L’EPICEDIO

I funerali di Filippo Turati a Parigi nel marzo del 1932

di Claudio Treves

Discorso pronunciato due mesi dopo la morte di Turati. Pubblicato a cura di Alessandro Schiavi sul libro “Esilio e morte di Filippo Turati (1926-32)” per le edizioni Opere Nuove, Roma – 1956

Spettava al discepolo, amico e collaboratore proscritto anch’egli, Claudio Treves, dire di Filippo Turati, due mesi dopo la sua morte, nella manifestazione indetta e organizzata il 21 maggio dalla Concentrazione antifascista, quello che egli fu, quello che fece, quello che insegnò e che si deve ricordare di lui, suscitando, scrive “La Libertà” del 23 di maggio 1932, col fascino della sua nobile eloquenza, fremiti di commozione e una prolungata ovazione attestante l’ammirazione e la riconoscenza dei convenuti.

Una sensazione strana: mi pare che non io, ma lui stia per salire alla tribuna: ispido in volto, le spalle aperte, agitate come quelle del buon artiere che si accinge a una difficile bisogna, il profilo adusto, gli occhi fosforici di fauno buono, dove l’ironia sprizzava, pieni di pathos, pieni del tragico umano, così, appunto, come tante volte lo vedemmo salire per commemorare Cavallotti o Bissolati, Amendola o Matteotti.

Di dove veniva a lui quella potenza di evocazione che dava luce e spasimo? Eloquenza enorme: voglio dire fuori di ogni consueta norma letteraria. Eloquenza che trattava il dolore, il sangue, l’eroismo, il sacrificio come materia solida e ne faceva zampillare tutto lo spirituale, plasmandola in pura bellezza, lirica e demonica, che penetrava nei cuori urgendo come anelito, come ansia di azione morale, come volontà decisa, armata, pronta per l’esempio, pronta per il combattimento. Direi questo assurdo. Lui era l’unico oratore per questo rito per questa commemorazione. Non noi che pieghiamo sotto l’onere tremendo, sotto il dovere, più alto delle nostre forze. Il nostro necrologio e in troppa gran parte il necrologio nostro, un autonecrologio. Non noi, che siamo vissuti in lui, di lui, per lui; che abbiamo agonizzato e siamo in gran parte morti della sua agonia, della sua morte.

Quando ciò avvenne, la sera del 29 marzo, in quel letto bianco, in quella camera al quinto piano di Boulevard Ornano – umile come la cella di un certosino, riempita tutta, dietro il capezzale, della grande immagine viva di Colei – come egli scrisse.- con la cui vita fu sua grande ventura intrecciare la sua vita, la consigliera, la consolatrice, Anna Kuliscioff e lo vedemmo a poco a poco sparire nel rantolo alla fine taciuto, nel polso svanito, nello sguardo fatto vitreo, nella soffusa serenità dei lineamenti, come se, alfine, tutta la sua intrinseca gentilezza, tutta la sua infinita tenerezza si fossero liberate dall’armatura del combattente, che non aveva mai conosciuto ne tregua ne riposo – e le donne pie ed i fedeli amici che l’avevano assistito scoppiarono in un tumulto di singhiozzi infrenabili – quando ciò avvenne, quella sera in un solo momento due cose percepimmo insieme: la voragine che si era scavata nei nostri cuori, per non colmarsi più, la rivelazione, balenata improvvisa come una luce nella notte di ciò che veramente Egli era, di ciò che Egli era stato, di ciò che Egli sarà – per noi – sempre. “Morire è divenire” – ha detto Hegel.

Egli era il nostro socialismo; Egli era l’Italia, Egli era tutto l’anelito del nostro Paese, ad essere buono, giusto, grande, libero in una umanità giusta, buona, grande, e liberata. Come l’Antico poteva dire: ” ho amato la giustizia; ho odiato l’iniquità. Per questo muoio in esilio“. Propterea morior in exilium. Tragedia, ho già detto di un uomo, di un popolo, di un secolo. Chi sarà l’Eschilo che la tramanderà ai venturi?

Che cosa era il socialismo per Filippo Turati? Che cosa spinse questo figlio del XIX secolo, di cui la culla era stata legata col nastro tricolore, ed era stata ricevuta nel palazzo ufficiale di una Prefettura; che cosa spinse questo nato sulle soglie del privilegio, agiato di censo, vivido di intelligenza baciato dal fuoco della poesia per il quale la vita spiegava tutte le seduzioni allettatrici, che incantavano il dott. Faust che cosa lo spinse a darsi al socialismo, quando il socialismo non era che una oscura dottrina straniera e assurda, anzi il pretesto ad una torva ribellione di schiavi, ebbri di violenza e di crimine, che la “giustizia” in solenni sentenze bollava come malfattori associati? Che cosa? Un giovanile trasporto romantico? Un bisogno di viaggiare nelle terre esotiche dello spirito? Ma come questo romanticismo, questo gusto dell’avventura intellettuale si conciliano con la fedeltà assoluta, incontaminata di tutta la vita alla scelta giovanile, fino a suggellarla con la morte in esilio?

Noi osserviamo umilmente questo soltanto: che ogni uomo ha una sua sigla personale. Al modo che ha un volto suo, ha un cuore suo. Respingiamo l’adulterazione della dottrina determinista per cui ogni individuo non sarebbe altro che l’unità di un gregge. Sgombra delle esagerazioni scolastiche, la dottrina classica della storia è tanto più vera quanto più si esercita sopra grandi numeri, su vaste collettività, e molto perde del suo valori quando si voglia applicarli a frazioni ridotte fino al singolo. L’uomo è, con tutte le forze che lo influenzano, ma è anche con quella della sua originalità personale, onde egli reagisce alla nascita, alla tradizione, all’automa, alla classe. Filippo Turati – perché era lui, con la sua sensibilità, la sua etica, il suo genio – fu un disertore della borghesia; il più inclito dei disertori della borghesia e tale rimase senza pentimenti, fino all’ultimo respiro in esilio.

Il più inclito, non il solo.

Tra il 1880 e il 1890 tutta una gioventù intellettuale, ansiosa e scontenta, si chiedeva che cosa era nata a fare, che valeva la sua vita. Il “Risorgimento” era compiuto. Ma a che serviva, oltre che alla retorica dei discorsi ufficiali? La sua patria era territorialmente, una. Solo territorialmente. La patria unita non era che la “cosa” di certe consorterie. Il popolo non ci entrava. C’erano i latifondisti nel sud e i primi industriali nel nord. E c’erano plebi. Plebi agricole oppresse da contratti medievali, bersagliate dalla fame, dalla pellagra, dal più selvaggio analfabetismo. Plebi urbane e semiurbane, per le quali l’officina continuava l’esosa usura del campo. Gli apprendisti erano bambini di nove anni che facevano dodici ore al giorno in fabbrica, guadagnando un soldo all’ora. Lo sfruttamento non aveva limiti, ne di tempo ne di stagione; neppure lo temperava un costume scolastico. La cupa tetragone dei giorni era rotta soltanto a quando a quando dal sussulto di qualche cieca rivolta, subito ferocemente repressa.

La borghesia non aveva partiti politici, e come quelli storici, così alti, del Risorgimento, erano finiti ai piedi del Campidoglio, così, col trasformismo di Depretis aveva dichiarato di farne a meno. La lotta politica era una avara rivalità di clientele, e tale si perpetuava. Perché? Una opposizione c’era pure – ed alacre e generosa. Una democrazia radicale si batteva per denunciare i governi di reazione e di scandalo: una democrazia repubblicana che aveva dato al Risorgimento l’impulso della iniziativa continuava in quello stesso spirito a indicare nell’istituto monarchico l’ostacolo di ogni progresso, la degenerazione dello stesso Risorgimento, secondo lo aveva pensato, nella sublimità del suo sogno idealistico, il maestro, Giuseppe Mazzini. Sennonché codeste opposizioni, quanto si vogliano virili e generose, avevano in se stesse un difetto di origine. Esse si erano formate e si perpetuavano nel clima del Risorgimento, tra i ceti che avevano agito in quello, ed in quei ceti stessi non trovavano risonanza che fra quelli più modesti, rimasti fuori dalle oligarchie dirigenti, ma non adatti a spogliarsi del tutto da quell’afflato nazionalista e guerriero che era la gloria della tradizione.


“Le Populaire” del 31 marzo 1932. “FILIPPO TURATI”. Una vita al servizio del socialismo”.

Coteste generose aristocrazie idealiste erano estranee al proletariato come il proletariato era stato estraneo e, ahimè! Perfino ostile al processo storico unitario e nazionale. Per rompere il ristagnamento della politica italiana, la cristallizzazione di una borghesia consortesca, occorreva un verbo nuovo, il verbo di una classe vergine, che ponesse se stessa come protagonista della nuova storia. E poiché ogni storia è la storia politica delle classi che detengono la proprietà, il nuovo verbo doveva accampare la conquista dello stato per la innovazione del diritto di proprietà. Dunque, una lotta classista per il potere politico avendo di mira un sistema di produzione diverso. Tale il prezzo della entrata delle classi lavoratrici nello Stato italiano: entrata in guerra, pur necessaria, come apparirà poi a molti avversari più avveduti – necessaria, dico, e ineludibile, come le condizioni stesse dell’esistenza dello Stato italiano e del suo svilupparsi nel gioco complicato delle concorrenze, che esprimeva la civiltà capitalistica internazionale, battendo alla porta del nuovo secolo.

Filippo Turati tra quella gioventù inquieta, fu il primo a divinare intero cotesto processo storico. E quando divinato l’ebbe, non si chiese più se la vita valeva la pena di essere vissuta. Egli aveva trovato il modo di farla “una cosa seria” poiché le aveva dato uno scopo. Si trattava di fondare il Partito Socialista. Gli elementi c’erano. Non si trattava che di raccoglierli e sceverarli. La prima Internazionale aveva avuto echi potenti in Italia, specie sotto l’aspetto scissionistico di Bakunin. Gruppi di internazionalisti e di comunisti anarchici erano attivi ed ardenti e respingevano la conquista del potere politico legalitario. Al lato opposto, erano formazioni del Partito Operaio, corporativiste, aliene esse pure dalla politica: partito come allora si diceva della “blouse“. In Romagna fiorivano dei gruppi di Repubblicani collettivisti. Andrea Costa squassava la sua chioma leonina e le manette di malfattore davanti alla borghesia.

Giornali rivoluzionari pullulavano da ogni parte: la ” Plebe ” di Bignami a Pavia, il “Proximus tuus” e il “XX Secolo” a Torino, il “Fascio Operaio” ad Alessandria. Una sensazione diffusa di ribellione popolare era per tutto. Turati era come il centro di questa materia incandescente; vestiva la toga e difendeva in Tribunale il Partito Operaio e così quasi automaticamente rompeva contro la borghesia radicale, ostinata a vedere in quel movimento niente più che una manovra di prefetture contro i democratici. D’altra parte, egli estendeva le sue relazioni con gli epigoni del marxismo: con Federico Engels, Plechanov, Vittorio Adler, e partecipava ai congressi internazionali di Bruxelles e di Zurigo. E fonda la “Lega socialista“. In quel tempo, dopo una lunga corrispondenza epistolare, si incontra con Anna Kuliscioff. I Fiori di aprile, una sua poesia per l’impiccagione di Sofia Petroskaja, li ha congiunti. Ella veniva dalla Russia, aveva portato il verbo della “semplificazione” fra popoli ignoti nel Caucaso, poi era stata a Parigi, da ultimo a Napoli.

L’unione decise Turati alla lotta. Ci vuole una rivista di largo respiro, di amplissima collaborazione, ferma nei principi, libera nelle deduzioni, per estinguere la sete di cultura della nuova generazione. Filippo Turati rileva da A. Ghisleri il “Cuore e Critica”  e ne fa la “Critica Sociale“. Intanto le linee del partito sono gettate. Un comitato promotore è fondato ed è dotato di un giornale suo di propaganda e di organizzazione: “La Lotta di Classe“.

Il primo Congresso Socialista è indetto a Genova (1892). Tre giorni storici: la separazione dei socialisti dagli anarchici ne è il fatto più saliente, l'”operaismo” invece si evolve rapido nel socialismo. Il Partito Socialista è nato. Su tre principi: la lotta di classe, la proprietà collettiva dei mezzi e strumenti di lavoro, la conquista del potere politico. Quale meravigliosa primavera di propaganda si schiuse allora; che entusiasmi, che speranze! Come la vita era bella! Bissolati, Prampolini, Lazzari, Defranceschi, Costa venuto a noi dalla Romagna, con Zirardini, con Baldini, con Balducci. Napoli ci dava una fioritura ardente di giovani serrati intorno alla “Propaganda“. La Sicilia con Barbato, Defelice, Garibaldi Bosco esprimeva i suoi “Fasci” di rivolta. Su tutti, Filippo Turati, folgorante con la penna, con la parola, stupendo di stile, meraviglioso d’anima. Intransigentissimo in dottrina. L’anno seguente è il Congresso di Reggio Emilia: trionfo di Prampolini; trionfo dello sposalizio nel socialismo del proletariato dei campi con quello delle officine: miracolo tutto italiano: scoglio contro cui si rompe ancora l’onda oceanica del bolscevismo russo.

La lotta si esalta. La reazione pure. La reazione si chiama Crispi. La Sicilia proletaria brucia i casotti del dazio e tira alcuna tardiva rappresaglia dalle usurpazioni feudali dei suoi oppressori. Stato di assedio. Tribunale di guerra. Defelice, Barbato, altri, condannati a molti anni di reclusione. Il continente risponde con le agitazioni. Lega della Libertà contro le leggi di eccezione. Il partito socialista è sciolto. Ma Crispi cade. Breve ripresa liberale. Turati è eletto deputato. Entra alla Camera e pronunzia il primo discorso: date la libertà alla Sicilia. Quel giorno, quel discorso suggellava finalmente l’unità italiana nella unità del proletariato italiano. La rivolta che non è se non il fremito del rinnovamento di una classe, non si mortifica; essa sale, sale per tre anni – dal sud al nord, varia di forme e, più spesso, informe. I moti di Lunigiana non sono dimenticati; la fiamma arriva a Milano. E’ il 1898… Gli operai e le operaie della ditta Pirelli tumultuano. Turati è fra loro, fronteggiando la forza pubblica e predicando la calma. La repressione si chiama Bava Beccaris e Pelloux. Tutti i partiti del popolo – dai socialisti ai cattolici – sono dispersi sotto la raffica. Arresti in massa. E’ arrestata la Kuliscioff. Turati accorre in Questura per la sua liberazione. E’ trattenuto malgrado l’immunità parlamentare. Tutti i “capi ” passano davanti al tribunale di guerra per cospirazione. Tutti sono condannati. Turati riporta dodici anni e va a sostituire Barbato nella cella di Pallanza.

Ma i partiti popolari in breve tempo riprendono. La stampa democratica fa il debito suo. Un “omnibus” di leggi reazionarie determina l’ostruzionismo parlamentare. Prampolini e Bissolati rovesciano le urne per evitare una votazione di sopraffazione. Elezioni protesta. Filippo Turati è rieletto. Un indulto libera, fra i condannati a pene meno gravi, Anna Kuliscioff. Pelloux cade. Un equivoco ministero Saracco cade. Cade Umberto primo sotto i colpi di uno venuto dall’America con un suo gran sogno di giustizia in cuore: Bresci. E il Successore giura compunto: il rispetto della Costituzione. La reazione è vinta. Torna Turati dal reclusorio e riprende olimpico come un Dio il suo lavoro. “Critica Sociale” riappare. “Heri dicebamus“. Che cosa dicevamo ieri? Una classe nuova entra nella storia d’Italia; il suo primo compito è di essere; essere per agire. Autonomia al fine di una conquista. La libertà per “riempirla di azione”. Se il mattino è stato romantico e rivoluzionario, il meriggio sarà ripieno di opere.

Turati continua a vedere con occhio d’aquila. La vita dà a sé il programma. Dai campi, dalle officine, sale la voce del bisogno che ha trovato la via del più pronto soddisfacimento. Migliaia e migliaia di spontanei scioperi di contadini, fra il 1900 e il 1904, abbattono i vecchi contratti portanti i segni della medievale servitù della gleba; il lavoro gratuito, le “corvées” dei trasporti servili sono finite. Una grande rivoluzione agraria si compie quasi silenziosamente, che non è stata più cancellata e si è incorporata nella stessa civiltà italiana, avanzando altre più superbe. Le leghe operaie fanno migliorare i salari; li fissano collettivamente, la selvaggia concorrenza interproletaria del crumiraggio si viene arginando. Le Leghe si federano e nasce la “Confederazione Generale del Lavoro“. Il lavoro delle donne e dei fanciulli, le Cooperative di Consumo e quelle di lavoro integrano le leghe, che attirano la vecchia mutua; si prepara il regime delle assicurazioni sociali; quando il suffragio permetterà al proletariato di disporre dei Comuni e degli istituti che ne dipendono, si formerà una triplice possente che ad un tempo presiederà le guarentigie del lavoro, l’assunzione diretta di un principio di produzione diretta senza padroni e senza intermediari.

L’istruzione professionale cresce autorità alle iniziative e giustifica la rivendicazione del controllo operaio nella fabbrica. Ma le conquiste dirette non possono essere abbandonate alla fluttuazione incessante delle lotte dirette di classe. Troppo spesso sarebbe lavoro di Sisifo. La riforma diretta, cioè, tende alla sanzione della legislativa. Ecco il riposo festivo, ecco la legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli. Questa espansione proletaria è di natura; non è il comando di nessuno. Non è un piano dittatoriale; è la vita. Turati non fa che difenderla. La classe fa da sé. Ma ancora ha bisogno di cultura.

Ed ecco Turati apostolo di cultura popolare. Il suo arsenale è nella società Umanitaria, fondata da un bizzarro filantropo milanese. Turati ne sviluppò un programma, che doveva avere in Augusto Osimo l’esecutore più fedele. Dall'”Umanitaria” fa rampollare l’Associazione Nazionale per la Cultura Popolare. Sono scuole libere volanti per gli analfabeti, che la Russia sovietica adotterà poi in grande, con meraviglioso successo; sono Università Popolari e Bibliotechine Popolari – il libro (senza moschetto) contro il litro – che Turati ispira, inaugura, incoraggia, regala. E’ un lavoro immenso senza grandi echi politici, ma che egli ritiene di esigenza capitale. Predica ed agisce. Non basta. Questo poeta, questo tribuno, si innamora della tecnica, che è la realizzazione del sogno. Entra al Consiglio Superiore del Lavoro, e le più perfette relazioni sono sue: quelle sui Probiviri, quelle sulla Cooperazione, quella classica sulle otto ore. Si adatta a dirigere un Sindacato, quello delle Poste e Telegrafi, mortificandosi nell’equa soluzione del rapporto tra i diritti del personale e quello del pubblico consumatore. La Camera che ode i suoi discorsi ha l’idea che egli sarebbe un ministro delle Poste e Telegrafi quale non fu mai, quale mai sarà in alcun Parlamento borghese. Infatti Egli era un socialista e portava in cuore la amministrazione socialista dell’avvenire. Pertanto non fu inteso sempre. Forse Egli anticipava troppo. Troppo precorreva sull’ambiente.

C’è una leggenda del suo “riformismo” che dovrebbe ormai essere sfatata. Egli era un marxista ed un positivista. Dichiarava Egli stesso che alcuni dati irremovibili della sua coscienza li aveva ricavati da Roberto Ardigò. La vita è una in ogni momento; tutto diviene e si trasforma. Il socialismo non è una rivelazione di Dio, è una lenta creazione degli uomini. Ogni atto liberatore contiene il socialismo, in quanto è coscienza dell’ingiustizia e sforzo di riparazione e la riparazione conseguita diventa mezzo di riparazione ulteriore e maggiore. “Quando questo esercito sarà tutto in armi – Egli scriveva sin dal 1893 – allora la borghesia sentirà la necessità, per prolungarsi la vita, di concedere le riforme… E le riforme da lei concesse la seppelliranno“. Come mi diceva Nullo Baldini, che, anche lui, ha predicato di esempi più che di teoria. Turati era un Educatore perché era un realizzatore, perché reputava che il fatto educa. “Dal reale all’Ideale” tuonava Giovanni Jaurès.

La riforma non è mai un fine. Essa da la gioiosa coscienza di una forza calma, poderosa che si accresce con l’esercizio, ed arma la volontà di accrescerla per esercitarla ancora, più oltre, instancabilmente, perché la milizia e la lotta sono di ogni giorno. Pertanto la riforma è creatrice. Vana paura che la riforma addormenti sopra il suo letto di più o meno facili allori, perché “l’incontentabilità è in fondo al cuore dell’uomo“. Il popolo lo intendeva. Potevano ristrette assemblee – di cui Egli democratico lealissimo, scrupolosamente rispettava le autonomie – potevano votare talora, contro di lui. Il grande popolo del lavoro a lui restava consapevolmente, fiduciosamente fedele nell’azione. Il popolo ammirava Turati che mai gli si mostrava in veste di cortigiano; piuttosto il contrario. Intuiva che con Turati e per Turati esso, il popolo, non sarebbe mai stato il corpo di manovra per alcuna avventura personale di dominio e di gloria. Da questo consenso veniva a Turati quell’autorità tutta sua, disarmata e possente, radicata nel Partito e spaziante assai oltre le chiostre del Partito della quale Egli, con religiosa modestia, mai si indurrà a prevalersi rispetto al Partito – perché Egli credeva nel Partito, adorava il suo Partito, e ancora più quando il Partito si scostava dal suo consiglio, dal suo insegnamento.


“Le Populaire” del 2 aprile1932. “Questo pomeriggio tutti ai funerali di Turati!”. Il ricordo di Jean Longuet, nipote di Marx e membro dell’esecutivo dell’Internazionale Socialista, “Turati, il Jaurès italiano”.

Ma il dissenso vivo è sempre intorno al metodo, intorno alla integrazione degli sforzi sul terreno politico ed economico. Per Turati il fine ed il mezzo si compenetrano; gli atti risolutivi della storia non sono che lo sbocco di innumeri atti preparatori. La forza non è la violenza. In paese libero, l’educazione deve dirigere alla forza, non alla violenza. La rivoluzione sarà tanto più forte quanto meno violenta. Il socialismo è un istinto che diventa coscienza e si fa volontà: cioè opera. Una classe come un uomo, ha da essere il fabbro della sua fortuna. Non ci sono santi in cielo, non ci sono demiurghi in terra. Per ciò respingeva l’avventura, il gioco di azzardo, perché respingeva l’irrazionale. Questo tuttavia esiste. E lo sforzo è appunto di denunziarlo e di ridurlo sotto l’impero della ragione. Tutto ciò che è stato, ed ha servito, tende a cristallizzarsi. Lo sciopero diventa un mito, e ciò che era stato un beneficio cristallizzandosi in mito diventa un impaccio. Il suo dissidio da Sorel è veramente insanabile. Egli è un democratico, un laico, un razionalista, un socialista, insomma, della grande linea evoluzionista rivoluzionaria di Marx. Perciò visse in un’atmosfera incandescente di polemiche: aggredito si difese, irruente ma sempre mosso da un solo amore, quello della causa, scevro da ogni preoccupazione personale, puro da ogni pensiero di supremazia, schietto, libero, modesto, di un solo linguaggio in piazza e al congresso, nelle assemblee del partito o del Parlamento. Sempre col popolo e non con la popolarità. Approvava tutte le collaborazioni che credeva utili e leali, ignorava ogni compromesso di coscienza. La sua etica era una rivolta contro la menzogna, la ciarlataneria, la demagogia; la sua ironia velava la carità intima che gli fioriva in cuore con la religione illuminata e razionale dell’uomo.

La guerra – solo la guerra – poteva vincerlo. Perché la guerra è il trionfo dell’irrazionale. La guerra è di essenza l’antisocialismo. La guerra è capitalistica. La guerra rinforza tutti i poteri autoritari dello Stato borghese; coercisce l’autonomia della classe proletaria; ne compromette l’opera faticosa di elevamento, obnubila il suo senso di classe; l’asservisce ad una vicenda, ad essa estranea, di superamento di concorrenti rapine internazionali attraverso immani catastrofi, in cui delle sue vittime fa i suoi complici. Turati si eresse tutto contro la guerra: – quella coloniale e quella europea – una che continuava nell’altra. Nelle viscere della guerra sentiva formarsi il fascismo. E disse no alla guerra come disse no al fascismo.

Sopraffatto, restò tuttavia in linea a difendere il controllo parlamentare; a denunciare le responsabilità dei governi, in tutti i disastri, a respingere tutte le audaci riversioni di responsabilità di quei disastri. Alla guerra egli opponeva il suo senso internazionalista ed il suo senso di patriota. Il patriota vedeva nella neutralità il compimento del destino di emancipazione, alfine, dell’Italia, dall’alternativa di un vassallaggio all’altro dei potentati stranieri, che era stata tutta la diplomazia della casa sabauda nei secoli. Internazionalista, si richiamava a Jaurès che aveva sino in ultimo supplicato che la fiamma dell’Internazionale non fosse spenta dai soffi della guerra. Perciò fu col cuore a Zimmerwaid e perciò aveva detto il 20 maggio 1915 alla Camera che i socialisti avrebbero sempre cercato le vie più spedite per troncare il conflittosenza vinti ne vincitori“, dacché la guerra porta in se la punizione di tutti. Ma allorquando la guerra si ridurrà alla linea della difesa che si identifica con lo stesso istinto della vita, dirà: “anche per noi la patria è al Grappa“.

Sì, la guerra era più forte di lui. Gli stessi istinti di opposizione che essa esaspera, si volgevano contro di lui. Tripoli ha fatto passare il governo del Partito suo, da Turati a Mussolini. La guerra internazionale lo sposterà assai più lungi, al bolscevismo. Ma egli reputa che la concezione sua del socialismo, per dodici anni ripudiata dal Partito, ripara nelle masse dei lavoratori organizzati. Turati passa infatti attraverso rielezioni trionfali. Ma egli non fa che affinare il suo lealismo al Partito. Un’idea di avventura personale non ha seduzione per lui: ripeto: Egli è l’uomo del Partito, il fedele del proletariato. Nelle tremende convulsioni della lotta, Egli non getterà mai semi di divisione fratricida. Il danno sarebbe sempre superiore ad ogni supposto vantaggio. Egli resta nel Partito, che ha bisogno del suo consiglio, della sua opera. Vi resta, ma con la coscienza intera, parlando, scrivendo per l’idea sua, iperbolizzandola piuttosto che diminuirla. Vi resta perché l’autorità sua gigantesca sarà – perché non dirlo? – una protezione del Partito nell’ora dei rovesci. Nessuno ricorda quel complesso psicologico che si chiamò… l’ombrellone di Turati?

Vi resta, perché ha l’intuito profetico che sta per suonare l’atroce destino del Partito e del proletariato. Una guerra è finita; un’altra si delinea: cessato il cozzo degli eserciti, fatto il computo delle ruine, dei morti, dei mutilati – paragonato tutto ciò ai risultati diplomatici di Versailles – unanime è il pensiero: – Era per questo? La delusione si esaspera e parla il linguaggio di violenza, di cui la trincea ha fatto un abito.

Se non ci ingegneremo a fare in modo che il ‘sole dell’avvenire’ proietti alcuni dei suoi raggi per illuminare e riscaldare il presente, saremo simili ai preti che, promettendo ai poveri il paradiso, garantiscono intanto ai privilegiati il regno della terra
(19 gennaio 1907)

La rissa si fa assordante. L’Italia è stremata. Solo i fornitori di guerra sono in auge e fanno incetta di giornali. I lavoratori chiedono conto delle promesse loro fatte durante il cimento. Gli industriali e gli agrari accusano la pace che ha tradito la guerra – e si fanno nazionalisti. Il mezzo ceto è degli ufficiali smobilitati che ricalcitrano ad entrare coi loro gradi e medaglie di guerra nella umiltà delle loro antiche posizioni, o le trovano occupate. Rancori e furori, agitazioni e scioperi. Il partito ha la febbre; le sue file sono ingrossate tre volte di gente nuova che ne cangia la dottrina, l’anima e l’essenza. Dove è la severa dottrina marxista del suo statuto? Quella illuminata, cosciente rispondenza della oggettività delle condizioni di fatto e della subbiettività volontaria che vi reagisce coscientemente? Istinto ed intuito si chiamano “volontarismo”: e non è che la strepitante attesa di un miracolo esoterico.

Ecco: al Congresso di Bologna lo statuto del Partito è mutato. La vecchia guardia, dall’inflessibile Costantino Lazzari a Filippo Turati, serra le file; la vecchia guardia muore, non si arrende. Ma è ridotta ad un pugno e sarà soverchiata. Il congresso si svolge come un rito di illuminati affascinati da un mito la Violenza. Ogni parola è in esecrazione della guerra e i più non sentono che l’appello ai mezzi di violenza, introdotto in tre passi nuovi nella vecchia carta; non è che influsso della guerra che arde ancora nel loro sangue. Filippo Turati non ha un dubbio. Il suo discorso è un epico corpo a corpo con quel mito “violenza“, che si illude di essere “forza“. ” Chi di voi esclama si è trovato alla testa delle rivolte della fame? Chi ha risposto all’incendio dell’Avanti! “. Tutte coteste apologie verbali della violenza non saranno forse un servizio per coloro che hanno la forza e si preparano ad esercitarla senza pietà contro il proletariato? Nella sua passione Turati trova accenti di profezia. Come Ezechiello, vede e annunzia le ruine, la disfatta, la reazione più crudele incombente sulla Solima proletaria. Che vale? Il destino è il destino. Turati è vinto. Turati è alla colonna. Ma il socialismo e l’avvenire si illuminano di quell’atto di fede.

Ho già detto che Turati non lascia il Partito. Dopo il Congresso di Bologna, precisata lealmente alla direzione del Partito l’autonomia di pensiero e di propaganda che egli e la minoranza rivendicano nell’ambito dei principi, egli si spiegherà con un manifesto agli elettori milanesi: “Noi non siamo usciti dal Partito, perché noi siamo socialisti che vogliono agire da socialisti. Le stesse deviazioni e gli stessi errori del Partito sono ai nostri occhi un motivo di più per rimanere col Partito per esercitarvi una funzione critica e moderatrice profondamente operante… La milizia socialista non è soltanto milizia di idee, gioco di astrazioni teoriche : essa è sopratutto una volontaria consapevole e perseverante immolazione di sé stessi alla causa. Separarci dal Partito Socialista potrebbe significare separarci dal proletariato organizzato, dall’ esercito per il quale e col quale combattiamo e con ciò condannare noi stessi all’impotenza politica… o peggio gettare m quelle masse proletarie la disunione, la sfiducia, il disorientamento“.

Avete ben udito: “La milizia socialista non e soltanto una milizia di idee, gioco di astrazioni teoriche, essa è sopratutto una volontaria consapevole perseverante immolazione di se alla causa“. Dite: non è questo il vaticinio del suo epitaffio? Suo e di quanti altri? Ahimè! Il mostro fascista è ingigantito. L’orrido seme da cui si è sviluppato aveva già mostrato i suoi filamenti, ma in certi modi onde si era propiziato l’intervento, forzando la volontà del Parlamento. Ma nella guerra si è irrobustito. E nel dopoguerra, come una belva affamata, si piantò, “outsider” di tutte le agitazioni, deciso a volgerle tutte all’appaiamento dei suoi istinti di preda e di crudeltà. Soffia pertanto dentro a tutti i movimenti per esasperarli. Tra la reazione e la rivoluzione, fa affannosamente la spola. Si offre ai sindacalisti e si offre agli industriali ed agli agrari. Quando l’agitazione proletaria, come una inondazione che ha raggiunto il suo sommo con l’occupazione delle fabbriche, rientra nel suo letto, esso si butta nelle braccia della reazione, cupida di rappresaglie. Diventa la guardia bianca dei profittatori di guerra; sono sue armi l’olio di ricino, il manganello, il pugnale, il petrolio, la bomba a mano; assassina i leghisti ed incendia leghe e cooperative. Le Case del Popolo vanno in fiamme; i leghisti sono trucidati.

La resistenza sul terreno della forza è quasi impossibile, poiché il fascismo ha un compromesso con le questure, con i carabinieri, con certi ministeri e con lo stato maggiore dell’esercito. Le bande si istruiscono, si dotano dei mezzi più raffinati di guerra e di distruzione. Intere province cadono nel suo potere. Una sola via di salvezza: è che i socialisti distacchino il governo dai fascisti. Come? Pochi mesi dopo il Congresso di Bologna, tempestivamente, la “Critica Sociale” lanciava la parola d’ordine: “Al potere”. Non è raccolta. Non lo poteva essere. Anacronistica al clima torrido delle illusioni, sarebbe pure stata appena tempestiva. Il Partito si chiude in una stoica impassibilità dottrinale e rinunzia ad influenzare le larve al governo: Giolitti, Bonomi, Facta, che si succedono.

Una parte del gruppo parlamentare reagisce, e fa voti di una politica più attiva, conforme alle tremende circostanze. In luglio 1923, tra una spedizione distruttrice contro la Federazione delle cooperative di Ravenna di Nullo Baldini e l’ultimo conato di uno sciopero generale, Filippo Turati sale le scale del Quirinale. Invitato dichiara al sovrano le sue responsabilità. Era il 29 di luglio. Turati non mancò di segnalare all’interlocutore il significato di quella data anniversaria. E’ uno scandalo. La Direzione affretta la convocazione per assumere estreme misure contro lo “indisciplinato”. Invece di una espulsione, è la scissione. Intorno a Turati si stringe ormai poco meno della metà del Congresso. Nasce il Partito Socialista Unitario dei Lavoratori Italiani. Segretario amministrativo: Oddino Morgari. Segretario politico: Giacomo Matteotti.

Il 28 ottobre Mussolini è arrivato a Roma e la Camera può diventare il “bivacco delle camicie nere“. Ecco Mussolini e Turati. Ah! quali abissali antitesi! Dei due quello che è il “proletario” è Mussolini. Che cosa vi dicevo poco fa? Il classismo è dottrina vera nella collettività e può non essere più vera nell’individuo… Fu mai Mussolini socialista? Tanto vale chiedere se il socialismo e la rivoluzione possono torcersi ad una giustificazione teorica di istinti bruti, cupidi e vendicativi, macerati nella miseria. Se il socialismo e la rivoluzione possono essere una maschera intellettiva di frenetico egoismo, una esplosiva espressione del bisogno di salire per dominare, per offrirsi tutte le soddisfazioni personali, calpestando ogni cosa sacra, una forma, infine di prostituzione sadica, che si offre, lusingando, a tutti gli atavismi perversi diffusi nelle folle.

La potenza dell’inganno sta in ciò, che quello stesso che lo porta con se l’ignora. Ma ben lo intuisce, lo avverte, lo svela chi, in una opposta sensibilità morale, sente la lacerazione di una profanazione bestemmiatrice, l’offesa di un travestimento abominevole, ciarlatanesco, delle verità che per lui sono un indeclinabile imperativo del cuore, una religione di immolazione, una immacolata santità. Una assemblea, un congresso, una collettività, possono ingannarsi anche lungamente, per scontare lungamente poi l’inganno di cui sono state vittime… Ma se Camillo Prampolini, se Filippo Turati, se Giacomo Matteotti, furono socialisti – noi neghiamo che mai Mussolini sia stato socialista. Tra queste anime, l’incontro sarà sempre un dramma – il dramma della luce e delle tenebre, del bene e del male: fuoco di crimine, astro di martirio,

L’onore immortale del primo cozzo spetterà a Filippo Turati. La via è stata aperta al fascismo dall’ultimo tradimento del ministro Facta, tradito prima dal suo re. I vincitori sono al potere, ebbri di sangue, di oro e di vendetta. La nazione è a terra; come una disperata che si trascini a ginocchi, implorando pietà. C’è appena una trincea, sulla quale si possa battersi, e, al caso, morire: la trincea parlamentare. Il 17 novembre 1922, Turati balza dalla sua trincea per attaccare il vincitore che si è vantato di poter fare della Camera un bivacco fascista. Il suo discorso si inscrive fra i titoli della patria per il riscatto. La parola del Tribuno ferisce come una frusta; ogni frase colpisce il duce, lo smaschera, gli chiede ragione del suo tremendo misfatto contro il popolo italiano. La canea urla. Turati supera tutti e si impone. Il duce si torce ad ogni frase, schiumeggia interruzioni irose, minacciose, informi. Turati prosegue, non cessa che quando ha detto tutto il suo pensiero. Nello scioglimento della commissione parlamentare d’inchiesta per le spese di guerra, che è stato il primo atto del governo fascista, denunzia il prezzo pagato alla plutocrazia invereconda, che aveva finanziata la marcia su Roma, per scampare dalla resa dei conti, i tesori rapinati nel sangue della nazione in guerra.

Scarnifica la viltà e la putredine degli istituti supremi che hanno agito d’accordo con la plutocrazia, armando la torma degli avventurieri contro il proletariato. Demolisce la tesi vanitosa che il fascismo inizi una rivoluzione, sintetizzando il suo pensiero così: “Contro la massa non c’è che il tiranno: tiranno da dramma o da operetta, in grande o piccolo stile, Napoleone il Grande, il Piccolo… o il Minimo. Insomma, tragedia o farsa. Ritorno a Metternich. La rivoluzione non si fa esumando cadaveri; la rivoluzione non si fa tornando al passato…“. Chi lo rilegga, quel discorso, troverà che dieci anni dopo, esso è ancora una tessera compiuta di propaganda antifascista. Senza dubbio, quel discorso si può considerare come la protasi fatale di quello che poco più di un anno dopo pronuncerà Giacomo Matteotti.

Viene in mente il dialogo di Vespasiano e di Elvidio conservateci da Epitteto: “Non venite oggi al Senato! – Voi me lo potete impedire, ma finché io sarò senatore, io verrò al Senato. – Se voi ci venite, sia almeno per tacere! – Se sono presente, non posso che dire ciò che mi parrà giusto. – Ma se voi lo dite, io vi farò morire. – Ho io mai creduto di essere immortale? Faccia ciascuno ciò che dipende da lui, Voi mi farete morire ed io soffrirò la morte senza tremare“.

Su tutti urgevano i fatti. Il terrore folle, la lusinga turpe, il calcolo furbesco, l’intima frollaggine del morto regime costituzionale precipitano il pro cesso di decomposizione della Camera. I migliori si illudono, corteggiando, di addomesticare la belva e sono essi che si addomesticano. Una commissione parlamentare presieduta dall’On. Giolitti da il suo avviso favorevole alla prima riforma elettorale con cui il fascismo con un grosso premio al partito di maggioranza cerca di assicurarsi il potere. Filippo Turati contrasta, indomito, indomabile. Vanamente.


“Le Populaire” del 4 aprile 1932
“Parigi Socialista ha celebrato commoventi funerali a Turati. 15.000 lavoratori raccolti in silenzio hanno accompagnato al Père-Lachaise la salma del grande esiliato italiano. Una folla commossa era ammassata lungo tutto il percorso. Le bandiere rosse della Federazione della Senna circondavano quelle dell’Internazionale e del Partito italiano”.

E’ con quella legge che il governo farà le elezioni. Elezioni di sangue con cui il fascismo al potere suggella il suo destino di crimine. Fra gli altri è nel ricordo appassionato di lutti l’assassinio orrendo del povero Piccinini. La corsa ormai è fra l’assassinio e la denunzia. Ognuno al suo turno. Anche se la vittoria è all’assassinio. A chi il turno?

C’è uno che vi è consacrato. Uno che lo sa, che l’aspetta, che gli va incontro intrepidamente, che nulla tralascia per meritare il tragico onore: Giacomo Matteotti. Egli è il figlio spirituale di Turati. Esule in patria, bandito dalla sua terra polesana dopo lunghe avvisaglie di insulti e di aggressioni sanguinose, perché egli è il pioniere e l’organizzatore della più vasta costruzione socialista, oggetto di tutti gli adii e i rancori della illustre canaglia agraria. Egli regge in Roma il segretariato del Partito Socialista Unitario. Attivo, severo, inflessibile, sostiene tutta l’organizzazione, raccoglie con diligenza implacabile, e denunzia su “Critica Sociale” e su “Giustizia” uno per uno i misfatti di “un anno di governo fascista”; anima dappertutto la battaglia per le urne. Ludi cartacei di eroismo. Compiute le elezioni di sangue la Camera è convocata. Un trucco parlamentare obbliga, a tradimento, a improvvisare la discussione sulla verifica dei poteri. Chi è preparato? Lui, Matteotti, è sempre preparato. “Paratus ad omnia”. Incisivo, potente, narra, svela, e documenta e, fra il furore dei deputati della criminale maggioranza, conclude chiedendo la invalidazione della maggioranza.

“Ed ora – dice a qualcuno – potete preparare il mio elogio funebre”. “Dixit”. Sapeva. Appena qualche giorno dopo, è il ratto, il nefando assassinio, il cadavere fatto a pezzi ed occultato. 10 giugno 1924. In agosto, Filippo Turati sarà chiamato a riconoscere gli avanzi ritrovati nelle forre della campagna romana del suo figlio spirituale. Ed è l’Aventino. Parlamento sbranato come sbranato è stato il corpo di Matteotti. Il popolo tutto spasima e piange. Turati è sull’Aventino e fra il popolo, con la commemorazione di Matteotti su l’Aventino, piena di tutto il “pathos” della nazione e di tutta l’effettualità politica di essa. Turati consegna ai fati d’Italia la requisitoria suprema contro il bieco regime, per tutte le giustizie dell’avvenire. Più tardi si dirà: protesta morale non politica. La situazione era rivoluzionaria e fu elusa dall’Aventino e da Filippo Turati. Antico vezzo della comune insufficienza, quello di farsi dei demiurghi per rovesciare su di loro la colpa che è delle cose e delle possibilità. Le moltitudini che andavano ad inginocchiarsi, piangendo, al Lungo Tevere Arnaldo da Brescia, ignoravano di avere la forza di rovesciare l’iniquità e ristabilire la giustizia. I Parlamentari – essi – quella forza positivamente non l’avevano, come non l’aveva la stampa eroica e bersagliata che li sosteneva. Salvarono l’onore levandosi contro il furore delle bande e la congiura dello Stato, per erigere, alla luce della storia, un doppio processo: quello “politico“, quello giudiziario. Ma il Calvario non è che cominciato. Il processo giudiziario termina nell’orrenda farsa di Chieti; il processo politico viene sospeso a Roma col colpo di Stato del 3 gennaio 1925.

Di lì a poco Giovanni Amendola cade nell’orribile agguato di Serravalle. Assassinato il candidato Piccinini, assassinato il deputato dell’aula Matteotti, assassinato il deputato della scissione Amendola. Il Parlamento è bene finito nel sangue. Il regime si riprende delle ferite, ebbro di furore come una belva. I colpi di Stato si susseguono. Ultimo: Bologna. Mistero di iniquità. Le ultime forme dello Stato libero sono diroccate. Le bande cupide di strage scorazzano cercando a morte gli estremi avversari. Si assassina col pugnale e con la calunnia, che è fatta inconfutabile. Per l’avvilimento del popolo si mentono anche abdicazioni che non furono mai. Nulla più è sacro. Nulla più è sicuro. Non la vita e neppure la fama della propria illibatezza. Per salvarla, non c’è che la morte – o l’esilio. Filippo Turati tocca ormai i 70 anni. La sua vita gli sembra un cencio frusto. Morta gli è la Grande Compagna, ed i suoi funerali sono stati oscenamente profanati dall’aggressione dei manigoldi. E’, come tutti gli altri, cercato a morte. Peggio. La polizia gli offre la sua protezione. Non e questo l’oltraggio, il pericolo supremo? Bisogna scampare. Fuggire. Evadere dal più turpe servaggio. Chi l’aiuterà? Ecco una nuova generazione di Eneadi viene incontro a lui, vecchio Anchise, a portarlo su le spalle, lungi dalla nuova Ilio combusta. Ardua impresa. Dappertutto vigilano i birri… Ma Carlo Rosselli, Ferruccio Parri, Italo Oxilia, Achille Boyancé, Alessandro Pertini – questi ora a Santo Stefano – sono della grande partita. Una notte, un fragile palischermo si stacca dalla sponda ligure, eludendo la crociera delle camicie nere. Sono gli Argonauti del dolore e della patria che puntano la prua verso una terra di libertà e di onore, per deporvi i lari della patria tradita e perduta. La notte è buia, i flutti sono irati. La incerta peregrinazione dura sino all’alba. Alfine, il nuovo pallido sole disegna il profilo di un’isola. E’ la Corsica. La vita, l’onore di Filippo Turati sono salvi. Filippo Turati è tra noi ancora – alla testa dei cospiratori, per la patria e la libertà.

Il resto, compagni, voi lo sapete, perché l’abbiamo vissuto tutti insieme. Non ho già detto che noi ci commemoriamo, che questo è l’autonecrologio? L’esilio non fu per Turati il riposo. Egli ridette all’esilio con l’invitto Eugenio Chiesa, che di tanto poco lo doveva precedere nella morte il senso glorioso che ne ebbe Giuseppe Mazzini. L’esilio continua la guerra nella forma che i militari chiamano di posizione. Guerra tremenda, dove si marcisce nel fosso sanguinoso, lutulento della barricata. “Resistere e continuare“. Guardarsi dal tedio, dalla noia, dal “cafard” della trincea; guardarsi dalla tentazione di disfarsene, ricorrendo ai vecchi fantasmi, ad anacronistiche seduzioni di discordie eleganti. Guardarsi dal vizioso piacere antico di sezionare ogni capello in quattro; guardarsi dagli impulsi delle subite insofferenze nervose. Resistere e continuare. Resistere e continuare la battaglia sopra un fronte solo, in fraterna concordia di mezzi e di intenti. Sceverare tutto ciò che può dividere, unire tutto ciò che deve essere unito. Ciò è anche la “dignità dell’esilio“, che Filippo Turati con l’esempio insegnò quale premessa di ogni buon lavoro, per ridare la fiducia agli italiani, per guadagnare il rispetto degli stranieri.

Filippo Turati volle la Concentrazione di Azione Antifascista e la puntellò di tutta la sua fedeltà eroica. Intese e disegnò con mano ferma la sua missione storica, partita in tre opere necessarie: istruire l’opinione internazionale – e si caricò della direzione di questo settore, fondando e dirigendo con solerzia di benedettino il bollettino “Italia”, -; stringere, conquidere, organizzare, infiammare l’Italia emigrata, che era, in certo modo, per lui, l’Italia proletaria del tempo della prima propaganda evangelica del socialismo. Si rifece propagandista della propaganda “spicciola” in ogni riunione di lavoratori che lo chiamasse; agire per la rivoluzione italiana in Italia. Questo era lavoro tremendo, che martoriava il suo senso quasi caritativo delle responsabilità; impresa titanica di sacrificio che egli accettò “per un paese e in un tempo – sono sue testuali parole – nei quali si è fatto vero questo paradosso: che solo le manette fortemente agitate suonano riscossa; che soltanto, talvolta, tra i ceppi, si conquista per un attimo, chi ne abbia l’ardire, un respiro, un sospiro di libertà“.

E perché, e per chi questa opera immane? Per il dovere e per l’avvenire. Non per sé. Egli sapeva che a lui, come all’antico Mosè, sarebbe stato conteso di rivedere – vivo – la terra promessa. Egli sapeva – per dirla ancora con le sue parole stesse – “che la via della liberazione sarebbe stata lunga e asperrima“. Che importa? Ai suoi “complici” gloriosi che al processo di Savana, erti e belli davanti ai giudici, fra i trasporti commossi della ammirazione del pretorio, vantavano il radioso “crimine” di aver salvato il “Vecchio” cadendo essi, al ritorno, nelle ritorte dei birrii – e forse volutamente, per fare del processo, durante cinque giorni, una tribuna di gloria dell’antifascismo – Egli scriveva queste parole che noi, miseri, non possiamo che ripetere per lui: “La fede vigile ed alacre nelle segrete virtù delle forze morali non si nutrì del menzognero ottimismo che i fatui miraggi del desiderio impaziente scambia con gli arcobaleni della speranza; ma trasse vigore da sé, da un profondo senso del dovere, da un imperativo interiore, mille cubiti più alta di ogni utilitaria visione di profitti a breve scadenza“.

Sotto cotesto imperativo, il grande vecchio opera, più giovane dei più giovani. Il profondo senso del dovere sembra miracolosamente ingigantirgli le forze. Occorre accennare a questo lavoro? Egli presiede di fatto la Concentrazione Antifascista; presiede di singolare amore la “Giovanni Amendola”, in cui vede l’ultimo ricetto di quella coltura popolare, così perseguitata in Italia, e in cui aveva visto una delle missioni più ardue del socialismo. Redige il bollettino ” Italia “, scrive sulla ” Libertà “, si prodiga infaticabilmente in studi ed articoli ed interviste sulle miserande cose d’Italia per la più autorevole stampa di Europa e di America. Un articolo, un discorso, una conferenza non nega mai; siano umili o illustri i fogli e le assemblee che lo ascoltano. Ha ripreso a frequentare i Congressi della Internazionale Socialista.

Al Congresso di Bruxelles suona titanicamente la diana sul pericolo incombente agli ignari, ai dormenti. Pone il problema del fascismo come il dominante. Dice: “Nella loro essenza profonda, tutti i problemi che interessano il proletariato – politica mondiale, movimento operaio, nazionale ed internazionale, le otto ore, il disarmo, la guerra e la pace, le riforme elettorali e militari, il problema coloniale, l’emigrazione, la finanza, l’economia dal dopo guerra, gli stessi problemi della gioventù e dell’infanzia – tutti si riducono ad uno solo: fascismo o democrazia… Le obbiezioni al socialismo non ci vengono più dal liberalismo, dalla scuola della libera concorrenza; ma da tutt’altra parte: dalle inclinazioni sempre più accentuate verso la statolatria e la dittatura. Mai il problema del socialismo si pose così essenzialmente come un problema di libertà e di autonomia“. E poi, infine: “Tra fascismo e socialismo, tra fascismo e libertà, non esistono mezzi termini, non c’è possibilità di transazione: da una parte o dall’altra. Ogni concessione, volontaria o no, diventa, oggi, tradimento o complicità. Tra libertà e statolatria, bisogna che la Internazionale scelga. Il duello è dovunque lo stesso. Tutti i popoli sono, a questo riguardo, un popolo solo. La solidarietà tra noi deve essere assoluta, operante, intera. Il problema che il fascismo pone alla Internazionale è quello di Amleto: Essere o non Essere”. Emilio Vandervelde, il grande amico nostro, richiamando quest’ultimo passo nella “Libertà”, aggiungeva questo commento scultoreo, che ne sottolinea tutta l’importanza: ” Non basta avere acclamato tali parole. Più che mai in quest’ora si impone a tutti di vedere in esse una norma di azione “. Una norma di azione.

Due anni dopo, a Vienna, si tratterà di stabilire il metodo socialista della politica estera, e di fissare se e come il problema universale della pace e del disarmo possa consentire transazioni col fascismo, solo perché questo è imperante. Filippo Turati è esplicito: sembra recare la voce stessa della Concentrazione antifascista. Non si fa ne pace ne disarmo col fascismo. Non si fanno conquiste di democrazia con l’antidemocrazia. Ogni vantaggio dato all’antidemocrazia si volgerà contro la democrazia. E’ vantaggio suicida. La predica era particolarmente diretta a certo ingenuo agnosticismo del laburismo britannico. Ma va ben oltre come certe recenti campagne dimostrano. E a Bruxelles fu per la commemorazione di Matteotti, inaugurando l’ara votiva eretta al Martire dal Partito Operaio Belga nella “Maison du Peuple“.

Quel discorso, che non si legge senza fremiti di pianto e di collera, è diventato un testo religioso, sul quale, a milioni e milioni, in tutti i paesi, sono coloro che nutrono il loro consenso, e direi, la loro “complicità” alla nostra angoscia incancellabile, ai nostri progetti di riscatto. Quel discorso ha gittata ai quattro venti perché sia disseminato nell’universo, il polline della nostra fede; ha elevato il Mito, meglio, il simbolo, come lui disse, di quella terra promessa, di quell’avvenire di giustizia che il “giovane arciere” aveva preconizzato e ricercato con tanto ardimento, verso il quale correva con tanto slancio “allorché la Parca dagli occhi di vetro l’arrestò d’improvviso, lo abbracciò, lo strangolò baciandolo sulla bocca”.

Quando “la tempesta miete più numerose le vittime, quando l’uragano della barbarie più schianta la foresta sociale, e il cuore degli uomini è troppo piccolo e non basta per piangere tutti i sacrificati, uno per uno, ed ha bisogno di riassumerli, di impersonarli in uno solo“; il nome ed il volto di Matteotti – per la virtù del verbo di Filippo Turati – sono diventati il nome ed il volto di un intero popolo, di tutta una civiltà rapinata ed annichilita. E poiché il fascismo non è un fenomeno italiano, ma, sotto forme diverse, palese o latente, è il fenomeno caratteristica di quest’ora di storia in tutte le nazioni capitalistiche e, pertanto, l’Internazionale dei lavoratori non è più un semplice ideale di solidarietà umana, ma una necessità comune, urgente, di difesa e di vita. Turati chiedeva se la ospitalità dei compagni belgi portata al nostro dolore implicava una riconoscenza unilaterale e rispondeva: no. La riconoscenza è reciproca: “il martire affidato alla vostra custodia amica ed armata fino al giorno della risurrezione, è vostro sangue, come fu nostro sangue. La sua vittoria, la sua risurrezione, saranno la vittoria comune”.

Così sempre Filippo Turati vide e proclamò l’universalità della nostra lotta. La nazione martire suona la diana ammonitrice dei martiri che si preparano, ove non siano vigili le difese e pronti gli ardimenti salvatori. L’ammonimento di Bruxelles scosse la coscienza, ma egli lo ribadiva quando a Bruxelles ritornò per deporre nel processo di Fernando De Rosa, e quando a Lugano accorse per rendere testimonianza nel processo contro Giovanni Bassanesi, reduce invitto del volo antifascistico su Milano, foriero di quello del vinto vincitore Lauro De Bosis nel cielo di Roma; che Egli esalterà con parole di fiamma viva. Poiché Egli nella perenne giovanilità del suo spirito aveva adottato, dopo Matteotti, come figli più vicini al suo cuore tutti i giovani con cui comunicava nel fervore delle speranze, nell’eroismo del sacrificio, nell’ardente volontà dell’azione.

E perché era intimamente buono, e aperto a tutti i dolori e le angustie umane, egualmente comunicò con tutti i poveri, gli sbattuti, i bersagliati dell’emigrazione, con tutti i cenci umani raminghi, senza carte, reietti dal lavoro e dal diritto di asilo. Con tutti quelli della strada Egli spezzò il pane del suo cuore, senza affettazione di francescanismo, in un culto di evangelo laico che, a così dire, eguaglia il benefattore e il beneficiato. Eroismo della bontà, senza storia. Bisogna avere passato – come ho dovuto passare io – tutta quella sua corrispondenza, diligente, in doppia e tripla copia, scrupolosa, premurosa, che fu un miracolo tutto suo – dì Lui, per il quale tutti i doveri erano eguali, tutti obbliganti ad un modo. Attraverso di essa, quale coscienza si eleva! Quale prodigalità di se, quale tenerezza per ogni postulante, quale attività di bene! E come si indovinano le lunghe corse per la immensa città cui si sobbarcava questo vegliardo, e le snervanti attese negli uffici e le incomprensioni dei funzionari, e i faticanti colloqui con gli uomini politici per perorare, il diritto degli uomini senza diritto, per strappare insperate vittorie consolatrici di miseri ignoti, vittorie di una intrepida virtù, che non ha altro premio che in sé stessa! E poi, qualcuno, anche schernirà, morto, il “protettore”.

Ed ora? Ora che due mesi sono trascorsi da quella notte – e giorno per giorno in noi è cresciuto lo sbigottimento della sua fatale dipartita e l’anima si ribella alla rassegnazione – ora che ci resta? Ci resta un esempio di virtù perfetta. Ci resta la gloria e l’orgoglio che Egli fu nostro e che, Egli, in noi e in quelli che verranno dopo di noi, vivrà eterno. Egli è entrato “nella migliore storia d’Italia” e nessuna diabolica potenza di male ne lo districherà più se anche a Lui, morto, contende in patria il nome, che le fa paura. Egli è entrato nella storia dell’Internazionale fra i più grandi dei suoi figli. Il suo semisecolare apostolato già brilla di tutta la sua luce. Egli già rifulge come il vittorioso. Non abbiamo già veduto molti che l’avevano disconosciuto, riconoscerlo? Non abbiamo già veduto, molti ricevere, piangendo, la rivelazione che egli aveva, sempre scontato il torto di avere ragione? Se un solo uomo avesse potuto bastare a salvare la patria, il proletariato, la civiltà Egli quella perfetta equazione di sentimento e di intelletto che era poesia, passione lirica, ed era riflessione, esperienza, senso di responsabilità ed azione l’avrebbe fatto.

Ma la sua gloria è la più vivida, poiché fiammeggia del tormentato destino che Egli volle darsi per troppo amore. Quando nel tempio crematorio del Pére Lachaise le fiamme riducevano in cenere quella che era stata la materia fisica dell’ Esule, nel rito ardeva e si spegneva anche ciò che era stato di meglio nella vita di un secolo, nato tra le promesse rosee e vermiglie di libertà di giustizia, di benessere, e folgorato, appena all’inizio del suo corso, dalla guerra – di cui non sa ancora come liberarsi – e dalle terrificanti conseguenze che continuano ad ingenerarsi, le une dalle altre, da una catena inesorabile di violenze, di crisi, di miserie, di addii e di tirannidi. Ed ognuno intendeva che la missione compiuta in lui continuava nei superstiti, peso tremendo a portarsi. E lui non è più là a sostenere sulle spalle possenti la parte maggiore!

Il problema della rivoluzione italiana – quale Egli lo vide – diventa il fuoco del problema universale. Non lo dico per una insana sopravalutazione di rapporti nazionali ma perché l’Italia martire è il punto di contesa più tragico degli elementi avversi che ferocemente si disputano l’avvenire. Profeta anche in ciò. Quale destino è stato il tuo, Filippo Turati: un poco esule sempre, anche nei dì delle più trionfali battaglie in patria, di fronte a tante incomprensioni! Camminare davanti agli uomini, non per dominarli, ma per illuminare loro la via è dunque un’anticipazione che non si perdona. E’ dunque scritto che ogni generazione debba ritessere tutta la tela dell’esperienza per arrivare, dopo lungo errore a riprendere il cammino dove il Veggente aveva gittato il grido della verità, l'”Eureka” della saggezza? E tale sia la sorte, se i veri e gli auspici e gli esempi del veggente siano piamente raccolti e fortemente trasmessi. Il riscatto è a questo prezzo o non sarà mai.

Amore schietto dell’uomo, spirito intrepido nel cercare la verità e nel proclamarla, cuore saldo davanti ai disconoscimenti delle folle, più amari della persecuzione dei potenti e della violenza dei manigoldi, ripudio fermo di ogni cortigianeria davanti alle folle, davanti ai re spirito, infine, sempre pronto alla immolazione e fede, fede, invincibile fede, poiché la vita è quella cosa “che va presa sul serio” fede eguale nel compito di ogni giorno come nel compito dei grandi giorni, dei giorni della vittoria, e ancora più in quelli della disfatta. “Vivere, insomma – come diceva Roberto Ardigòcome se ogni giorno si dovesse morire e come se non si dovesse morire mai“. Liberate la parola da ogni rudagioso ricordo. Filippo Turati fu e resterà un Educatore. Tale lo gridano i giovani dalle geenne della patria, dai reclusori e dagli esili. Tale lo invocano i liberi, che operano valorosamente. La sua tragedia ha un valore di incitamento universale. La virtù è forza. La forza non si disperde mai. Per ciò Filippo Turati vive e vivrà. L’esilio che non fu per lui un ozio, ma, anzi, l’ultima barricata, è stato altresì il calvario, dall’alto del quale ha detto al mondo la parola suprema della sua salvezza nell’ultima battaglia fra la luce e le tenebre, tra il bene e il male, tra la libertà e la tirannide.

Vive e vivrà incorporato al corpo immortale della patria, inviscerato nell’umanità. L’apoteosi è cominciata con la fiamma del suo rogo, e continua in quelle ceneri che il piccolo loculo del cimitero straniero custodisce per l’Italia redenta. Poco lungi sono le ceneri di Eugenio Chiesa; più oltre, i resti di Piero Gobetti; il Pére Lachaise è il tabernacolo dell’alleanza italo-francese… Ed oltre, altri ed altri. Ora tutti tra breve si leveranno a fargli corona: tutti i morti per l’ideale, tutti gli assassinati, i trucidati dalla barbarie fascista; tutti in Lui risusciteranno, quando, infine, sarà assolto tutto il castigo iniquo ed orrendo, e la patria libera sarà, e sarà il santo socialismo – per cui furono tutti i palpiti del suo cuore – ed una umanità umana alfine vivrà nella gloria di un trionfo senza tramonto. Nei secoli, immortalmente, la tua vita, o Turati!

Non passavano tredici mesi, ed anche Claudio Treves, poche ore dopo aver rievocato, il 10 di giugno 1933, la memoria e l’opera di Giacomo Matteotti, soccombeva folgorato nel sonno dall’aneurisma e andava a raggiungere il Maestro al cimitero del Pére Lachaise, donde sedici anni dopo, l’11 di ottobre 1948 le ceneri di entrambi venivano traslate a Milano e custodite nel Cimitero Monumentale, mèta del devoto omaggio di quanti onorano e onoreranno per sempre chi della propria vita fece, com’essi, dedizione piena, inesausta a una fede. Con Treves e con Turati si chiuse veramente il periodo semisecolare dell’apostolato del socialismo italiano.

 

La cerimonia funebre al cimitero Père-Lachaise
“Dall’esilio ti sei forgiato un’arma formidabile. Del calvario hai fatto una insuperabile barricata. Grazie Filippo! Tu ci hai dato l’insegnamento supremo: la dignità dell’esilio. Vecchia storia italiana questa, da Dante a Mazzini. Gli italiani più veri sono i fuoriusciti. Sul rogo di Garibaldi, Giosuè Carducci augurava che i partiti gettassero la feccia delle loro discordie. Sul tuo rogo, Filippo, io auguro che gli antifascisti italiani sappiano gettare ogni particolarismo di formule per serrare l’unità inflessibile nell’azione”.

dall’orazione funebre di Claudio Treves

 

“…appartenente a quella plejade di giovani della borghesia che furono tra i pionieri della causa socialista in Italia, Turati ebbe il babbo prefetto del regno. Figlio unico, agiato, adorato dai suoi, col suo grande impegno, la parola facile e caustica, l’aristocratica penna, la vasta cultura, avrebbe potuto, con sicurezza di successo, scegliere qualsiasi strada, militare in qualsiasi campo. Andò incontro alle plebi, si consacrò alla loro elevazione, per generoso impulso di cuore”.

Alessandro Levi (1924)

 

“… Turati resta per le giovani leve dell’antifascismo socialista e liberale il simbolo di una tradizione di civiltà da levare in alto nel momento della disfatta a significare una volontà di riscossa disposta a fare i conti anche coi tempi lunghi della storia, quale ne sia il costo”.

Gaetano Arfe’

 

“… Turati vivrà, come vive Matteotti, nell’ammirazione e nell’amore di coloro per i quali il proprio sacrificio è un esempio e la propria intransigenza contro le tirannie è un conforto inestimabile”.

Emile Vandervelde, presidente dell’Internazionale Operaia Socialista

 

“… quando l’Italia si sveglierà – ritroverà la sua strada naturale, la sua vita dei grandi giorni; riprenderà nello sforzo comune di liberazione, il suo posto un momento abbandonato. Quel giorno, quando l’Internazionale terrà uno dei suoi congressi al Palazzo dei Dogi o in Campidoglio, Matteotti sarà vendicato, Turati sarà vendicato e con essi tutti gli eroi e tutti martiri”.

Léon Blum

 

“… rare volte si presentò sulla scena politica un intelletto e un carattere di pari nobiltà e dirittura che abbia, come Filippo Turati, considerato la partecipazione alla vita politica siccome una missione un apostolato che esiga la dedizione intiera e disinteressata dell’uomo al servizio del suo ideale, senza risparmio di fatiche, senza risparmio dei rischi inevitabili, senza preoccupazione delle ostilità e ingiurie degli avversari e dell’incomprensione ed ingratitudini di molti fra gli stessi compagni di lotte, sereno e costante in mezzo alle amarezze ed alle avversità”.

Rodolfo Mondolfo (1966)

 

“…Il merito storico di Turati, quel che gli assicurerà immortalità negli annali della democrazia italiana, sarà in effetti l’inserzione dei sogni concreti e delle espressioni spontanee della classe operaia nel processo di sviluppo dello Stato democratico – liberale, che, appunto per ciò, prendeva la strada della legislazione sociale a tutela del lavoro, e la parallela educazione politica, organizzativa, sindacale e amministrativa del proletariato, la cui forza elettorale e la cui capacità di fare conquiste economiche e sociali aumentava oltre ogni speranza dei pionieri nella misura in cui si batteva la via turatiana”.

Leo Valiani


Turati si spegne il 29 marzo 1932 in casa di Bruno Buozzi, in condizioni di estrema povertà.
“Né la disfatta, né l’esilio attenuarono la nostra fede, o indebolirono le nostre speranze. Al contrario, è questa stessa disfatta, è questo stesso terrore, generato da un terrore, contrario e maggiore, dei nostri avversari, che ci danno la maggiore certezza della non lontana vittoria. Noi siamo, e saremo, ciò che fummo.
Morremo avviluppati in questa stessa bandiera ».
(l’ultimo messaggio)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un sincero ringraziamento a Nicolino Corrado per il materiale storico fornitoci