenti ed immediate, rappresentanti avviamenti verso conquiste …

LONDRA, ECCO IL 2018 DI JEREMY CORBYN

di Carlo Patrignani Fedele all’assunto la politica è la nostra vita, Jeremy Corbyn, forte del diffusissimo consenso dei Millennials, sicuro che la speranza di una nuova Gran Bretagna, gestita nell’interesse dei molti, non dei pochi, è più vicina che mai, ha, con toni determinati, spronato gli inglesi: together we can, and we will, deliver it, insieme possiamo, e lo vogliamo, farla nascere. E la prospettiva di una new Britain non è affatto una chimera: poggia sul dato inoppugnabile dello stato di salute del Labour Party che da mesi, da quando alle elezioni generali di giugno 2017 ha conquistato la percentuale del 40% dei consensi, sta guidando il governo in attesa [a government in waiting] ossia il prossimo del 2018 se, come probabile, si andrà a elezioni anticipate per le enormi difficoltà della lady Tory Theresa May. E’ stato questo, in sintesi, il messaggio video per il nuovo anno del leader laburista accolto con entusiasmo dai molti che gravitano attorno al vecchio signore che ha saputo, nel corso del 2017, non solo arrestare il declino del Labour dopo le gestioni poco brillanti di Tony Blair e Gordon Brown, ma infondere una grande speranza di cambiamento e soprattutto tra i giovani. Nel 2017 abbiamo detto: un’alternativa c’è e milioni di persone hanno aderito alla nostra causa, ha ricordato il pacifista ante-litteram ed è stato premiato: nel 2018 la missione del Labour, dato che il vecchio consenso politico è finito, sarà di occupare il nuovo centro nella politica britannica, ha proseguito Corbyn per poter dare al nostro popolo sostegno e sicurezza, usare il proprio talento, liberare la propria creatività e realizzare le proprie speranze. Il pensiero di Corbyn è, dunque, al popolo, alle persone, alle donne e ai giovani: e il senso di quel guidare il governo in attesa ne è la conseguenza ovvia e diretta anche perchè – ha osservato acutamente il possibile Prime Minister di 10 Dowining Street – i conservatori sono deboli, divisi e senza nuove idee e lo stesso establishment è fuori campo: non sono così forti come appaiono, non hanno idea di come sistemare il sistema rotto e aggiornare la nostra economia stagnante. Sobrio, ciclista dalla barba incolta e dall’abbigliamento normcore, il parlamentare più ribelle del Labour per aver sfidato i dirigenti del partito più di 500 volte, a cominciare da Blair responsabile della guerra in Iraq, Corbyn ha l’obiettivo ambizioso di realizzare, qui ed ora, il Socialismo del XXI° rinverdendo quello d’antan con i suoi valori fondanti sempre attuali di uguaglianza, libertà, giustizia sociale, qualità della vita, pacifismo e internaziolismo. Fonte: affaritaliani.it SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

LA GRANDEZZA DI FILIPPO TURATI

di Giuseppe Saragat Discorso pronunciato nel 1957, in occasione del centenario della nascita, pubblicato nel libro “Filippo Turati – scritti e discorsi (1878 – 1932)” Editore Guanta – 1982 Pensare a Turati nel centenario della sua nascita, che coincide con eventi straordinari in un mondo lanciato verso un destino più misterioso di quello del satellite artificiale che oggi lo sorvola, è come immergersi in un’atmosfera limpida e serena che ci restituisce il senso dei valore imperituri della vita. Turati è stato per la mia generazione e per quella che l’ha preceduta, la personificazione vivente e respirante dell’onestà intellettuale, del coraggio morale, dell’intelligenza e dell’umanità. I principi che reggevano la sua vita e facevano di lui un maestro dell’azione erano quelli che tutti gli uomini onesti fanno propri, solo che in lui splendevano di una luce più viva, perché portati più in alto. La sua vita fu tutto un apostolato in difesa della classe lavoratrice, della giustizia e della libertà. Un suo allievo ebbe a dire che la sua figura fisica, morale, intellettuale e politica aveva lineamenti così decisi, che pochi tratti bastavano per abbozzarne un profilo somigliante. Chi ha avuto la fortuna di conoscere Filippo Turati ha potuto comprendere qual è la natura dei valori umani, che distinguono gli uomini veramente grandi dagli altri. Tutti i suoi sentimenti ci erano familiari, nulla in lui ci era estraneo, eppure tutto si dilatava in lui in proporzioni che davano ai sentimenti più comuni qualcosa di solenne e di esemplare. Era questa vastità del suo volume umano che ci colpiva con forza irresistibile e ce lo faceva amare come un capo indiscusso, come un maestro di vita. Niente c’era in lui di aulico. “La sua andatura semplice e frettolosa di brav’uomo che ha tante cose da fare e che non ha proprio il tempo, e tanto meno l’intenzione, di atteggiarsi a grand’uomo” – come la vide un suo discepolo – era l’espressione fedele della sua innata semplicità. Ma, di fronte a quegli occhi che Treves vide come quelli di un fauno buono, dove l’ironia sprizzava piena di pathos, piena del tragico umano, allora ci sentivamo commossi e travolti da un senso di devozione filiale. Da questa sua umanità profonda derivava la sua potenza oratoria, enorme potenza, come disse Treves, che trattava il dolore, l’eroismo, il sacrificio come materia solida, e ne faceva zampillare tutto lo spirituale. Da dove veniva quest’uomo? Qual è stato il significato della sua azione e perché oggi noi socialisti democratici italiani lo veneriamo più che mai come il Maestro dei Maestri? Turati, nato a Canzo nel 1857, aveva ereditato tutti gli impulsi morali, di cui fu fervido il Risorgimento nazionale. Gli ideali del Risorgimento erano ormai realizzati, ma nei giovani generosi gli impulsi morali permanevano, tesi verso compiti e doveri nuovi. Quale dovere nuovo poteva con maggior forza assalire la coscienza di un giovane intelligente, colto, generoso, se non quello della lotta per l’emancipazione delle classi povere? Il Risorgimento lasciava dietro di sé immensi compiti da risolvere, tremendi problemi insoluti, e, primo tra tutti, quello della secolare miseria. Ancor oggi questo problema domina la scena sociale della nostra Patria. Turati intuì per primo che la classe lavoratrice non avrebbe potuto affrontare le sue lotte senza un partito politico, ispirato ai principi del socialismo e della libertà. Turati è stato il protagonista della lunga lotta, che portò, verso l’ultimo decennio dell’altro secolo, alla fondazione del partito della classe lavoratrice. A quest’opera insigne egli si accinse con entusiasmo romantico e con una lucida e razionale visione delle cose. Le sue origini culturali lo portavano infatti al di là degli impeti lirici di un’anima piena di pathos, verso una concezione positiva della vita sociale, e questa concezione era arricchita dalla viva corrente del pensiero marxista. È stato detto che Turati non era marxista, perché gli sarebbero sfuggite le premesse dialettiche di quella filosofia. Se il marxismo è – come io credo – nella sua essenza sintesi di pensiero liberatore con azione liberatrice, e se la dialettica si risolve nella raffigurazione logica di questo processo, che è tutt’uno con lo svolgersi degli eventi umani, ossia con la storia, nessuno fu più marxista di Turati. Certo, il suo istintivo buon senso e la sua profonda umanità lo portavano a respingere, ancor meglio, a escludere dal suo pensiero quella grottesca caricatura della dialettica, la quale ha imperversato e ancora imperversa tra gli interpreti totalitari del marxismo. Tale assurda dialettica riduce tutti i problemi della storia ad una meccanica sequenza di tesi, antitesi e sintesi, che pare fatta apposta per fornire ai violenti ed ai tiranni lo strumento logico per giustificare i loro diritti. Il suo marxismo, che ha trovato un’alta sistemazione teorica nell’opera del suo illustre allievo, Rodolfo Mondolfo, presiedette alla creazione del primo partito della classe lavoratrice italiana. Nel 1892, vincendo le resistenze corporativistiche e gli infantilismi bakuniniani, il nuovo partito sorgeva, ancorato ai principi fondamentali della coscienza di classe e della libertà umana. Fin da allora però il partito fu insidiato dalla tendenza centrifuga di questi due ideali, che solo una profonda coscienza socialista può mantenere in un’armonica unità. V’erano coloro che intendevano il socialismo un puro atto di ribellione contro la società esistente, e da questa convinzione deducevano conseguenze volontaristiche, rivoluzionane, giacobine. Per costoro la violenza, più che la grande “levatrice” era la grande generatrice della storia. Per Turati il socialismo appariva come il processo di liberazione della società umana da tutte le limitazioni che la immiseriscono, come il processo di creazione di una società in cui tutti i valori dell’uomo potranno spiegarsi nella loro pienezza. Turati, in altri termini, anticipava nella sua coscienza la visione del mondo nuovo, che le lotte di classe dovevano creare. La lotta di classe, nell’atto stesso in cui s’urtava contro il mondo esistente, si nobilitava di quegli ideali che dovevano essere realizzati. Turati e i suoi discepoli portavano nella lotta non soltanto la tensione dell’urto momentaneo, ma soprattutto la visione dei fini per cui la lotta era necessaria; la violenza appariva quindi a costoro inadeguata …