Calogero Cangelosi, 41 anni, esponente del Partito Socialista Italiano e segretario della Camera del lavoro di Camporeale, in provincia di Palermo, viene assassinato il 1° aprile 1948. Quella sera si incontra con altri compagni sindacalisti per decidere come agire in vista delle elezioni del 18 aprile seguente: la «povera gente» vuole finalmente dare una lezione ai «lorsignori», i padroni del feudo. Ma proprio per questa e per altre iniziative scomode Calogero è da tempo nel mirino della mafia. Non è infatti per cortesia che Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli, finita la riunione, si offrono di accompagnare a casa il loro dirigente sindacale. Vogliono proteggerlo, ma purtroppo non è sufficiente. Sono quasi arrivati, quando dall’angolo della strada dove Cangelosi abita con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli (Francesca, 11 anni, Giuseppe, 5, Michela, 3 e Vita, appena 2 mesi), si sente un crepitare di mitra.
Decine di colpi ad altezza uomo si abbattono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangelosi cade per terra, spirando all’istante. Anche Liotta e Di Salvo vengono feriti gravemente. Rimangono invece illesi Calandra e Natoli. Sono le 22.30. Il corpo di Calogero viene trasportato a casa del suocero e qui i carabinieri usciti per l’emergenza si raccomandano di non spostarlo fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Passano ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degni di mettere piede in paese.
Quando è finalmente possibile celebrare i funerali, in mezzo ai contadini del paese e ai familiari c’è anche il segretario nazionale del Psi, Pietro Nenni, venuto a onorare il compagno di partito, trentaseiesimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra.
Per quest’omicidio, la giustizia non riesce nemmeno a imbastire un processo. Tutti pensano che a dare l’ordine di morte sia stato il proprietario terriero Serafino Sciortino, e che a sparare ci abbiano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi picciotti, eppure gli inquirenti decidono di procedere contro ignoti. Di lì a poco, sulla vicenda cade il silenzio. Dopo la morte di Calogero Cangelosi alle elezioni del 18 aprile il Fronte democratico popolare, composto dal Psi e dal Pci, viene sconfitto in tutta la Sicilia, tranne a Camporeale, dove ottiene ancora più voti che nelle regionali del 1947.
La ricostruzione
Era la sera del 1° aprile 1948. Non faceva più freddo e la piazza di Camporeale pullulava di contadini, che discutevano animatamente tra loro. In quei giorni, l’argomento era sempre lo stesso: le elezioni politiche del 18 aprile e la «lezione» che la povera gente avrebbe potuto dare a “lorsignori“, i padroni del feudo.
Anche alla Camera del lavoro quella sera si era tanto parlato di questo, insieme alle lotte da organizzare per l’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e 40 e sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e malcoltivate degli agrari.
Poi, Calogero Cangelosi, quarantunenne segretario della Cgil, guardò l’orologio, si accorse che si era fatto tardi e salutò i presenti per tornare a casa. «Calogero, aspetta che ti accompagniamo noi», gli dissero Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli. Il loro non fu un gesto di cortesia, ma un modo per proteggere il dirigente sindacale, che era nel mirino della mafia. L’offerta di una «scorta», insomma.
Tutti e cinque uscirono dalla sede della Camera del lavoro, che si trovava in piazza, e si avviarono verso via Perosi, dove Cangelosi abitava con la moglie, Francesca Serafino di 35 anni, e i suoi quattro figli: Francesca di 11 anni, Giuseppe di 5, Michela di 3 e Vita di appena 2 mesi. Erano quasi arrivati, quando dalla parte alta di via Minghetti, che faceva angolo con via Perosi, si udì un crepitare di mitra.
Decine di colpi, sparati in rapida successione e ad altezza d’uomo, si abbatterono sull’intero gruppo. Colpito alla testa e al petto, Cangelosi cadde per terra, spirando all’istante.
Anche Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente. Miracolosamente illesi rimasero, invece, Calandra e Natoli.
Erano le 22.30. Il rumore degli spari attirò tanta gente. Qualcuno capì quello che era accaduto
ed andò di corsa a chiamare i cognati del sindacalista ucciso e i parenti dei due feriti. Questi ultimi furono trasportati all’ospedale, mentre Cangelosi fu portato nella casa del suocero. La moglie Francesca stava allattando la piccola Vita, seduta su una seggiola, quando arrivò un fratello a chiamarla. Immediatamente lasciò la neonata ad una vicina di casa e corse a casa del padre.
Calogero era stato sdraiato sul letto, col corpo crivellato dai proiettili. Urla, scene di disperazione.
Poi arrivarono i carabinieri, fecero le domande di rito e raccomandarono di non toccare il cadavere fino all’arrivo del magistrato per la perizia. Allora Camporeale faceva ancora parte della provincia di Trapani e passarono ben quattro giorni prima che un giudice del capoluogo si degnasse di mettere piede in paese. «Nel mentre mio marito era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile », avrebbe poi raccontato la moglie.
Finalmente si poterono svolgere i funerali, a cui parteciparono tutti i contadini del paese e dei comuni del circondario. In mezzo a loro e accanto ai familiari di Cangelosi c’era anche il segretario nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni, venuto ad onorare il suo compagno di partito, 36esimo sindacalista assassinato dalla mafia in quegli anni del secondo dopoguerra. Il 35esimo era stato Placido Rizzotto a Corleone (10 marzo) e il 34° Epifanio Li Puma a Petralia Sottana (2 marzo). Disperazione e rabbia si toccavano con mano.
Erano palpabili. «La sera del 16 aprile ’48 – racconta Nicola Cipolla, uno dei capi contadini siciliani di quel periodo – al comizio di chiusura della campagna elettorale, i mafiosi scomparvero tutti dalla piazza per paura dei contadini». Ed accadde un «miracolo»: il 18 aprile il «Fronte Democratico Popolare», composto dal Psi e dal Pci, fu sconfitto in tutta la Sicilia, ma non a Camporeale, dove ottenne ancora più voti delle regionali del ’47.
Fu l’ultimo regalo di Calogero Cangelosi ai suoi contadini. Per quell’omicidio, la giustizia «ingiusta» di allora non riuscì nemmeno ad imbastire un processo.
Nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero “don” Serafino Sciortino, mentre a sparare ci avevano pensato il capomafia Vanni Sacco e i suoi «picciotti», si procedette contro «ignoti», che tali rimasero per sempre. Poi sulla vicenda cadde il silenzio.
a cura di Dino Paternostro – La Sicilia
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