di Bettino Craxi
Penso innanzitutto che la celebrazione del centenario di Garibaldi non debba risolversi in una pura parata di soli simboli, tutti scontati, freddi ed insignificanti. Essa offre piuttosto l’occasione per una grande riflessione storica e politica, sulle tradizioni e sulle radici dell’italia moderna, dalla quale trarre motivi morali che possano valere per i nostri compiti ed i nostri doveri di oggi… Chi non è capace di trarre insegnamenti dalla storia, difficilmente può avere di fronte a sé un grande avvenire. Una nazione che non conosce o ha dimenticato le proprie radici difficilmente riuscirà ad essere veramente tale e ad esprimere sempre, in ogni circostanza, in ogni momento difficile, la forza necessaria per superare gli ostacoli e per vincere le difficoltà che gli si parano dinanzi.
Eppure talvolta sembra che conosciamo meglio e più in dettaglio la storia degli altri Paesi che non la nostra. Ci entusiasmiamo per esempio alle vicende di avventure storiche e di eroi d’Oltralpe e di Oltreoceano e non conosciamo o dimentichiamo i nostri, i loro grandi sacrifici, le loro dolorose esperienze, la grande passione e la genialità che essi seppero infondere alla lotta che condussero per fare dell’Italia una nazione libera e indipendente. Talvolta, quasi come ipnotizzati e colonizzati dalla invadente produzione cinematografica e televisiva di massa di altri Paesi, siamo sospinti a conoscere tutto dei personaggi dell’epopea del West o della Rivoluzione francese, e non sappiamo, faccio un esempio, che dopo l’impresa del Mille, Abramo Lincoln, difettando di grandi generali, si rivolse a Garibaldi per offrirgli il comando delle armate federali americane all’inizio della guerra di secessione, invito al quale Garibaldi rispose: “Non posso andare pel presente negli Stati Uniti. Ma se la guerra dovesse per mala sorte continuare nel vostro Paese, io mi affretterò a venire alla difesa di quel popolo che mi è tanto caro”.
O che nella guerra franco-prussiana del 1870 Garibaldi, accorso in difesa della Francia e del governo rivoluzionario della Comune, vinse la sola battaglia vinta dalla Francia in quella guerra e fu poi eletto deputato all’Assemblea nazionale francese in ben sei circoscrizioni di quel Pese. Per non parlare dei tanti personaggi straordinari, famosi ed oscuri, con le loro storie umane, eroi che, dolorose, fantastiche, che riempiono la epopea garibaldina in Italia e nel mondo, e ognuno dei quali meriterebbe una storia ed un racconto a parte.
I problemi sono certo oggi di natura diversa, in un contesto che è profondamente mutato ed enormemente progredito, ma – per la loro complessità e gravità – sono anch’essi tali da richiedere egualmente, prima di ogni altra cosa, la qualità degli uomini, ed un alto grado della loro volontà, del loro senso di giustizia, del loro spirito di sacrificio, di lavoro, di solidarietà, di responsabilità e di lotta. Cento anni fa (2 giugno 1882 ndr.) Garibaldi moriva a Caprera, la piccola isola accostata alla Sardegna, dove aveva trascorso lunghi periodi e poi tutti gli ultimi anni della sua vita.
Da tempo ormai egli era all’opposizione della nuova Italia ufficiale di cui disprezzava e denunciava la corruzione pubblica, le ingiustizie sociali, la inconcludenza parolaia del mondo politico. Di fronte al problema dell’unità d’Italia aveva sostenuto la monarchia piemontese dei Savoia. Egli lo ricorda nel suo “testamento politico” quando dice di essersi attenuto “al gran concetto di Dante”: “fare l’Italia anche col diavolo”. Ma ora, di fronte al governo monarchico è tornato repubblicano: “potendolo, e padrona di se stessa, l’Italia deve proclamarsi repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquecento dottori, che dopo averla assordata con ciance, la condannano a rovina”.
Il legame con la Sicilia
Dalla sua morte passeranno ancora 65 anni prima che si realizzi l’ideale della Repubblica mentre ad un secolo di distanza, di quel tipo di dottori di cui egli parlava, politicanti di bassa taglia, ce n’è purtroppo in circolazione ancora un numero eccessivo a rendere più fragile e pericolosamente inquinata la vita delle nostre istituzioni democratiche e repubblicane.
L’ultimo viaggio che fece, due mesi prima di morire, vecchio e quasi paralizzato, fu proprio in Sicilia nell’aprile del 1882. Contro il parere di tutti, degli amici e dei medici, Garibaldi decide di partecipare alle celebrazioni dei Vespri Siciliani a Palermo. Tornando nella terra che era stata ventidue anni prima teatro della più grande impresa della sua vita, ritrova un popolo che lo ama, i compagni d’arme, le donne siciliane di cui egli aveva conosciuto il coraggio e lo spirito patriottico.
Si rivolge a tutti scrivendo personalmente messaggi di saluto con grande fatica, per la mano rosa dal male. Saluta la Sicilia “terra della grandi iniziative”, “ai miei cari prodi messinesi”, dice “io mi trovo qui in famiglia”; saluta Palermo “maestra nell’arte di cacciare i tiranni” e i palermitani “veri rappresentanti dell’Italia”, si rivolge ai “picciotti”: “Credete forse che io vi abbia dimenticato? lo mi ricordo che coi vostri poveri fucili, ma col cuore da leoni, voi caricavate i borboni e li fugavate”, saluta “di cuore gli operai di Palermo che seppero sempre tenere alta la bandiera della libertà, della indipendenza, della patria”. i “picciotti”, le donne siciliane, i patrioti siciliani in particolare erano stati protagonisti al fianco dei “Mille” nella vittoriosa impresa che da Marsala al Volturno aveva travolto il regno del Borbone, sconfitto uno dei più forti eserciti dell’Europa dell’epoca; realizzata la congiunzione unitaria tra il nord ed il sud dell’Italia.
L’impresa dei Mille partì dallo scoglio genovese di Quarto, ma la scintilla politica e rivoluzionaria dell’impresa scaturì qui in Sicilia ad opera dei patrioti siciliani.
Come nacque l’impresa dei Mille
Senza la scintilla siciliana non ci sarebbe stata né l’idea, né la realizzazione dei progetto di una spedizione di volontari in Sicilia. L’anno è il 1860. Nel principio dell’anno precedente, con la guerra vittoriosa dei franco- piemontesi sull’Austria, e con i plebisciti in Toscana e in Emilia, il regno di Sardegna era arrivato a Milano, a Bologna e a Firenze.
Si era formato una specie di stato del nord senza le Venezie, al centro lo Stato pontificio, al sud, il Regno delle due Sicilie. Tutte le potenze europee, salvo l’inghilterra, guardavano con preoccupazione al mutamento di questo equilibrio. La stessa monarchia piemontese, senza successo, sollecitava il re di Napoli ad una intesa. Francesco II, che si era trovato alla testa di un regno il cui regime dispotico e poliziesco sollevava proteste per suoi eccessi financo nella amica Russia zarista, patria di famigerate polizie, sognava dai canto suo una Lega cattolica, e progettava un ritorno reazionario. E in questa tesa incertezza, giunti ad un grande crocevia della storia, che i patrioti, i mazziniani repubblicani, i rivoluzionari, lanciano la parola d’ordine: “Al sud, per mirare al centro, Roma”.
La fiamma si accende in Sicilia, e a Palermo il 4 aprile 1860 esplode una insurrezione che ha la sua base nel convento detto della Gancia che viene subito soffocata nel sangue della repressione, con la immediata fucilazione di quegli insorti che vengono catturati. Ma ormai l’incendio è scoppiato e al nord i patrioti e i repubblicani chiedono a Garibaldi di organizzare una spedizione che corra in soccorso degli insorti siciliani. I più decisi in questa idea sono i patrioti e gli esuli siciliani, con in testa Francesco Crispi e Rosolino Pilo che cadrà, combattendo in Sicilia, poche settimane dopo.
Tra di loro vi sono i patrioti calabresi, pugliesi, napoletani condannati nel ’49 e che hanno portato per dieci anni le catene nelle carceri borboniche di Procida, di Montefuso o di Montesarchio, i deportati dal Borbone in America, liberati con un colpo di mano realizzato in pieno Atlantico da un commando partigiano dell’epoca. Tutti i testimoni delle vicende di quei giorni concordano nel raccontare la grande incertezza, anzi la iniziale contrarietà di Garibaldi.
Giuseppe Garibaldi aveva allora 53 anni ed alle sue spalle una lunga esperienza militare. Aveva combattuto per anni nell’America del sud contro dittature e tiranni dopo che era stato costretto a lasciare l’Italia, a 27 anni, condannato a morte dal governo del Regno di Sardegna, per cospirazione rivoluzionaria.
Era rientrato in Italia richiamato dai moti rivoluzionari del 1848 ed aveva combattuto al nord con i piemontesi e nel ’49 a Roma nella disperata ed eroica difesa della Repubblica Romana. Ritornato dal secondo esilio, questa volta negli Stati Uniti, aveva combattuto nella campagna del 1859 contro gli austriaci vestendo i panni, che gli stavano stretti, di generale dell’esercito piemontese.
Aveva il genio della strategia
Tutti lo ricordano come un uomo che in battaglia aveva un assoluto disprezzo del pericolo, ma come comandante era un calcolatore attento e prudente. Era più che un grande guerrigliero, giacchè maestro di tattica, aveva anche il genio della strategia. La sua incertezza di fronte all’impresa che gli veniva proposta era più che giustificata.
Il Piemonte non appoggiava l’impresa. Neppure un uomo. Poteva raccogliere qualche centinaio di volontari, armati di vecchi fucili. Il solo armamento veramente moderno di cui poteva disporre erano cento rivoltelle Colt che aveva ricevuto dall’America e le carabine di un gruppo di patrioti genovesi che si erano addestrati al tiro. Sapeva che avrebbe incontrato in Sicilia un esercito forte di almento venticinquemila uomini, semprechè fosse riuscito, con i due battelli di cui avrebbe potuto disporre, ad aggirare il blocco della flotta borbonica. E tuttavia, alla fine, si decise.
Per tutto il mese di aprile erano giunte dalla Sicilia notizie contraddittorie: il fermento era ancora vivo, gruppi di patrioti si erano rifugiati sui monti ma la repressione aveva vinto. i suoi biografi raccontano che dopo essersi chiuso nel più assoluto mutismo per alcuni giorni, il 1° maggio disse ai suoi intimi “Partiamo, partiamo subito”.
In pochi giorni si raccolsero le forze e i mezzi disponibili. La notte del 5 maggio la spedizione si imbarcò su due navi sequestrate consensualmente all’armatore Rubattino. Il 6 fu la partenza. La mattina dell’11 maggio, dopo aver ingannato le navi da guerra borboniche, le due navi garibaldine, ribattezzate il Lombardo e il Piemonte, si presentavano di fronte al porto di Marsala.
Il racconto di Cesare Abba
Il giovane garibaldino Cesare Abba annota nel suo diario: “Come si riconoscono gli esuli siciliani. Eccoli là a prora tutti affollati. in questo momento non vivono che con gli occhi… Eccola là Marsala, le sue mura, le sue case bianche, il verde dei suoi giardini, il bel declivo che ha dinnanzi”.
I Mille, per la precisione 1089, sbarcarono quello stesso giorno. Il garibaldino Guerzoni, che fu poi insigne storico dell’epopea garibaldina, li descrive ” di tutte le età e di tutti i ceti, di tutte le parti e di tutte le opinioni, di tutte le ombre e di tutti gli splendori, di tutte le miserie e di tutte le virtù”.
Il più vecchio tra loro contava sessantanove anni, il più giovane undici, un ragazzo che aveva seguito il padre. La gran parte apparteneva al ceto colto, erano professionisti, più di cento i soli medici, professori e studenti, artisti e financo tre sacerdoti ed alcuni seminaristi.
La maggioranza era delle regioni del nord: trecentosessanta i lombardi, centosessanta i genovesi. Erano stati divisi in otto compagnie: degli otto comandanti quattro erano meridionali, tre siciliani e un calabrese. Molti avevano già conosciuto la cospirazione, la galera, l’esilio e molti il campo di battaglia. Vestivano quasi tutti in borghese, nelle fogge più strane e diverse, il popolano accanto al signore elegante.
Lo sbarco a Marsala
Garibaldi sbarcò tra gli ultimi, quando già le navi borboniche stavano accorrendo e cominciavano a bombardare. Racconta un testimone oculare: “saliva anche egli ma lento alla città, portando la sciabola sulla spalla come un contadino la zappa. Per esplorare il paese montò egli stesso sulla cupola della cattedrale”.
Poi dal municipio lanciò il suo primo messaggio ai siciliani: “Io vi ho condotto un piccolo pugno di valorosi, avanzi delle battaglie lombarde. Noi siamo qui con voi e altro non cerchiamo che di liberare il vostro paese. La Sicilia mostrerà ancora una volta al mondo, come un paese, con l’efficace volontà di un intero popolo, sappia liberarsi dai suoi oppressori”.
Il giorno dopo cominciava la marcia verso Palermo. La sera la spedizione era a Rampagallo, il giorno dopo a Salemi dove “i Mille” erano già quasi il doppio. Da ogni parte, venivano raggiunti da gruppi di uomini armati, chi a cavallo, chi a piedi con la doppietta, chi con dei vecchi arnesi a trombone.
Avevano accolto i garibaldini con particolare fervore sacerdoti e monaci del clero più vicino al popolo. Garibaldi, che dopo la delusione subita da Pio IX nel ’48, per tutto il resto della sua vita condannerà il ruolo nefasto della chiesa avversaria dell’unità d’Italia, manifestando un anticlericalismo aspro e convinto, avrà sempre per loro parole di elogio e di ammirazione e li salutava come “buoni preti servitori di Cristo e patrioti dell’unità d’Italia esaltando nel contempo il valore universale del messaggio evangelico e dell’Immortale Cristianesimo”.
A Salemi, é accolto da manifestazioni entusiastiche e da Salemi emana due decreti: con il primo assume per volontà dei liberi comuni della Sicilia ed in nome di Vittorio Emanuele Re D’Italia la dittatura, e con il secondo bandisce “una leva di massa di tutti gli uomini atti alle armi dai 17 ai cinquant’anni”. Il 15 maggio a Calatafimi la prima Battaglia. I “garibaldesi” come li chiama nei suoi dispacci il generale borbonico Landi inviato con una colonna di tremila uomini a fermare Garibaldi, travolgono il nemico dopo una giornata di scontri.
E’ sempre Cesare Abba che ricorda due momenti di quella giornata: “Uno, quello di quando Bixio osò domandargli alla maniera sua se non gli paresse il caso di battere in ritirata ed egli rispose che li si faceva l’Italia o si moriva; l’altro, quello dell’ultimo assalto, quando tutti sfiniti boccheggiavano sotto il ciglio del colle. Là disperavano tutti, non egli, che parlando pacato andava per le file come un padre con gli occhi rilucenti di lacrime: “Riposate figliuoli, poi con un ultimo sforzo e abbiamo vinto”.
Da Calatafimi a Palermo
Dopo il primo scontro vittorioso sul colle del Pianto Romano, da Calatafimi punta su Palermo. Gli uomini piangono i compagni caduti ma sono confortati dal successo, avanzano a marce forzate e cantano, canti popolari, il coro del Nabucco di Verdi, “Va pensiero sull’ali dorate”, l’aria del bolero dei “Vespri Siciliani”. Palermo é raggiunta con uno stratagemma.
Garibaldi lascia accesi i fuochi tutta una notte lasciando credere di essere accampato, mentre ha già abbandonato l’accampamento e con marce notturne é ormai sopra Palermo, difesa da una guarnigione di ventimila uomini, che egli attacca il 27 maggio. Per giorni e giorni si combatte in una città sulla quale si rovescia il bombardamento delle artiglierie borboniche. Squadre di “picciotti” invadono la città, si alzano ovunque barricate, le donne del popolo aiutano i combattenti feriti. Si grida “viva Santa Rosalia, Garibaldi e l’Italia”.
Della battaglia di Palermo esiste una documentazione fotografica che é impressionante. Vi sono interi quartieri in fiamme. Si combatte casa per casa, sino a quando il generale Lanza che comanda le truppe borboniche prima tratta una tregua, poi alza bandiera bianca e il 6 giugno definisce la resa. Il 7 mattina è tutta la Sicilia che insorge. Si accendono rivolte in molte città e i fermenti rivoluzionari dilagano nelle campagne. La Sicilia conoscerà anche in più punti gli orrori e gli errori della guerra civile, delle rivolte e delle repressioni sanguinose, come nella triste vicenda di Bronte. Brucia una rivolta sociale sotto la griglia della miseria, delle condizioni di lavoro feudali e di sfruttamento e si accendono speranze che saranno presto frustrate.
I resti dell’esercito regio si asserragliarono a Messina e nelle cittadelle fortificate di Milazzo, Augusta e Siracusa. Ed è a Milazzo che Garibaldi li affronta nell’ultimo grande scontro in terra siciliana, che i garibaldini vincono anche questa volta, pagando però il più alto prezzo di vite umane di tutta l’impresa dei Mille. Garibaldi è ormai a Messina e da Punta del Faro guarda al continente deciso a continuare nella sua impresa. E a Messina che lo raggiunge una lettera di Vittorio Emanuele lì che lo invita a fermarsi e a non varcare il canale. “Generale – dice la lettera – voi sapete che non ho approvato la vostra spedizione alla quale sono rimasto assolutamente estraneo. Nel caso che il re di Napoli concedesse l’evacuazione completa della Sicilia dalle sue truppe, credo che più ragionevole sarebbe di rinunziare ad ogni ulteriore impresa contro il regno di Napoli. Se voi siete d’altra opinione, io mi riservo espressamente ogni libertà di azione e mi astengo di farvi qualunque osservazione relativamente ai vostri piani”.
Il tono è tutto sommato ambiguo e non è tale comunque da scoraggiare Garibaldi che risponde: “Sire, Vostra Maestà deve comprendere in quale imbarazzo mi porrebbe oggi una attitudine passiva in faccia alla popolazione del continente napoletano, che io sono obbligato di frenare da tanto tempo e a cui ho promesso il mio immediato appoggio. L’Italia mi chiederebbe conto della mia passività e ne deriverebbe immenso danno”.
La marcia verso Napoli
Questa volta Cavour è nettamente con Garibaldi quando scrive: “Si lasci fare a Garibaldi. L’impresa non può rimanere a metà”. Rafforzato da una nuova spedizione garibaldina, dall’afflusso dei volontari siciliani e dai gruppi armati che Mazzini avrebbe voluto spingere su Roma, Garibaldi può contare ormai su più di diecimila uomini. Ha di fronte a sé, nel Regno di Napoli, un esercito che conta ancora centomila uomini.
Ma ben diversa è la determinazione e la forza morale dei due campi. Dopo un mese di tentativi, di scaramucce e di colpi di mano, finalmente Garibaldi tenta lo sbarco e conquista anche Reggio. Da quel momento inizia una marcia trionfale verso Napoli. Le provincie del Regno, anche se non tutte, si rivoltano, i patrioti si sollevano a Cosenza, nelle Puglie, a Foggia, a Bari, mentre egli avanza in direzione di Napoli.
Annota uno storico del tempo: “La rivoluzione non lo scortava soltanto. Lo precedeva. Disorientato, spaventato, incapace di decidere, il trono del Borbone non regge all’urto della minaccia garibaldina e della pressione popolare. Scrive il Garibaldino Guerzoni: “I soldati disertavano. I generali capitolavano, i cortigiani si nascondevano, i funzionari fuggivano; i napoletani non scacciavano il loro re, gli voltavano le spalle”.
Il 21 settembre Francesco II di Borbone fugge da Napoli e si rifugia nella fortezza di Gaeta. Il giorno dopo il generale Garibaldi, solo, con un gruppo di ufficiali, mentre la città è ancora sotto il controllo delle truppe borboniche, entra in Napoli. Ma la grande impresa non è finita. Lo aspetta ancora l’ultima e impegnativa battaglia contro i resti delle armate borboniche che hanno raccolto e riunito ancora cinquantamila uomini dietro il Volturno, con il proposito di riconquistare Napoli.
All’alba del l° ottobre l’esercito borbonico attacca i garibaldini nella pianura capuana in una vera e propria battaglia campale di dimensioni pari a quella delle grandi battaglie napoleoniche del secolo scorso. Alle cinque del pomeriggio, respinto l’attacco dell’armata borbonica, Garibaldi telegrafa a Napoli: “Vittoria su tutta la linea”.
L’impresa è compiuta. L’Italia del sud, disfatto il regno borbonico, può ricongiungersi all’Italia del nord. Si chiudeva in ottobre l’impresa iniziata a maggio, con un trionfo che Garibaldi consegnava nelle mani della monarchia piemontese, che realizza ormai in gran parte il disegno dell’unità nazionale che era stato il sogno e l’obiettivo di lotta dei cospiratori, dei patrioti, dei rivoluzionari, dei repubblicani. Da quel giorno stesso comincerà per Garibaldi la via dell’amarezza, dei contrasti e delle umiliazioni di fronte al rancore dei mazziniani che gli rimproveravano di aver lasciato la rivoluzione a mezzo ed alla ingratitudine della monarchia che, verso di lui e verso i garibaldini, non tarderà a manifestarsi nella nuova Italia sorta, almeno per gran parte, dal loro sacrificio.
Garibaldi, che era un uomo di acuta intelligenza ed un animo sensibile lo aveva avvertito il giorno stesso del famoso incontro di Teano, tra lui, generale vittorioso, ed il futuro re d’italia Vittorio Emanuele, quando parlando con i suoi intimi commentò: “Ci hanno messo alla coda”.
Tutta l’impresa dei Mille, come le altre che l’avevano preceduto e molte delle altre che seguirono, soprattutto negli sfortunati tentativi di precorrere la liberazione di Roma dal potere temporale dei papi, furono dominate dalla “questione nazionale”.
Il problema dell’unità nazionale e l’obiettivo di Roma capitale sono punti fermi ed essenziali della lotta garibaldina, la bussola costante della sua azione. Per realizzare questi ideali di indipendenza e di libertà della patria tutto doveva essere sacrificato e tutto fu sacrificato.
Ma la questione nazionale non cancellava nella visione di Garibaldi la coscienza della questione sociale e della lotta democratica che, fattasi l’unità d’Italia, egli riprese ad agitare e a sostenere con tutte le sue residue energie.
Non si può comprendere la personalità di Garibaldi se ci si arresta a contemplare la sua immagine di condottiero militare e di uomo di azione lasciando in ombra i motivi profondi di un pensiero politico, sociale e religioso, che si muovono in lui sin dalla giovinezza. La storiografia ufficiale ci ha tramandato l’immagine di un Garibaldi ateo, anticlericale, nemico acerrimo della Chiesa Cattolica. Egli era nemico della Chiesa perché la Chiesa era nemica dell’unità d’Italia, perché la chiesa si faceva amica delle monarchie dispotiche per difendere il proprio potere e quello delle monarchie e dinastie straniere cattoliche insediate nel territorio nazionale. Avversava il clero quando il clero prendeva partito per i reazionari contro i progressisti e contro gli interessi del popolo più povero e più sfruttato.
Contrariamente a quello che si è creduto e forse ancora si crede, Garibaldi era invece uno spirito laico ma anche e soprattutto uno spirito profondamente religioso. Egli credeva in Dio che esaltava come “regolatore del moto e dell’armonia dei mondi”. Credeva nella “eterna verità”, che stava alla base della “religione del vero” o “religione di Cristo” che così descriveva: “semplice, bella, sublime, è la religione del vero: essa è la religione di Cristo, poiché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’eterna verità”.
La religiosità di Garibaldi
Difendeva con orgoglio la sua spiritualità religiosa da cui si sentiva spronato ad amare gli altri, “emanazione di Dio”, scriveva, come sé stesso. Difendeva la sua fede in Dio: “All’esistenza sua io credo, così come credo all’immortalità dell’anima mia”.
Negli ultimi anni della sua vita quando si accostò a società atee e a posizioni razionaliste continuò a respingere l’accusa d’essere ateo, invitando a “non dar retta ai calunniatori”, parlando di “Dio che ha per base della sua religione la santa morale: fate agli altri ciò che vorreste per voi” e aggiungeva “alcuno va a credere che io voglia negare l’esistenza di Dio, eppure vedrà ch’io non voglio provare altro che la inutilità e la perversione dei preti”.
C’erano stati preti e monaci che avevano combattuto con lui e per lui, ch’erano morti in battaglia od erano stati fucilati dallo straniero, ma egli si era sempre trovato sulla via dell’unità d’Italia l’ostacolo principale della Chiesa cattolica di allora. Il fondo cristiano della sua spiritualità religiosa si conciliava con i principi sociali umanitari, pacifisti egualitari delle sue concezioni sociali.
Il socialismo di cui egli parla e di cui si erige a difensore contro i reazionari e contro altri socialismi è un socialismo umanitario, intessuto di principi etici e di valori cristiani. L’uomo che siamo abituati a vedere sempre con la sciabola in mano era sempre stato in realtà, sin da ragazzo, un uomo di animo gentile che odiava la violenza. Egli amava definirsi discepolo di quel grande maestro di civiltà e di umanità che fu Cesare Beccaria e considerava la pace come il bene più prezioso per l’umanità.
Quando nacque a Ginevra la Lega Internazionale della Pace e della Libertà, Garibaldi ne fu, insieme a Victor Hugo e a John Stuart Mill tra i promotori e gli animatori. Intervenendo al congresso costitutivo della Lega propose una serie di articoli da introdurre nel programma dove con semplici proposizioni illustrava la sua concezione pacifista: “Tutte le nazioni sono sorelle. La guerra tra loro è impossibile. – Le eventuali controversie saranno giudicate dal Congresso. i membri del Congresso saranno nominati dalle società democratiche di ciascun popolo” e più avanti ancora: “la repubblica è la sola forma di governo degna di un popolo libero. La democrazia soltanto può rimediare il flagello della guerra. Solo lo schiavo ha diritto di fare la guerra ai tiranni”.
Negli anni successivi la Lega della pace e della libertà venne via via rielaborando e proponendo alcune delle fondamentali idee politiche di Garibaldi: la subordinazione della politica alla morale, la Federazione repubblicana europea, gli Stati Uniti d’Europa e la sostituzione delle milizie nazionali agli eserciti permanenti.
E Garibaldi dal canto suo insisteva perché si propagandasse l’idea di un “Arbitrato internazionale per decidere pacificamente – così scriveva – le gravi e sanguinose questioni che lacerano la nostra società viziata e viziosa. Il fine ultimo – aggiungeva – deve essere la fratellanza universale degli uomini”.
Per il socialismo fu un precursore
Un’idea questa dell’arbitrato, e cioè del negoziato pacifico, della mediazione, come unico strumento per dirimere le controversie internazionali che era valida allora e che è valida più che mai oggi, nella realtà di un mondo che non cessa di conoscere, dopo un secolo di progressi, ma anche di immani stragi, l’orrore delle guerre, dei conflitti sanguinosi, delle minacce di nuovi conflitti. La sua formazione culturale era stata fortemente influenzata dalle prime scuole del socialismo francese.
Lo ricorda Garibaldi stesso nelle sue memorie quando scrive: “Prima di conoscere Barrault (che era un seguace di Saint Simon) amavo la mia patria; dopo averlo conosciuto, amo l’umanità”.
Garibaldi non propendeva né per il socialismo marxista né per il collettivismo anarchico bakunista ma piuttosto per una tendenza che potremmo chiamare di democrazia socialista. Quando nel ’71 aderisce alla Prima Internazionale dichiara di avervi sempre fatto parte. E in realtà egli, che aveva combattuto per la libertà di tutti i popoli, che sentiva come propria la causa della libertà d’ogni Nazione, aveva nella sua vita dato prova di un grande spirito e di una grande coscienza internazionalista. Ovunque era stato presente con la parola e con l’azione. In America e in Europa. Ed in Europa aveva solidarizzato sopra ogni altro con la causa della nazione polacca.
“La questione polacca è considerata da me come la questione della mia patria” aveva scritto, “che Dio salvi la Polonia…”. “Cessino, vergogna di questo secolo, le torture inflitte ai popoli polacchi. Vergogna, potremmo dire oggi, anche di quest’altro secolo! Garibaldi salutava l’Internazionale come il sole dell’avvenire ma respingeva le deliberazioni di stampo rigidamente collettivistico. Garibaldi pensava ad una società più giusta e più umana, regolata da governi democratici, in cui lo Stato dovesse occuparsi della “classe più numerosa e più povera” e aggiungeva di volere “una continuazione del miglioramento morale e materiale della classe operosa, laboriosa e onesta, conformemente alle tendenze umane di progresso di tutti i tempi”.
Il suo anti-collettivismo non era contrario all’intervento dello Stato, ammetteva anzi l’idea di un “collettivismo maggiore” che sembrava così anticipare l’idea dello stato sociale moderno. Il giornale garibaldino “La plebe”, che rifletteva l’opinione dei gruppi più radicali del partito garibaldino a proposito del collettivismo scriveva: “due grandi correnti solcano il mondo. L’una è quella della libertà individuale o individualismo assoluto che mena all’egoismo. L’altra tende a centralizzare sempre gli interessi e mena al cosidetto comunismo autoritario. La soluzione del problema consiste nell’armonizzare le due correnti”. Garibaldi non vide mai di buon occhio quelli che chiamava “i dottrinari” e gli “esagerati”. Robert Michels ha scritto che “nelle varie correnti del socialismo italiano Garibaldi preferì le più moderate, le forme di lotta più pacifiche”. Egli era in buona sostanza un socialista umanitario, democratico, gradualista ma tanto realista e concreto nelle sue impostazioni quanto intransigente nella difesa delle sue idee e delle sue posizioni. Poco convinto delle astratte teorie collettiviste che avevano preso piede nella Internazionale, Garibaldi promuove in Italia la costituzione di una Lega democratica, per unire tutti i movimenti e i gruppi democratici e progressisti in un fronte comune che si occupasse delle “questioni razionali e sociali le cui soluzioni sono praticabili”.
La Lega Democratica voleva essere un organismo pluralistico, basato su di un programma concreto di riforme, comprendeva le tendenze più diverse, anche se Garibaldi pubblicamente teneva a precisare: “Il mio repubblicanesimo differisce da quello di Mazzini, essendo io socialista”.
Una visione riformista
Nel “Patto di Roma” del 21 novembre ’72 si colgono i lineamenti essenziali di questo riformismo democratico. Esso chiede la Costituente, la Repubblica, l’autonomia dei Comuni, l’abolizione degli eserciti permanenti e l’organizzazione della nazione armata, l’eleggibilità dei Magistrati, i diritti di Libertà della persona, i diritti di libertà politici e di stampa (meno che per ciò che riguarda le private offese e i buoni costumi), l’abolizione di ogni privilegio, l’emancipazione completa del lavoro, il lavoro come sorgente unica delle proprietà, un sistema di vita economica che combatta l’assorbimento in mano di pochi della ricchezza nazionale, le associazioni dei lavoratori e delle piccole imprese, e poi ancora la creazione di una imposta progressiva sul capitale; i diritti di parità della donna, la abolizione della pena di morte e la riforma del sistema penitenziario, la libertà assoluta di coscienza e di culto, l’attuazione della formula: nessun diritto senza dovere, nessun dovere senza diritto, solidarietà con tutti i popoli nella via del progresso e della libertà e infine “quegli altri principi che additerà il progresso democratico-sociale indefinito”.
Come si vede un programma tutt’altro che moderato e che per qualche parte generale mantiene una sua piena validità di principio. Quando morì si potè misurare nel mondo il rilievo che aveva assunto la figura di Giuseppe Garibaldi. Il Times di Londra che Io aveva avversato, scrisse “del suo coraggio senza confini ma anche delle sue doti più nobili come la magnanimità, la pIacidezza, l’abnegazione”; l’Assemblea nazionale francese sospende per un giorno la seduta e la Francia lo saluta come “cittadino del mondo”; la stampa austriaca dando segno di una grande nobilità scrive “simili figure sono i fari della storia”; la Camera ed il Senato di Washington votano una mozione di cordoglio a nome del popolo americano.
Sono passati da allora cento anni, e la figura di questo nostro grande amico della Sicilia e dei siciliani, rivive nella immagine che di lui ci hanno tramandato i suoi contemporanei, in tutta la sua grandezza e in tutta la sua umanità. Chiunque voglia risalire alle radici dell’Italia moderna, per cogliere la vocazione nazionale all’aspirazione della libertà, al progresso, all’eguaglianza, lo spirito di indipendenza e di pace non può non incontrarsi con la figura e l’opera di questo grande italiano. Alla ricerca delle nostre radici, per rendere più saldo il cammino che oggi stiamo percorrendo, lo abbiamo fatto noi socialisti che in tante battaglie delle generazioni che seguirono, abbiamo colto il segno della continuità con la tradizione garibaldina cui debbono essere ricollegati tutti coloro che seppero battersi con coerenza, con spirito di sacrificio, pagando di persona per la libertà e per l’indipendenza del proprio paese.
Primo tra questi è l’eroe socialista della resistenza antifascista che oggi è il Presidente di tutti gli italiani. Ciò avviene e deve avvenire anche per noi e per i più giovani di noi di fronte alle crisi della società contemporanea, agli interrogativi che gravano sul nostro futuro, ai pericoli che rendono inquieto e tormentato l’orizzonte internazionale.
Poniamo anche noi in primo piano la lotta per la pace, la solidarietà con chi nel mondo si batte per la propria indipendenza e per la propria libertà, la volontà di cooperazione con i paesi ed i popoli più poveri in uno spirito di solidarietà universale. L’obiettivo della pace non può andare disgiunto da quello della sicurezza che è condizione dell’indipendenza di una grande nazione quale noi siamo. Essa ha il dovere di garantire la propria indipendenza per poter svolgere più sicuramente il ruolo di pace che gli spetta, principalmente in questa regione mediterranea che aspira alla pace e che, nella sicurezza, nel rispetto dei diritti dei popoli, nella cooperazione deve risolvere i conflitti che sono ancora aperti e che minacciano di aggravarsi.
Un programma democratico per far fronte alla crisi delle istituzioni, per consolidare la democrazia, sposarla con l’efficienza, radicarla sempre più nella vita e nella responsabilità di tutti, è il tema attorno al quale ruota con insistenza una polemica politica imbevuta diretorica, che continua ad ignorare lo spirito di concretezza e di gradualità realistica con la quale avanziamo proposte che vanno e andranno poste al centro di un chiaro confronto tra le forze politiche. Una difesa energica dei più deboli, dei più poveri, dei più indifesi, risanando la finanza pubblica, frenando lo spreco di risorse e riportando la politica sociale nell’ambito di un buon governo destinato a dare protezioni efficaci ed una giustizia sociale non lesinata, non clientelare, non lacunosa in specie verso le fasce di emarginazione e di isolamento che meno di altre hanno la forza di reagire.
Ed in questo quadro in primo piano è la lotta alla disoccupazione, che richiede risorse, programmi realizzabili, un concorso di chi non è minacciato né nel benessere, né nella sicurezza, in cui può già vivere. Principi di eguaglianza, di solidarietà sociale, di responsabilità collettiva che debbono essere alimentati e difesi di fronte alle tendenze contrarie che sono diffuse, nelle loro chiusure, nei loro egoismi, nelle loro inefficienze e nei loro arbitri.
Uno sforzo per ridurre l’influenza delle polemiche inconcludenti che avvelenano la vita pubblica, per riportare la riflessione sugli obiettivi di rinnovamento, di cambiamento e di riforma che possono associare forze democratiche egualmente intenzionate ad impedire che la vita dello Stato vada alla deriva e che la vitalità mostrata a più riprese dalla società italiana sia soffocata e mortificata da un’insufficiente impulso di direzione e di coordinamento dell’azione pubblica. Guardiamo con preoccupazione ai pericoli che possono derivare da una radicalizzazione della lotta politica, da un acuirsi delle tensioni e di conflitti sociali, dal confuso procedere della vita parlamentare ed istituzionale, dalla instabilità della situazione internazionale.
Manteniamo ancora una posizione di fiducia rispetto alla possibilità che le forze politiche democratiche hanno di dare risposte all’altezza dei tempi, della gravità dei problemi, della volontà di sicurezza e di progresso che anima il paese. Resta nel fondo dell’animo nostro una fondamentale fiducia nelle capacità del popolo italiano di superare le congiunture difficili, e di organizzare ove necessario le condizioni perché ogni crisi sia superata con un nuovo balzo in avanti. Resta per me intatto il sentimento di fiducia e di ottimismo che esprimevo un anno fa concludendo a Palermo il congresso nazionale dei socialisti italiani. Non so se è per aver concluso quel congresso sottolineando questa fiducia e quest’ottimismo nell’italia e negli italiani ricorrendo alla semplice esclamazione di “viva l’Italia” che mi sono toccate in sorte accuse di nazionalismo.
E tuttavia, in quel giorno del 25 aprile, che vide nel 1945 la bandiera della libertà svettare nella mia Milano a salutare la ritrovata libertà e indipendenza di una intera nazione nel centenario di Garibaldi che abbiamo celebrato insieme qui a Marsala, qui in Sicilia, terra di patrioti del Risorgimento e di pionieri del socialismo, in omaggio a tutti coloro che, nel passato hanno lasciato il loro grande esempio e a quanti oggi sono disposti a compiere per intero verso il loro paese e verso l’insieme del popolo italiano, il loro dovere di donne e di uomini liberi, di donne e di uomini di pace, di artefici e di sostenitori di una più giusta e più evoluta civiltà della democrazia e del lavoro, non posso esimermi dal ripetere questa sera un eguale messaggio di ottimismo e di fiducia: viva l’Italia.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.