di Viviana Simonelli
Nel 1983 in occasione del 50°anniversario della morte di Filippo Turati, Leo Valiani così definisce il leader indiscusso del pensiero socialista, e uno dei fondatori a Genova del Partito dei lavoratori italiani (1892): “Turati era una testa pensante, ma non era solo una testa pensante, in lui parlava anche, oltre al cervello politico, il cuore, il cuore del socialista. Per valutare esattamente la posizione di Turati durante la prima guerra mondiale, bisogna sempre avere presente il Turati cervello politico e il Turati cuore socialista umanitario che detestava lo spargimento di sangue e considerava fratelli i popoli”.
Tuttavia, scrive Valiani, quando il conflitto europeo scoppiò, nel 1914, l’Internazionale Socialista si frantumò immediatamente. Tutti i partiti socialisti europei legali, che operavano in paesi costituzionali e avevano una rappresentanza parlamentare, votarono, coi loro deputati, i crediti militari. Il Partito Socialista Italiano prese, invece, una posizione diversa dall’inizio alla fine dell’intervento italiano. Sorge qui il problema di come mai il Partito Socialista Italiano si differenziò dal resto dell’Internazionale. Certo, le ragioni sono molteplici e adesso cercherò di illustrarle, ma vorrei dire che sicuramente una delle caratteristiche del pacifismo del Psi., della sua opposizione alla guerra, la troviamo nella testa pensante e nel cuore di Filippo Turati.
Di sicuro dobbiamo ricordarci che l’Italia non era stata aggredita e che, alleata degli Imperi centrali dal 1882, sarebbe stata costretta ad intervenire dalla parte tedesca e austro-ungarica. Precisa Valiani a questo proposito “Questo, il governo italiano, lo evitò, con l’avallo di tutte le forze politiche italiane al di fuori dei nazionalisti che poi saranno i più fieri fautori dell’intervento a favore dell’Intesa occidentale, ma che nel luglio-agosto 1914 volevano l’intervento a favore della Germania, perché volevano la guerra purchessia. L’infausto evento non si verificò, il governo dichiarò la propria neutralità”.
Ma poiché il trattato era di natura difensiva, un attacco austriaco alla Serbia, rendeva comunque l’Italia libera di non intervenire. Tuttavia – scrive Valiani – questo stesso trattato della Triplice Alleanza conteneva un articolo, l’articolo 7, che assicurava all’Italia dei compensi da parte dell’ Austria Ungheria, ove l’Austria-Ungheria avesse allargato la sua sfera di influenza nei Balcani, il che stava avvenendo con l’invasione della Serbia. Questo i socialisti lo vedevano e ciò va a loro onore. E fu Turati a vedere con maggiore chiarezza il problema. Per il resto il Partito socialista era viceversa diviso. Infatti la tesi socialista dichiarava una precisa incompatibilità etica tra neutralità dichiarata e compenso di crediti territoriali.
Queste le parole di Valiani: Turati interpretava più fedelmente della direzione del partito lo stato d’animo, i desideri, le volontà delle masse socialiste, e questo del resto è provato dal fatto che non solo egli aveva la maggioranza tra gli elettori socialisti rispetto agli intransigenti massimalisti, ma aveva la maggioranza anche nelle organizzazioni sindacali operaie, quelle organizzazioni che più direttamente rappresentavano le masse, poiché le raggruppavano sul terreno economico di classe. La Confederazione Generale del Lavoro e quasi tutte le grandi federazioni sindacali erano dirette da riformisti che vedevano in Turati il loro vero capo. Da questo punto di vista Turati si trovava in una situazione contraddittoria perché messo costantemente in minoranza dalla direzione che dettava la politica al partito, e la dettava al gruppo parlamentare, e la dettava, attraverso un patto di alleanza, in parte anche alla Confederazione Generale del Lavoro, sapeva invece di essere una maggioranza fra le masse organizzate sindacalmente e fra gli elettori. Di questa sua posizione Turati era consapevole, era però anche profondamente attaccato all’unità del partito. Pensava che il Partito Socialista era meglio che fosse unito con una politica sbagliata che diviso con un politica giusta. Avesse ragione o no su questo la cosa è discutibile e noi non possiamo risolvere a posteriori i problemi che allora non furono risolti. Certo, la scissione sopraggiunse nel 1921-22 e si può dire che Turati aveva torto ad aspettare fino alla vittoria fascista nel ’22.
Ciò che più colpisce in questo intervento di Leo valiani, è la sua considerazione sul forte attaccamento di Turati all’unità del Partito. Infatti così continua:”La possibilità di impedire l’intervento italiano esisteva, perché contrario all’intervento non era solo il Partito Socialista. Intanto, sul piano delle masse contrarie all’intervento, oltre alle masse socialiste, erano le masse cattoliche. Il Vaticano per primo era contrario all’intervento, per motivi naturalmente molto diversi da quelli dei socialisti. La posizione di Giolitti era contraddittoria, mentre quella di Turati era lineare, ma Turati disponeva soltanto di 52 deputati socialisti e, per di più, non era libero di svolgere l’azione politica che desiderava, perché la direzione del partito lo inchiodava non solo all’opposizione alla guerra, sul che c’era l’accordo, ma all’opposizione a qualsiasi governo, anche ad un governo che avesse tenuto l’Italia fuori dal conflitto o a conflitto iniziato l’avesse portata ad una pace negoziata. Questo rendeva sterile la posizione pur giusta del Partito Socialista di opposizione alla guerra, rendendola a priori confinata nella mera protesta. Nessun governo, anche se coincidente nell’azione politica con il Partito Socialista, poteva essere appoggiato da esso, per ragioni di intransigenza di classe. Turati, invece, era del parere che si dovesse appoggiare il governo, se teneva l’Italia fuori dal conflitto, senza però legarsi agli Imperi centrali, accettando per l’appunto dei compensi territoriali.”
Scrive ancora Valiani: ” Il fatto più clamoroso fu quello della conversione all’interventismo del capo della frazione rivoluzionaria, il direttore dell'”Avanti!”, Mussolini”. D’altra parte Giolitti stesso, che aveva la maggioranza in Parlamento, ed era contrario all’intervento italiano, non voleva in quella congiuntura un accordo neppure con i socialisti di Turati. Dal momento che desiderava avere dei compensi, cioè il Trentino o altra cosa, che l’Austria fosse stata disposta a cedere. Giolitti non voleva più compromettersi con un partito che anche nella sua versione più democratica, quella di Turati, rifiutava tutti i compensi e voleva che l’Italia rimanesse con le mani libere, con le mani nette. Aveva ragione Turati, perché la posizione di Giolitti lo portava all’impotenza. Giolitti aveva la maggioranza in parlamento, e avrebbe quindi potuto impedire l’ingresso in guerra e rovesciare il governo di Salandra in qualsiasi momento, durante gli 8 mesi della neutralità italiana, dall’agosto del 14 al maggio del 15. Ma Giolitti non rovesciò il governo, per non indebolirlo nelle trattative con l’Austria per eventuali compensi. E allora, si chiede Valiani- quale fu l’errore che commise Turati in questa circostanza così delicata della storia nazionale?
Una risposta possibile la si può ricavare dall’analisi della nutrita corrispondenza tra Anna Kuliscioff e Turati,che è stata raccolta da Alessandro Schiavi. Queste le parole di Valiani a riguardo: “La Kuliscioff premeva continuamente su Turati perché considerasse la estrema difficoltà ed anche in questo aveva ragione, di tenere l’Italia fuori dalla guerra, in una guerra che ormai era europea e sarebbe diventata più tardi guerra mondiale. Il ragionamento di Turati fu il ragionamento del cervello. In questo caso il cuore militava, in realtà, in favore dell’intervento a favore della Francia e del Belgio perché paesi molto più democratici, invasi e calpestati dal militarismo prussiano. Turati stesso non nascondeva le sue simpatie per la Francia repubblicana, e democratica, per il Belgio democratico brutalmente sopraffatto dal militarismo prussiano. Però, ecco la sua obiezione: “La tua ossessione – scriveva Turati alla Kuliscioff – sta in questo: il credere che la guerra possa salvarci o difenderci. La guerra è come la malattia, può uccidere, può indebolire e niente altro e non ci farà ne più ricchi ne più saggi ne più produttivi ne più liberi; ne più onesti ne più felici di quello che siamo. Perché mai dovremmo applicare alla politica estera criteri tanto diversi, da quelli che abbiamo adottato per la politica interna, rifiutando una rivoluzione immatura o la rivolta violenta“.
Era un ragionamento di buon senso, che si trovava in accordo con il sentimento delle masse socialiste, cattoliche e poi di tutta la vasta cerchia dell’opinione che non era né socialista, né cattolica, ma appunto giolittiana e che riteneva che l’intervento in guerra di un paese non attrezzato neanche militarmente nella stessa misura – delle grandi potenze che scendevano in campo, Inghilterra, Francia, Russia e Usa, fosse molto rischioso e minacciasse di far crollare lo stato liberale che appena si stava democratizzando, in Italia. Le ragioni dell’intervento erano d’altra parte pressanti anch’esse. Il buon senso sarebbe prevalso, pensava Turati e così rifiutò l’unica arma che forse poteva far valere per lo meno il peso dei socialisti: uno sciopero generale contro la guerra. I massimalisti, nella loro proposta di uno sciopero generale contro la guerra forse non avevano tutti i torti. La situazione internazionale sembrava favorire quel massimalismo che egli aveva sempre combattuto perché contraddetto dalla reale situazione italiana. La situazione internazionale stessa era però complessa. Se da un lato c’era il mito di Lenin, dall’altro lato, nello stesso periodo, sorgeva il mito di Wilson, il presidente degli Stati Uniti, il cui intervento in guerra avrebbe poi deciso le sorti del conflitto.
L’errore di Turati per Valiani fu proprio quello della non tempestività: “Turati aveva più cervello e più cuore di tutti, non brillava, sempre per tempestività. Non tutti abbiamo le stesse doti. Infatti, quando Francesco Saverio Nitti sale al governo chiama i socialisti,:” Turati, che pur li vorrebbe, non è in grado di portargli l’adesione del Partito Socialista. Una tragedia! Quest’uomo così chiaroveggente, con una politica che non era per niente utopistica come quella della sinistra del Partito Socialista, ma era realistica, adatta alle condizioni italiane ed era anche immune dalla temporanea integrazione nell’ondata nazionalista. Turati insomma, non riesce a portare il suo Partito al suo approdo naturale. E devo dire che mi tocca fare una critica anche a me stesso. Questa amara lezione che aprì poi la strada al fascismo, dal mancato ingresso cioè del partito socialista, con Turati in testa, nel governo Nitti. fu uno degli elementi che mossero Saragat nel secondo dopoguerra, io appoggiavo Saragat subito dopo la scissione di Palazzo Barberini, che era una ribellione alla stalinizzazione del partito socialista, non chiudere gli occhi davanti alla dittatura totalitaria che l’Urss imponeva all’Europa centro-orientale, mettendo poi fuori legge, un anno o due anni dopo, tutti i partiti socialisti“.
Ciò che si rimprovera Valiani è invece non aver creduto che un governo insieme alla Democrazia cristiana avrebbe potuto orientarsi verso sinistra e così scrive: Invece, mi lasciò perplesso, con molti di coloro che erano andati con Saragat – io non ero in quel partito, ero nel Partito d’Azione, ma nel Partito d’Azione propugnavo le tesi di Saragat – insomma coi Silone, Zagari, Vassalli, Matteotti, la conclusione che Saragat trasse dalla formazione del partito che si opponeva alla stalinizzazione del movimento operaio italiano; la conclusione cioè che bisognava andare al governo con De Gasperi. Ci lasciava dubbiosi perché Saragat andava al governo in condizioni più difficili di quelle in cui Turati sarebbe potuto andare ove avesse deciso di scindersi dai massimalisti nel ’19 o nel ’20. Turati in quel momento sarebbe andato al governo con Nitti o Giolitti, cioè con uomini di sinistra democratica borghese, ma sempre sinistra laica democratica, mentre le condizioni imponevano a Saragat di andare al governo, in un governo di centro, con la Democrazia Cristiana che aveva l’egemonia e se era in prospettiva un partito di centro che si muoveva a sinistra, come diceva De Gasperi, fondamentalmente era, in quel momento, un partito ancora di centro conservatore. Tuttavia la politica di Saragat, che noi stessi mettevamo in dubbio non nella prima sua fase di affermazione dell’autonomia socialista nei confronti dello stalinismo, ma nella seconda fase di ingresso nel governo di De Gasperi, è stata convalidata dagli eventi, non certo in ogni questione, ma nelle sue linee generali. Saragat ha evitato quella grave involuzione verso destra che noi temevamo.
Possiamo dunque parlare di una linea Turati – Saragat, il che non significa annettere Turati al partito socialdemocratico. Turati rimane come tutti gli uomini di rilievo storico nella realtà del suo tempo. Termina Valiani il suo saggio con queste considerazioni: “Non possiamo annetterlo a nessun partito, però dobbiamo dire che la linea ideologica e politica di Turati fu portata alle sue logiche conseguenze, e direi anche a evitare quel peggio che Turati voleva fosse evitato, da Saragat. Il dramma di Turati, la sua grande sofferenza, di avere una visione chiara, ma di non essere riuscito a farla prevalere nel partito socialista, pur riuscendo a farla prevalere – cosa che oggi non accade – nel movimento operaio sindacale, è stato riscattato da un uomo che egli conobbe, all’ultimo congresso del suo partito, nel 1925. Saragat, questo ce l’ha raccontato a Milano nella commemorazione di Turati, a quel congresso del ’25, quasi clandestino, del Partito socialista unitario, conobbe Turati e poi raccolse l’eredità di Turati nella lotta contro il fascismo, in Italia ed in esilio”.
Fonte: l’Ossimoro
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