di Nicolino Corrado
Rodolfo Mondolfo nacque a Senigallia il 20 agosto 1877 da un’agiata famiglia di origine ebraica. Dopo gli studi liceali si trasferì a Firenze dove, dal 1895 al 1899, frequentò la sezione di filosofia e filologia dell’Istituto di studi superiori e pratici. Gli anni fiorentini furono fondamentali nella formazione politica di Mondolfo; tramite il fratello maggiore Ugo Guido entrò nel gruppo di intellettuali socialisti che si riunivano nella casa di Ernesta Bittanti, futura moglie di Cesare Battisti, tra i quali Gaetano Salvemini e lo stesso Battisti. Agli inizi del ‘900, iniziò la collaborazione con Critica sociale di Filippo Turati, la più importante rivista del socialismo italiano, interrotta solo dalla chiusura del periodico da parte del regime fascista, nel 1926, ma ripresa nel secondo dopoguerra; i suoi articoli ebbero per oggetto, perlopiù, i temi politici e quelli dell’educazione e della laicità della scuola.
Dopo alcuni anni di insegnamento nei licei, Mondolfo approdò a quello universitario fino ad ottenere, nel 1914, la cattedra di storia della filosofia a Bologna.
Mondolfo divenne un protagonista del dibattito sulla fine del socialismo (Croce, 1911) e sulla messa “in soffitta” del marxismo (Giolitti, 1911), operando una “ricostruzione” del marxismo come “filosofia del socialismo”, resa urgente dalle lotte politiche nel PSI alla vigilia della guerra italo-turca; ricostruzione che lo portò ad affrontare il chiarimento teorico delle posizioni di Ludwig Feuerbach, Karl Marx, Friedrich Engels e Ferdinand Lassalle.
La “filosofia del socialismo”
Per Mondolfo, nel socialismo si riscontra “l’assenza di un’anima teorica, di una direttiva filosofica”, c’è dunque “bisogno di un orientamento filosofico” (R. Mondolfo, Rovistando in soffitta in Critica sociale, 1911).
L’”orientamento filosofico”, secondo il filosofo socialista, è necessario tanto ai riformisti quanto ai rivoluzionari. I primi hanno ritenuto “la teoria superata nella pratica” e quindi hanno rifiutato di rifare i conti con la filosofia, mentre i secondi non hanno mai davvero riflettuto su quella “filosofia volontaristica” alla quale pure dicevano d’ispirarsi. Infatti, “nessuna tendenza, vecchia o nuova, che sorga nel partito socialista, potrà mai prescindere da quella necessità preliminare che Marx ed Engels per i primi sentirono: la necessità di fare i conti con la filosofia”, senza la quale non si danno né “chiara consapevolezza delle premesse”, né “netta visione del fine, [che] sono le due condizioni della coerenza nel pensiero e della sicurezza nell’azione” (Socialismo e filosofia, in L’Unità, 1913).
Il “peccato di origine” del socialismo in tutte le sue versioni, per Mondolfo, è stato d’affidarsi al cosiddetto “socialismo scientifico“, responsabile di aver separato “la celebre frase di Marx, che non la coscienza determini l’essere dell’uomo, ma il suo essere sociale determini la sua coscienza […] da quella filosofia della prassi che le conferiva il giusto valore”. Questa scissione è all’origine del determinismo, dell’economicismo e del materialismo meccanicistico che annullano l’ispirazione volontaristica e umanistica nell’insegnamento di Marx: “se esaminiamo senza prevenzioni il materialismo storico, quale ci risulta dai testi di Marx ed Engels, dobbiamo riconoscere che non si tratta di un materialismo ma di un vero umanismo, che al centro di ogni considerazione e discussione pone il concetto dell’uomo.” (La concezione dell’uomo in Marx, 1962, in Umanismo di Marx).
Mondolfo arriva a queste conclusioni dopo aver approfondito, negli anni precedenti, il pensiero politico dell’età moderna, una ricerca analoga a quella del leader del socialismo francese Jean Jaurès, che cercava di rendere compatibili con il materialismo storico il giusnaturalismo e la dottrina dei diritti dell’uomo.
Per Mondolfo, la libertà dell’agire degli uomini è il motore della storia, ma non si tratta di una libertà assoluta, poiché l’uomo trasforma con la sua azione la natura e la storia sempre a partire da condizioni date, e l’ambiente da lui trasformato reagisce, a sua volta, sull’uomo: è il concetto di “rovesciamento della prassi”.
In Marx ogni momento della storia è legato alle condizioni reali esistenti. Cosicché il passato condiziona il presente e questo l’avvenire; ma al tempo stesso è anche stimolo e impulso all’azione ulteriore modificatrice, sicché lo sviluppo storico risulta dalla confluenza e dal contrasto insieme di due elementi: le condizioni reali e la volontà umana (Feuerbach e Marx, 1909, in Umanismo di Marx).
Pertanto, come ribadirà successivamente, “non possono darsi leggi ineluttabili che s’impongano all’uomo; non può esserci una fatalità nella storia, come quella che attribuivano a Marx ed Engels i loro avversari ed attribuiscono loro anche ora molti che parlano del marxismo come di una teoria che crede nei processi automatici della concentrazione delle ricchezze, della formazione del proletariato sempre più esteso, della miseria crescente, della legge di bronzo dei salari – tutti processi contro i quali l’uomo non potrebbe lottare, tutte leggi fatali, ineluttabili. Per Marx ed Engels, invece, sono unicamente leggi di tendenza; vale a dire: le cose avrebbero ognuna in sé la tendenza a svilupparsi in una certa forma determinata; ma questa stessa tendenza produce la reazione dell’uomo; e la reazione umana può giungere a deviar la tendenza, ad annullarla o a modificarla in qualsiasi senso.” (La concezione dell’uomo in Marx, 1962, in Umanismo di Marx).
Filippo Turati e il socialismo italiano
Mondolfo vede le sue concezioni tradotte nella storia attraverso l’azione politica di Filippo Turati e dell’ala riformista del PSI. Con il congresso di Roma (1900), il partito, sotto la spinta di Turati, aggiorna il “programma minimo”, elaborato dal Consiglio nazionale nel 1895 e indicativo di obiettivi concreti perseguibili nell’immediato. Per Turati, il “programma massimo”, ovvero la socializzazione dei mezzi di produzione, stabilito dal congresso di fondazione a Genova (1892) è “una previsione e una bussola di orientamento; il portato delle cose, lo sbocco dell’evoluzione. La vita effettiva del partito è nel movimento volontario, nel cosciente assiduo divenire. E il programma [minimo] non ne è che la rapida e mutevole espressione o formulazione teorica. Inoltre, “ognuna delle riforme indicate, presa per sé, può non essere peculiarmente socialista; generalmente anzi, esse non lo sono. Ma lo spirito socialista, il valore socialista di ciascuna è nella connessione con le altre, è nella connessione di tutte con lo scopo generale comune; è nel carattere di materialismo economico che generalmente le informa; è nel metodo sopratutto con il quale il partito intende attuarle, o servirsene a modificare i presenti ordini sociali: la pressione, cioè del proletariato, organizzato in partito di classe al fine socialista.”(F. Turati, C. Treves, C. Sambucco, Il programma minimo socialista, Relazione, in Critica Sociale, 1 settembre 1900).
A giudizio di Mondolfo, l’adozione di un “programma minimo”, indicativo di obiettivi concreti perseguibili nell’immediato, da cui deriva la scelta della democrazia elettiva, è la “dichiarazione di una visione storica anticatastrofica: affermazione della possibilità di un’azione socialista e di conquiste socialiste anche prima della dittatura del proletariato; riconoscimento dell’importanza dell’azione volontaria continua e graduale per la formazione delle coscienze e per la preparazione delle condizioni di maggiori ed ulteriori attuazioni del fine. La rivoluzione socialista veniva – per il fatto stesso dell’esistenza di un programma minimo in progressivo e continuo processo di sviluppo e rinnovamento – considerata essa medesima come un processo di sviluppo graduale e continuo, nel quale l’azione di ogni giorno apre la via e dà l’impulso all’azione ulteriore, e la coscienza, operando, forma e sviluppa se stessa e stimola il progressivo svolgimento proprio.” (Introduzione a Filippo Turati, Le vie maestre del socialismo).
Mondolfo, rendendo omaggio alla memoria di Turati nel secondo dopoguerra, dirà:
Rare volte si presentò sulla scena delle lotte politiche un intelletto e un carattere di pari nobiltà e dirittura, che abbia, come lui, considerato la partecipazione alla vita politica siccome una missione e un apostolato che esiga la dedizione intiera e disinteressata dell’uomo al servizio del suo ideale, senza risparmio di fatiche, senza timore dei rischi inevitabili, senza preoccupazione delle ostilità ed ingiurie degli avversari e dell’incomprensione e ingratitudine di molti fra gli stessi compagni di lotta, sereno e costante in mezzo alle amarezze ed alle avversità.
La propaganda socialista aveva sopratutto il ruolo di “una educazione costante delle masse proletarie, che le abilitasse alla azione politica di trasformazione della struttura sociale. Contro le concezioni sindacaliste e massimalistica, che del pari vedevano nell’infatuazione del mito rivoluzionario l’unica preparazione occorrente al proletariato – una preparazione del tutto negativa, di opposizione all’organizzazione esistente per farla crollare – Turati concepiva ed affermava la necessità di un’educazione positiva da compiere in una continua creazione costruttiva di nuove forme, di nuovi rapporti, di nuove istituzioni, in cui non solo si andasse modificando la società, oggettivamente, ma si formasse la preparazione soggettiva alla gestione sociale, con l’educazione delle coscienze, con l’orientazione delle volontà, delle esigenze, delle norme di condotta”.
Nel riformismo e gradualismo turatiano c’è “l’idea essenziale di una trasformazione sociale … opera diuturna e progressiva creazione di istituti nuovi ed educazione di coscienze, cioè trasformazione oggettiva (di cose) e soggettiva (di spiriti) ad un tempo, che si compie nell’azione e per l’azione economica e politica. Contro ogni catastrofismo e messianismo c’è qui l’idea di una rivoluzione che è trasformazione creativa, che va sostituendo alle strutture esistenti nuove strutture, coordinate in un piano progressivo, che traducono via via in atto l’ideale, in modo che ogni conquista raggiunta sia preparazione e passaggio a conquiste ulteriori: conquiste reali e positive, che si operano nelle cose e nelle coscienze insieme e per ciò sono salde e durevoli. Sono le riforme concepite come graduale attuazione di un rinnovamento totale: è una continuità di azione trasformatrice che introduce uno spirito nuovo via via in tutti i rapporti sociali; una prassi veramente e concretamente rivoluzionaria, che modifica l’ambiente e gli uomini in modo uguale e congiunto. È il concetto marxistico della prassi che si rovescia, dell’azione umana che, mossa dalle esigenze della vita, cambia le condizioni oggettive e con ciò cambia la stessa soggettività degli uomini. Le riforme che cambiano via via la struttura sociale sono una rivoluzione in cammino, l’unica che si compia saldamente ed in una maniera reale.”
Per Mondolfo, sono due, in particolare, i punti del pensiero di Turati che risaltano per la loro importanza morale e storica:
1) la concezione del legame tra il valore morale e la capacità di azione storica del partito socialista, che non può rispondere alla sua missione universale, “se non mantenga viva la consapevolezza di se stesso e della sua responsabilità storica nella costante rivendicazione della libertà del pensiero contro ogni settarismo intollerante e dogmatico, e nell’esigenza e nel rispetto della sincerità delle convinzioni, delle parole, degli atti”.
2) “l’affermazione costante dell’antitesi fra il concetto di forza storica e il concetto di violenza; antitesi, che implica e in qualche modo riassume in sé tutte le altre, che posero Turati contro il rivoluzionarismo sindacalista prima, contro il massimalismo comunista poi”. Infatti, “in una costituzione politica, che l’iniziale impulso della rivoluzione francese doveva condurre, ed ha condotto, al suffragio universale, la caratteristica essenziale è un mutevole equilibrio di forze, che si fanno valere in proporzione della loro reale consistenza ed attività, e la cui risultanza quindi si sposta a seconda del variare della compattezza e capacità di ciascuna. Perciò l’ascensione del proletariato e la grande trasformazione storica, alla quale essa deve portare, si delineano come un progressivo prevalere della sua forza, proporzionale all’accrescimento della sua consapevolezza e maturità, che traducono in energia reale la dinamica potenziale del suo numero. Sicché il nucleo più cosciente di esso tende sempre a farsi centro d’attrazione di energie vive, per comunicar loro la consapevolezza e capacità: e in ciò trova la sua forza storica, ossia non soltanto la potenza di ottenere un momentaneo resultato con la pressione, che esercita a un certo istante sulla bilancia, ma di rendere permanenti ed irrevocabili le sue conquiste, in quanto rispondono ad esigenze materiali e morali, di interessi e di giustizia”.
In ciò risiedono, prosegue Mondolfo “l’alto valore morale e efficacia storica del movimento socialista. Forza storica che, pur non potendo escludere l’eventuale momentanea necessità di un violento colpo di spalla, cui l’abbia a costringere la violenza avversaria, non ha però affatto bisogno di teorizzarne la previsione, e tanto meno di farne un metodo abituale e costante”.
Piuttosto, l’esaltazione e l’esercizio della violenza sono “l’azione propria di una minoranza, che in quanto tale ha bisogno di imporsi; e che perciò si fa centro di repulsione anzi che di attrazione, sforzo di compressione anzi che di liberazione; che sente vacillare continuamente le sue conquiste per il contrasto di forze, che si manifesterebbero preponderanti, se non restassero paralizzate dalla minaccia e dal terrore. La violenza, teorizzata quale metodo dell’azione socialista e quale creatrice della società socialista, è dunque il non senso e la contradizione in termini, contro cui sempre ha suonato vigorosa e ferma la voce di Filippo Turati.” (Introduzione a F. Turati, Le vie maestre del socialismo).
La crisi del primo dopoguerra
Il nucleo della “filosofia del socialismo” elaborato negli anni 1908-13, originale approccio al pensiero marxiano venne ripreso, sviluppato, e messo a confronto con i nuovi problemi nati dalla crisi del primo dopoguerra: la rivoluzione d’ottobre ed il fascismo. Mondolfo individua nel leninismo un blanquismo di ritorno che pretende di “accelerare con la violenza il ritmo della storia”. Mostra diffidenza nei confronti di qualsiasi manomissione delle forme della democrazia e delle garanzie del parlamentarismo, cioè di quella “dittatura del proletariato” che in Russia, per l’arretratezza delle condizioni sociali assume forme autoritarie. Concorda sul fatto che “per il successo di una rivoluzione […] non basta aver sgominato il nemico esteriore; bisogna che il nemico non risorga entro le stesse schiere vittoriose” (Il problema sociale contemporaneo, 1920, in Umanismo di Marx); ma quando ciò si verifica è già segno evidente del carattere prematuro della rivoluzione, che rende inevitabile il distacco tra l’élite e la massa l’uso della violenza. Queste posizioni avevano suscitato gli attacchi del giovane Gramsci che aveva accusato Mondolfo di “marxismo professorale”, di “amore grammaticale” per la rivoluzione, di voler esaminare i grandi cambiamenti storici con il “senso filologico dell’erudito” (L’Ordine nuovo, 15 maggio 1919).
Riguardo al fascismo, l’unica analogia storica che Mondolfo vede è con “la dittatura bolscevica, con la quale esso condivide l’affermazione del principio della violenza, il dogmatico assolutismo che condanna qualsiasi diversità di opinioni e perseguita gli eretici”.
Il regime fascista e l’esilio in Argentina
Dopo il 1926, il clima politico instaurato dal fascismo impedì a Mondolfo di continuare il discorso pubblico sui temi ideologici e politici, facendogli spostare i suoi interessi sul pensiero dell’antichità classica; non cessò, però, di riflettere sul marxismo e sul socialismo. In particolare, fu intensa la sua collaborazione con l’Enciclopedia italiana, diretta dall’amico Giovanni Gentile, per la quale scrisse voci come Materialismo storico, Comunismo, Socialdemocrazia, Socialismo, Labriola.
Nel 1938, con l’entrata in vigore delle leggi razziali, Mondolfo fu rimosso, in quanto ebreo, dall’incarico universitario. L’anno successivo si trasferì con la famiglia in Argentina, ottenendo la cattedra di greco antico presso l’Università di Córdoba, dove si trattenne dal 1940 al 1948; dal 1948 al 1952 insegnò storia della filosofia antica all’Università di Tucumán.
Dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, Mondolfo fu reintegrato nel ruolo dei professori universitari e nella cattedra di storia della filosofia dell’Università di Bologna, ma non vi ristabilì la propria residenza, spostandosi tra Italia e Argentina, dove ebbe tensioni con il regime peronista e le dittature militari.
In questi anni il filosofo fa propria, in modo risoluto, la categoria del “totalitarismo” (Il “problema storico” di Hilferding, 1958, in Umanismo di Marx) e polemizza con i Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, pubblicati alla fine degli anni ’40, pur riconoscendo al pensatore comunista “di aver decisamente distinto la filosofia della prassi dall’economismo storico, di aver rivalutato l’uomo come artefice della sua storia”:
“Nella situazione storica o nella concezione dogmatica in cui un’ortodossia, che solo abbia diritto all’espressione, si oppone alle eresie che debbono essere fatte tacere e condannate a priori, non c’è posto per un proletariato che possa farsi l’erede della filosofia, e per la formazione di una società in cui il libero sviluppo d’ognuno sia condizione per il libero sviluppo di tutti: c’è posto solo per un gregge di pecore obbedienti al bastone del padrone e al latrato dei suoi cani, la quali seguono il cammino imposto anche quando muta col mutare del pastore o della sua arbitraria volontà.” (Intorno a Gramsci e alla filosofia della prassi, 1955, in Umanismo di Marx).
Mondolfo morì a Buenos Aires il 16 luglio 1976 a quasi di novantanove anni. Egli fu senza dubbio il maggiore teorico del socialismo italiano: come osserva Paolo Favilli, la sua “filosofia del socialismo” ebbe un carattere di compattezza e di sistematicità assente negli scritti degli altri pensatori socialisti. Nell’ambiente ideologico della Seconda Internazionale, permeato dall’evoluzionismo e dal positivismo, essa rappresentò il tentativo più ambizioso di elaborare un’interpretazione del pensiero marxiano compatibile con l’attivismo dell’uomo e con i valori del liberalismo e della democrazia. Sarà un socialista della nuova generazione, Carlo Rosselli, amico di Mondolfo, a separare il socialismo dal marxismo, considerato ormai non più una “bussola”, come per il filosofo di Senigallia, ma una “zavorra ideologica” per l’azione politica del movimento socialista.
Per approfondire:
Mondolfo, Introduzione a F. Turati, Le vie maestre del socialismo, Cappelli, 1921 (rist. anast. 1982).
Mondolfo, Umanismo di Marx, Einaudi, 1975.
Calabrò, Il socialismo mite. Rodolfo Mondolfo tra marxismo e democrazia , Polistampa, 2007.
Calabrò, Carlo Rosselli e Rodolfo Mondolfo, in Del Corno N. (a cura di), Carlo Rosselli: gli anni della formazione e Milano, Biblion, 2010.
P. Favilli, Rodolfo Mondolfo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 75, Treccani, 2011.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.