*Stefano Rolando: un ricordo di Sandro Pertini
Faccio questo intervento pensando a tanti ragazzi, oggi, che pensano che la politica, la storia, il bene comune, siano valori da non disprezzare. Ce ne sono ancora. Come ce ne sono stati nel passato. E a tutti – come successe a me – questa tensione può riservare straordinarie sorprese.
Poteva succedere nel nostro paese – forse una volta più piccolo, più coeso, più legato da valori fondanti – che un ragazzo di sedici anni, gemello della Costituzione, già appassionato di politica e di storia, direttore del giornaletto degli studenti del suo liceo (foglio nato negli anni della Resistenza), si imbattesse – a Milano – in un mito delle battaglie per la democrazia e la libertà. Un mito a cui dare del tu, a cui fare domande, con cui intavolare un dialogo non retorico, con chiarificazioni sul passato e il presente. Un mito parlante, autorevole, disposto a dialogare. Che disse: “e adesso vienimi a trovare a Roma!”.
Poteva succedere. Dalla trepidante visita alla Camera dei Deputati, di cui era vice-presidente e in cui disponeva di uno studio-alloggio allestito con fantasioso disordine dalla Carla – una visita a Montecitorio vissuta la prima volta con lo spirito della “religione della patria” – al giorno della sua scomparsa, quel legame non venne mai meno. Attraversando le due straordinarie esperienze di Sandro Pertini alla presidenza della Camera e alla presidenza della Repubblica, in tante forme di assistentato, viaggi, festività trascorse in casa e in famiglia, occasioni di scrittura e tante, tante domande sempre con una risposta, sempre senza l’imbarazzo dei alcuna diplomazia. Fino al giorno del’estremo congedo. Un giorno speciale – il 28 febbraio 1990 – con Carla Pertini che stringeva al petto un’urna che conteneva non tanto cenere quanto la vita di un eroe, di un patriota, di uno statista, di un marito e che raccontava ai presenti e all’Italia che la realtà e i simboli possono incrociarsi non solo per vendere merci ma anche per sorreggere memoria, identità e valori. A Stella San Giovanni – nell’aspra altura ligure, somigliante al carattere del suo illustre figlio – quel congedo si caricò di impegni. Difficili da rispettare. Perché difficile è la testimonianza civile di questi tempi.
Questo il mio rapporto con Pertini socialista (che mi ha mosso a vivere questa esperienza dal 1976 al 1985, quando chiamato da Giuliano Amato come direttore generale a Palazzo Chigi ritenni non compatibile il ruolo di funzionario dello Stato con l’appartenenza a un partito), con Pertini presidente e – in tante occasioni – con Pertini uomo e maestro. Sono fiero – tra le tante esperienze – di avere consentito la raccolta di tutti i suoi discorsi da presidente della Camera e della Repubblica in due volumi editi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri che ebbero in Norberto Bobbio un efficace e illuminante presentatore alla prima edizione del Salone del Libro a Torino.
Della fortuna di questa amicizia feci un cenno in un libro scritto nel 2008 e che si intitolava “Quarantotto” (una data di nascita ma anche una metafora di carattere) e dove ho raccolto anche alcuni episodi di vita e testimonianze storiche (tra cui quella della Liberazione di Milano).
“Il bilancio della mia generazione – quella dei ventenni nel sessantotto – non è tutto positivo, molti hanno trasgredito rispetto ai doni ricevuti, molti hanno rinunciato ai valori di una educazione civile, molti hanno barattato la loro irrequietezza con la violenza, con gli affari, con l’ambiguità. Chi ha avuto la fortuna di maestri di etica pubblica ha avuto il sentiero più tracciato e ha avuto la possibilità forse di una maggiore coerenza per la quale non ha da vantarsi ma da ringraziare”.
Limito qui ad alcune citazioni il ricordo della sua figura.
Della lotta contro il regime fascista e poi di liberazione Sandro Pertini, come si è già detto, è stato uno dei protagonisti principali. Non tanto un teorico, un intellettuale, un ideologo.
Ma – nella prosecuzione del modello risorgimentale – un combattente che, grazie alla credibilità acquisita, si è trasformato in paradigma, in esempio, in metafora educativa. Complessivamente 18 anni tra esilio, arresti, galera e confino. Come intitolava un bellissimo libro di Vico Faggi – quasi una sceneggiatura teatrale costruita su documenti giudiziari e di polizia – pubblicato nel 1970 da Mondadori con prefazione di Saragat, Sei condanne e due evasioni, una gioventù consacrata al principio di rivolta contro la confisca della libertà e della democrazia in Italia di un giovane borghese, avvocato di buone maniere e di perenne eleganza, non testa calda ma coerente testimone dell’idea turatiana – dunque pacificamente riformista ma anche indomabilmente ribelle se conculcata – della sua adesione giovanile al socialismo. Un combattente, per mostrare alla sua generazione quello che avevano cercato di dimostrare i Mille di Garibaldi o i Trecento di Pisacane: yes we can.
La lunga motivazione della Medaglia d’oro al Valor Militare concessa a Pertini per la lotta di liberazione dice nelle due righe conclusive:
Uomo di tempra eccezionale, sempre presente in ogni parte d’Italia ove si impugnassero le armi contro l’invasore. La sua opera di combattente audacissimo della resistenza gli assegnava uno dei posti più alti e lo rende meritevole della gratitudine nazionale nella schiera dei protagonisti del secondo Risorgimento d’Italia.
Le tre citazioni che ho scelto sono molto limitative. Ma anche molto indicative.
– la formazione turatiana
– la difesa della Costituzione
– l’etica pubblica
La formazione socialista-turatiana.
In esilio a Nizza, come muratore (ma al momento disoccupato perché licenziato a seguito di un processo per avere insultato per strada a Nizza un fascista di Savona), scrive a Filippo Turati (a cui dava del lei, chiamandolo Maestro):
Da un anno – Maestro – sono in esilio e ogni buona e alta speranza che qui con me avevo portata va oggi morendo nel mio cuore. Mi guardo attorno e non vedo che poveri naufraghi, che ancora non si sono riavuti dal primo sgomento o peggio vedo dei piccoli uomini che sembrano solo preoccuparsi di miserie e non pensano alla tragedia (e questa volta la parola non sa di vana rettorica, purtroppo!) che sovrasta su tutti noi, sulla nostra Patria. Pensano alla carica, ai pettegolezzi, alle “beghe” – agli ordini del giorno – e a cento altre miserie. Altri – poi più pratici hanno pensato di trasformare l’esilio in un buon commerci e così attendono beatamente la fine di questa situazione piena di dolore e di vergogna , pensando che l’alone di …comodo martirio, che si va formando intorno alla loro persona,costituirà domani un’ottima cambiale da presentare agli elettori tornati…finalmente liberi!.
Il percorso dalla Costituzione alla difesa della Costituzione.
Le parole della fine degli anni quaranta sono di battaglia politica e sociale, non di apologia delle recenti conquiste. La Costituzione è la sintesi di quei valori. Ma non basta ciò che è scritto sulla carta. Scrive sull’Avanti! (Non questa Repubblica) il 2 giugno 1949:
Non certo questa repubblica pensò Giuseppe Mazzini, che dopo essere stato esule anche in Patria vede oggi onorata la sua memoria con un monumento sul colle dell’Aventino. Egli voleva una repubblica laica e questa non è che una repubblica confessionale; voleva una repubblica a carattere profondamente sociale, in cui scomparisse il privilegio e su di esso trionfassero le forze del lavoro; in questa repubblica, invece, domina ancora e più prepotentemente che mai il privilegio: i ricchi sono sempre ricchi, più ricchi di prima; i poveri sono sempre poveri, più poveri di prima. Voleva egli una repubblica sostanzialmente democratica e questa è democratica solo nelle forme perché in essa le libertà politiche, non sorrette da alcuna giustizia sociale, vanno risolvendosi in un beneficio per una minoranza e in una beffa per milioni di lavoratori.
Il presidente dell’Italia dell’etica pubblica.
Dal messaggio di fine anno agli italiani (31 dicembre 1980):
Bisogna essere degni del popolo italiano. Non è degno di questo popolo colui che compie atti di disonestà e deve essere colpito senza alcuna considerazione. Guai se qualcuno per amicizia o per solidarietà di partito dovesse sostenere questi corrotti e difenderli. In questo caso la solidarietà, l’amicizia di partito diventa complicità e omertà. Deve essere dato, ripeto il bando a questi disonesti e a questi corrotti che offendono il popolo italiano. Offendono i milioni e milioni di italiani che pur di vivere onesti impongono gravi sacrifici a se stessi e alle loro famiglie.
E per concludere le citazioni, ora una citazione su di lui. Proprio di Norberto Bobbio.
Sul tema del modello di fare politica e di assumere le responsabilità nelle istituzioni.
Così lo descrive Norberto Bobbio, il maggiore teorico italiano della coniugazione filosofica e politica della libertà come pietra fondativa del rapporto tra istituzioni e società. Insieme a Carla Pertini e a mia moglie Renata andammo nel 1992 a casa di Norberto Bobbio a Torino per poi recarci al Salone del Libro al Lingotto per presentare i due volumi degli Scritti e Discorsi (parlamentari e istituzionali) di Sandro Pertini davanti ad un commosso pubblico. Così il senatore a vita (nominato nel ruolo dal presidente Pertini nel 1984) cominciò il suo discorso:
Se dovessi definire con una parola il carattere di Sandro Pertini, la cercherei nel vecchio catalogo delle nobili virtù. Forse la parola più giusta è fierezza. Leggendo i suoi Scritti e discorsi, accade di leggere: “Io sono stato fiero e orgoglioso…”, “ con fierezza e tenacia…”. Rivolgendosi ai giovani: “ Se voi volete vivere fieramente…”. Fierezza, virtù dell’uomo libero, che va dritto per la sua strada, non guarda in faccia a nessuno, incurante degli ostacoli che gli sbarrano la via, perché convinto di essere su quella giusta. Fierezza è anche consapevolezza della propria dignità, ma senza eccessivo compiacimento di sé, che è orgoglio, se senza ostentazione , che è alterezza. Tenere, come si dice, la testa alta, non piegarsi ai potenti. Il contrario della pusillanimità e della volgarità.
In conclusione di questa testimonianza vorrei ricordare tre episodi.
Tre episodi in cui essere stato testimone oculare mi rende convinto che le cosiddette “gaffes” possono avere straordinario contenuto comunicativo se la personalità di chi le fa ne spiega ancor meglio l’umanità, il carattere, lo spirito.
Madrid, viaggio di Stato del Presidente Pertini all’inizio del settennato accolto all’aeroporto da re Juan Carlos (tornerà a Madrid nella famosa finale dei mondiali del 1982, ancora accanto a re Juan Carlos) e con protocollo di rigido silenzio davanti ai giornalisti che assiepavano il padiglione d’onore. Al braccio del re – rara usanza per Pertini – davanti ai giornalisti, il presidente si ferma di botto. Guarda la stampa, sorride e dice: “Questo giovanotto è un mio amico…”. Qui Maccanico ebbe un trasalimento. Pertini continua: “Perché senza far spargere una goccia di sangue, ha preso il suo paese dal franchismo e lo ha portato… nella Repubblica!”. Boato dei giornalisti – che sapevano tutti che la Spagna era una monarchia. Ma era chiara l’intenzione, voleva dire “democrazia”. Persino il re sorrise e le prime pagine dei media spagnoli furono tutte per lui.
Parigi, viaggio di Stato su invito del presidente François Mitterrand. Grandi onori per l’ospite socialista, esule in Francia, antifascista. Ma Pertini accetta anche l’invito con pari e parallelo protocollo del sindaco di Parigi, Jacques Chirac. E quando arriva all’Hotel de Ville è Chirac ad aprire la porta dell’auto e a concedere il braccio all’anziano presidente italiano. Anche qui rara usanza. Arrivati nella hall il grande cerimoniere comincia un lungo discorso. “Monsieur le President, on est très heureux de Vous recevoir ici dans le temple de la Révolution française…”. Va avanti e Pertini si stufa. E va verso i regali. Il Quirinale aveva pensato a una grande stampa del palazzo dell ‘700 in una bella cornice con vista di sguincio sulla dataria. L’Hotel de Ville aveva puntato su una piccola coppetta bianca di antico Baccarat. A Pertini piacevano i quadri e tira dritto sulla grande cornice. “Merci pour cette belle gravure, parce que j’adore les gravures…”. A Chirac non restò che prendersi la sua stessa coppetta di Baccarat e ringraziare molto per quello splendido regalo. Sergio Lepri, direttore dell’Ansa, accanto a me e a un metro da Pertini disse: “Sono un giornalista ma anche un fedele suddito. Non la racconterò”. La racconto io adesso.
Milano. Il terzo e conclusivo ricordo non è una gaffe, è tutto Pertini. Magnifica serata alla Scala ma lunga e quindi faticosa per tre ore di Wagner. Quando entrò tutto il pubblico, come una vampata, si alzò in piedi senza mai smettere di applaudire. Grande emozione. Ma quando uscì la piazza di era riempita di operai della Marelli di Sesto in sciopero. Il cerimoniale cercava di impedire l’uscita frontale. Un funzionario – non so se del Comune o del Teatro – sbarrò la porta pregando il presidente di deviare verso sinistra. “Giovanotto io non so chi sia lei, io sono il presidente della Repubblica!”. E – quasi una scena surreale – uscì da solo, attraversò i binari, e puntò dritto al cuore della manifestazione tumultuante. Gridò “Chi è il capo qui?”. E a chi rispose parandosi davanti disse: “Capisco la vostra situazione, ma ora è tardi e ne dobbiamo parlare seriamente. Sciogliete la piazza. L’appuntamento è domattina alle 9 in Prefettura”. Wooooo! Fu un lampo. Nel silenzio piazza della Scala si svuotò come il vecchio capo partigiano aveva chiesto. L’appuntamento il giorno dopo in prefettura sarebbe stato onorato.
*Stefano Rolando Professore alla Università IULM Milano
Fonte: Ossimoro
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