PROBLEMI POLITICI ED ISTITUZIONALI DOPO IL VOTO DEL 4 MARZO

di Felice Besostri

Il voto del 4 marzo ha terremotato gli schemi interpretativi del sistema politico italiano prevalenti dopo le elezioni del 2013, come tomba del bipolarismo per un tripolarismo costituito dal PD e alleati, FI e associati e dal M5S, subito ma non accettato. Ne sono dimostrazione le leggi elettorali approvate da un Parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale e pertanto incapace di fare una legge elettorale, che la rispettasse. I parlamentari non si sono accontentati di essersi salvati per l’inerzia di un Presidente, cui faceva comodo un Parlamento in permanente servizio provvisorio e perciò non più al centro dell’ordinamento disegnato dalla Costituzione.

Hanno voluto mettersi nella stragrande maggioranza, ancorché artificiale, al servizio dell’esecutivo per deformare la Costituzione con un ddl costituzionale, espressamente autorizzato ex art,. 87 c.4 Cost. dal Presidente in carica. Questo Parlamento è stato in grado di non tenere in conto delle sentenze della Corte Costituzionale non solo dei principi affermati nelle decisioni in materia elettorale n. 1/2014 e 35/2017 nell’adozione delle successive, ma addirittura applicando alle surroghe e sostituzioni la legge n. 270/2005 anche dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza di annullamento, nella totale indifferenza dell’opinione pubblica e senza nessun richiamo da parte della Presidenza della Repubblica o di quella delle due Camere.

Parlavo di tripolarismo subito, ma non accettato: il primo esempio è stato la legge n.52/2015. Si voleva tornare ad bipolarismo attraverso un ballottaggio tra le due liste più votate, vaticinando che sarebbe stato un ballottaggio tra PD e FI o nel peggiore dei casi tra PD e M5S, dall’esito favorevole per un partito assiso su un confortevole e irraggiungibile 40,81 % delle europee 2014. Tuttavia le elezioni amministrative 2015 e soprattutto 2016 dimostravano che ai ballottaggi poteva succedere l’impensabile.

L’imbarazzo del PD per la sua creatura, voluta con ben 3 voti di fiducia alla Camera in violazione dell’art.72 c. 4 Cost., è stato risolto dagli avvocati antitalikum, che hanno portato la legge elettorale al vaglio della Consulta: l’esito è noto. L’esito inaspettato del referendum costituzionale non ha portato il PD e il suo leader Renzi a più miti consigli  e dal cappello è uscita la legge n. 165/2017. Stavolta la sconfitta del terzo polo pentastellato era stata congegnata riesumando le coalizioni e con un mix di maggioritario, per il 39 % dei nazionali e il voto congiunto.

Il M5S in solitario non era in grado di competere, se non marginalmente, nei collegi maggioritari, che avrebbero costituito il premio di maggioranza nascosto  per la coalizione più votata, che ottenesse il 38/39% dei suffragi. La nostra Costituzione parla di voto segreto, eguale, libero e personale nell’art. 48  e di voto universale e diretto negli artt. 56 e 58, mai di voto “utile”, un concetto politologico dai contorni non ben definiti, perché molto soggettivo: i voti utili sono i voti dati al proprio partito prediletto. Con la soglia abbassata al 3% alla Camera e introdotta per la prima volta, come soglia di accesso nazionale, per il Senato in violazione dell’art. 57 Cost., essendo eletto a base regionale, lo spauracchio di disperdere il voto non ha funzionato.

Il voto congiunto, oltre che prefigurare un voto non libero e non personale, non consente di fare un voto razionale nel senso di fare un voto diversificato tra maggioritario e proporzionale,  in cui valutazioni  politiche  si sarebbero accompagnati alla personalità dei candidati. Il voto utile e congiunto aveva tra gli obiettivi di ridurre l’area di consenso per una formazione nettamente a sinistra, come si annunciava anche con il contributo di settori, che avrebbero lasciato il PD: un obiettivo in parte raggiunto, ma anche al prezzo di rinunciare ad un voto differenziato tra maggioritario e proporzionale.

Vantaggio per le coalizioni, senza un minimo di coesione rappresentato dal programma  e un capo politico comune (che hanno favorito una coalizione a destra, con tre soggetti a priori sopra la soglia di accesso) e voto congiunto avrebbero dovuto colpire il M5S e la formazione a sinistra del PD e un vantaggio per quest’ultimo partito di capitalizzare il voto utile contro Berlusconi e Salvini, un CDX, che nel loro immaginario sarebbe stato l’unico competitore effettivo a guida FI. Un calcolo sbagliato, anche grazie, alla demenziale legge elettorale, che ha consigliato tutte le formazioni politiche dalla più piccole alle più grandi hanno dato come indicazione di voto di votare solo il simbolo e una sola volta.

Questo fatto ha favorito il M5S, che con un programma riconoscibile, un leader telegenico e soprattutto la loro estraneità alla casta e all’area di governo da sempre, potevano prescindere dalla personalità dei candidati. Ritengo anche che l’aggressione sistematica ai loro esponenti, sia locali, che nazionali, si sia rivoltata contro, pensate al povero “spelacchio” diventato attrazione turistica, gli autori. L’elettore anche il più teledipendente è capace di capire la differenza tra il mancato versamento di una parte della propria indennità e un reato come rimborsopoli o aver nascosto un’indagine in corso e aver avuto un rinvio in giudizio o una condanna, anche se non definitiva. In conclusione il tripolarismo è finito, ma la vittima non è stata quella designata il M5S, ma il responsabile del marchingegno elettorale il PD. E’ vero che sul testo c’è stata un’ampia convergenza, la più grande su una legge elettorale, ma chi ci ha messo la faccia e il suggello è stato il PD, perché è stato il governo a guida PD a chiedere ben 8 voti di fiducia (facendo impallidire gli inquietanti precedenti storici delle leggi Acerbo nel 1923 e truffa nel 1953) e infine il nome comune Rosato 2.0 o Rosatellum dal nome dell’ineffabile capogruppo PD alla Camera, Ettore Rosato.

Due sono stati i vincitori effettivi il M5S di Di Maio e la Lega di Salvini ed uno apparente la coalizione di CDX, che sarebbe più corretto chiamare  “A destra del centro”, con il più consistente gruppo parlamentare nelle due Camere: le due forze vincitrici hanno un limite non possono formare tra loro una coalizione di governo, benché questo fosse lo spauracchio agitato per il voto utile. Il PD non è fuori gioco perché può anche contare sulla sponda del Quirinale. Soltanto la capacità di un accordo diretto in materia istituzionale tra il M5S e un CDX a guida Lega può rovesciare la centralità del PD. L’elezione dei Presidenti della Camera è un passaggio obbligato anche per dare il via alle Consultazioni per la formazione del Governo.

Il Presidente della Camera deve essere eletto a maggioranza assoluta, un segnale forte di una ritrovata centralità del Parlamento sarebbe una rapida elezione dei due Presidenti e a tempi ravvicinati completare il plenum della Corte Costituzionale, allontanando il sospetto  che si voglia rovesciare il suo indirizzo in materia elettorale, quando esaminerà, si spera a breve, i ricorsi  contro la legge n. 165/2017.

Dopo anni di tentativi di legge elettorale maggioritaria in violazione della Costituzione, è tempo di un momento di verità e trasparenza, che solo una legge di impianto proporzionale può dare. Soltanto i tre alleati del PD sotto soglia hanno raccolto più voti di Liberi e Uguali , il cui insuccesso merita un approfondimento, perché segnale di un’anomalia del sistema politico italiano sono  rispetto al resto d’Europa per la mancanza di una consistente partito di sinistra, campo cui non appartiene il PD, di tradizione socialista democratica e/o di nuova sinistra.