Nella Foto Oreste Lizzadri
Dopo l’armistizio e l’invasione tedesca, nell’Italia del Sud era riemerso, nello scenario della travagliata ripresa della vita democratica, il movimento socialista, che ritornava alla luce dopo l’eclissi ventennale. In Puglia, in Calabria, in Campania, come in altre zone non occupate dalle truppe tedesche, si ricostruirono i gruppi, circoli, sezioni socialiste, uscivano giornali, si tennero manifestazioni di partito. La più importante fu senza alcun dubbio la Conferenza o Consiglio nazionale del Partito socialista che si tenne a Napoli il 20 dicembre del 1943, e di cui c’è cronaca in un numero dell'”Avanti!” del gennaio successivo (edizione per Napoli), e di cui ha riferito Nicola Salerno nel volume Dalla Liberazione alla Costituente, pubblicato molti anni dopo nel 1973. Relatori all’assise socialista furono Porzio, che trattò dell’esame della situazione politica; Laricchiuta sul sindacato; Sansone sull’organizzazione del partito; Giannati sull’organizzazione giovanile; Ardegno sulle questioni della stampa e della propaganda; Cacciatore sui problemi economici. Il nucleo della discussione era in realtà costituito dal problema istituzionale.
Nell’assise napoletana fu approvato a maggioranza un ordine del giorno firmato da Nino Gaeta e Francesco Cacciatore, il cui dispositivo era il seguente: “Il Consiglio nazionale del Partito socialista, riaffermando che la questione istituzionale è rivolta per i socialisti fin dalla fondazione in senso repubblicano, ritenuto che al popolo lavoratore preme avere un governo che riorganizzi il paese in senso socialista, delega alla direzione del partito di stabilire il programma di azione governativa e le modalità di una realizzazione d’intesa con gli altri partiti di massa“.
Fin dal dicembre 1943, nella sua prima assise, il Partito socialista manifestava il suo interessamento prioritario alla presenza nel governo, rispetto alla questione istituzionale che, pur nella riaffermazione di principio della scelta repubblicana, veniva di fatto rinviata. I socialisti nella maggioranza del Consiglio nazionale (i cui membri erano per la verità stati designati in varie forme, a seconda del grado di forza delle singole organizzazioni locali da esse rappresentate) accantonavano la pregiudiziale di intransigenza repubblicana e si dichiaravano disposti alla collaborazione di governo, tuttavia di intesa “con gli altri partiti di massa“, cioè il Partito comunista. Il quale, però, era schierato su una posizione di intransigenza, dato che al momento non era ancora arrivato in Italia Ercoli (Togliatti), né s’era verificata la “svolta di Salerno“.
In un certo senso i socialisti meridionali anticipavano questa svolta, come sosterrà Francesco Cacciatore, che di quell’ordine del giorno del CN era stato uno degli artefici. A realizzare la decisione del CN (che sarà successivamente oggetto di critica da parte del centro del PSI a Roma e dell'”Avanti!”) fu eletta una direzione composta dal segretario Lelio Porzio, da Zamboni, Numis, Laricchiuta, Gaeta, Cacciatore, Pietro Mancini, Sansone, Ardengo e Giannati. Poche settimane dopo, al congresso di Bari del CLN (28-29 gennaio 1944) giungeva Oreste Lizzadri, inviato dal CLN, da Roma con un messaggio, ma anche latore di una lettera di Nenni che puntualizzava le posizioni generali dei socialisti, decisamente intransigente sulla questione istituzionale. Nel messaggio di Nenni, che fu pubblicato nel febbraio dall’edizione napoletana dell'”Avanti!”, si poneva l’obiettivo della convocazione dell’Assemblea costituente per chiedere la decadenza della monarchia e la proclamazione della Repubblica. La linea espressa dal messaggio era chiaramente ostile alla eventuale collaborazione di governo con i badogliani e con le forze politiche che non condividevano una così netta pregiudiziale antimonarchica.
Lizzadri (con lo pseudonimo di Longobardi) ribadiva questa posizione in un suo articolo apparso sull'”Avanti!” a commento del congresso antifascista barese, nel quale affermava la necessita di un’azione politica che dovrà portare all’accantonamento della monarchia ed alla formazione di un governo straordinario formato da tutti antifascisti: “un governo che dovrà assommare in sé i poteri del Parlamento e della Corona e preporre la convocazione della Costituente”. C’era di fronte una divergenza ancora latente, che non riguardava la posizione istituzionale dei socialisti sul piano dei princìpi (essendo tutti, movimentati, di convincimenti repubblicani), ma la tattica da seguire in ordine alla partecipazione al governo. Su questo punto c’era una sostanziale difformità da registrare tra la posizione contenuta nel messaggio di Nenni e ribadita da Lizzadri, di rifiuto ad ogni possibilità di collaborazione con la monarchia, e la posizione dei socialisti meridionali, espressa dal CN del dicembre 1943.
Il dissenso apparve evidente nella riunione della direzione meridionale, convocata dallo stesso Lizzadri, e che si tenne a Napoli il 21 marzo del 1944. Secondo il ricordo del Lizzadri.
Francesco Cacciatore aprendo il dibattito nel corso della riunione disse senza mezzi termini che “qui a Napoli abbiamo sempre ritenuto che la via giusta fosse quella di un compromesso con la monarchia al fine di arrivare al più presto alla formazione di un governo rappresentativo che guidi il paese alla lotta di liberazione e lo incammini sulla via della ricostruzione“. Lizzadri, rendendosi conto che la direzione era orientata a favore di questa impostazione, rinviò ogni decisione ad una successiva riunione del Consiglio nazionale del partito. Un telegramma di Nenni ribadiva però la posizione intransigente: “Direzione non ravvisa motivo svolta stop intensificazione lotta et mobilitazione masse difficile con attuale governo stop comunicato nostro giudizio cugini Roma mantenere posizioni“.
I cugini comunisti però non dovevano “mantenere posizioni” come telegrafava Nenni. Tre giorni dopo la direzione a Napoli, il 24 marzo, Togliatti sbarcava a Salerno, ed iniziava l’opera politica che doveva condurre il PCI a modificare il proprio orientamento. Il 2 aprile “l’Unità” pubblicava il messaggio del leader comunista, ed un articolo in cui lo stesso dichiarava di auspicare l’unità di tutti quelli che sono disposti, “qualunque sia la loro fede e la loro tendenza politica, a battersi contro l’invasore“. La modificazione dell’atteggiamento del PCI, che ne consegue, rafforza la posizione dei socialisti meridionali nei confronti del centro del partito. Lo stesso Lizzadri si schiera con la direzione meridionale.
Nella riunione del Consiglio nazionale che si tenne a Napoli il 15 aprile – presente lo stesso Togliatti – Lizzadri e il primo firmatario, insieme a Pietro Mancini, Albenga, Di Napoli e Laricchiuta di un ordine del giorno, approvato all’unanimità, che delibera la partecipazione socialista al governo, e rinvia la questione istituzionale a dopo la liberazione del paese. Nella discussione tutti gli intervenuti, tra i quali Lizzadri, Faeta, Furzio e Stampacchia, ponevano l’esigenza della unità di tutte le forze antifasciste nel governo, e dell’unità d’azione tra socialisti e comunisti. Da parte sua, Pietro Mancini sottolineava che un “partito marxista” doveva avere la capacità di un’analisi corretta delle questioni politiche reali, e far discendere da essa una linea d’azione conseguenziale. In un clima così “unitario“, Togliatti non mancò di recare il saluto del suo partito, sostenendo che “oggi noi facciamo una politica di unità nazionale perché il diritto di governare spetta alla classe operaia […] per fare una politica anti fascista noi accettiamo di andare al governo”. Ed aggiungeva, significativamente, a proposito dei rapporti tra i due partiti: “Il punto d’unità d’azione non è provvedimento politico di carattere contingente […] bensì un provvedimento di vasta portata“.
Lizzadri, a sua volta, coglieva l’occasione per imprimere all’avvenimento il soggetto di un incancellabile “fanatismo“, affermando: “Comunità di origini, di fini, di pensiero, spingeranno socialisti e comunisti sempre più vicini”. Il patto d’unità d’azione andava considerato, a suo dire, “come la prima tappa di un lungo cammino che dobbiamo percorrere insieme sulla via che porta al partito unico della classe operaia”.
La linea politica veniva a saldarsi su due punti comuni a socialisti ed a comunisti: partecipazione al governo con i badogliani, rinviando la questione istituzionale alla fine del conflitto; unita d’azione stretta tra i due partiti, nell’ambito dell’unità nazionale, come tappa del processo che avrebbe dovuto condurre all’unità organica. Sul piano degli organigrammi, la conseguenza fu che Lizzadri assunse la leadership del partito nel Mezzogiorno, con la elezione della nuova direzione, e la sua ascesa alla segreteria, affiancato da due vicesegretari che furono Pozzi e Cacciatore.
Il 21 aprile è costituito il nuovo governo, che s’insedia a Salerno. L’atteggiamento del partito a Roma è molto prudente, se non ostile alle decisioni assunte a Napoli. L’esecutivo nazionale in un documento pubblicato dall'”Avanti!” il 15 maggio 1944, a circa due settimane dalla liberazione di Roma, giudica criticamente ciò che è accaduto. “La presidenza Badoglio – vi si legge – e l’investitura regia fanno pesare sul nuovo governo influenze reazionarie che la democrazia italiana deve eliminare”. Ancor più duro è il giudizio sui comunisti: “La ginnastica delle svolte non conviene all’igiene dell’unità d’azione e i socialisti non possono accettare il metodo che consiste nel sostituire gli ordini dall’alto alle esperienze dal basso“. Il riferimento all’ispirazione nascosta della “svolta” togliattiana è talmente trasparente da non aver bisogno di commenti.
Intanto s’avvicina rapidamente il momento dell’arrivo degli alleati a Roma. Il 2 giugno si tenne l’ultima riunione della direzione del PSI del Mezzogiorno, a Napoli. Lizzadri, che doveva rientrare a Roma, lasciava la segreteria, che veniva affidata ad un comitato composto da Cacciatore, da Faeta e da Porzio. Il governo di Salerno ebbe quindi vita breve. Il 9 giugno Badoglio veniva sostituito da Ivanoe Bonomi, espressione dei sei partiti del CLN, che rimetteva il suo giuramento nelle mani del popolo, non più del luogotenente Umberto di Savoia. Dei socialisti meridionali veniva riconfermato Pietro Mancini come ministro dei Lavori Pubblici.
Della decisione che aveva condotto alla partecipazione al governo Badoglio – che fu di vita brevissima – Cacciatore fornì la giustificazione più appassionata, anche se non convincente. Egli si mostrava persuaso della sostanziale continuità tra la scelta del terzo Consiglio nazionale che aveva condotto il PSI meridionale ad entrare nel governo Badoglio, e le successive scelte del partito. È difficile, a posteriori, condividere questa sua affermazione. C’era però un fondo di verità – da non trascurare – nell’osservazione che egli faceva che “la decisione di Napoli costituiva il riconoscimento della nuova realtà storica determinata dalla caduta ignominiosa del fascismo. Il PSI, per la prima volta nella sua storia, ripudiava la tattica della semplice critica e dell’agitazione e si assegnava il compito di una politica costruttiva a favore delle masse lavoratrici”. Si può convenire infatti sull’esigenza, fatta propria già in quella fase dal socialismo meridionale, di non ripetere gli errori dell’età prefascista e di prospettare una funzione di governo del movimento socialista e di un suo ruolo attivo e concreto come classe dirigente nazionale.
Il contrasto tra le due posizioni trovò una soluzione unanimistica nel corso del IV Consiglio nazionale che si tenne a Napoli ancora una volta all’inizio del settembre. Nenni (che già il 2 luglio era intervenuto all’assemblea della sezione napoletana) con la sua relazione ripropose energicamente la questione istituzionale in senso repubblicano. Occorreva – per il segretario socialista – creare “una democrazia italiana e cioè una repubblica italiana“. E proseguiva: “Cause contingenti ci hanno obbligati ad un compromesso che pesa sulle nostre coscienze, ma abbiamo ottenuto la Costituente“. Riconosceva le differenze che dividevano i socialisti dai comunisti affidando tuttavia ai comitati d’unita d’azione il compito di smussare queste differenze.
Con il IV Consiglio nazionale si concludeva la fase che per un anno aveva visto il PSI del Mezzogiorno protagonista della vita politica dell’Italia non invasa, i primi passi di un regime che ancora non poteva definirsi pienamente democratico o nel quale le influenze del vecchio sistema monarchico erano ancora pressanti. Con la costituzione del governo Bonomi e con il ricongiungimento con il centro romano del partito, l’esperienza di quella fase delicata ed importante del socialismo meridionale andò naturalmente incanalarsi nell’azione politica e nella realtà organizzativa generale del Partito socialista, che si accingeva a svolgere il suo ruolo a dimensione nazionale nell’Italia avviata alla completa liberazione.
La liberazione di Roma (4 giugno 1944) segnò una ripresa dell’iniziativa socialista: infatti con la nomina di Umberto di Savoia a luogotenente generale del regno, il governo Bonomi si dimise. In quell’occasione i socialisti, insieme con gli azionisti, rifiutarono la partecipazione, perché Bonomi, considerando decadute le precedenti decisioni politiche dei partiti, accettò l’investitura luogotenenziale. I socialisti, invece, continuavano a sostenere che il governo era emanazione del CLN e che dovesse ricevere solo da questo organismo, in quanto espressione esclusiva della volontà popolare, l’investitura ed il crisma di legittimità. Fu giocoforza – tuttavia – che l’iniziativa si fermasse a metà strada: nel paese dilaniato dalla guerra ai socialisti era difficile porsi in opposizione al governo di solidarietà nazionale, al quale partecipavano i comunisti. Il PSIUP assunse un atteggiamento di astensione di fronte al governo, continuando la collaborazione con gli altri partiti in seno al CLN.
Anche questo episodio dimostra gli scarsi margini esistenti per un’azione socialista autonoma di fronte al compromesso internazionale che trovava la sua proiezione nella situazione, italiana. Tutti questi elementi relativi alla struttura, alla ideologia, ai rapporti con l’altro partito del proletariato italiano sono fra di loro interdipendenti poiché, infatti, il Partito socialista si presenta come un partito marxista del proletariato, e anche il Partito comunista è un partito del proletariato, ed è ideologicamente marxista, la fusione allora è ritenuta inevitabile. Di qui, nell’attesa della unità di tutti i lavoratori in unico partito marxista, l’unità d’azione è considerata come strumento che è destinato a preparare la fusione.
Il rinato Partito socialista si presenta quindi alle masse lavoratrici come un partito a carattere ideologico, pronto alla fusione. Di fronte ai problemi dell’unità popolare del PCI, i problemi di struttura passano in secondo piano. Vi sono dirigenti, come Nenni, per i quali l’unità tra i comunisti e i socialisti appare possibile e necessaria perché sono superati, con la lotta antifascista e l’alleanza internazionale fra l’URSS e le democrazie occidentali, i motivi della scissione comunista di Livorno. L’unità è per Nenni, in quel momento, un obiettivo politico, non una conseguenza necessaria della omogeneità ideologica (l’accettazione del marxismo) tra i due partiti della classe lavoratrice, come vogliono invece altri dirigenti politici del PSIUP, quali Basso, e soprattutto Lizzadri e Cacciatore. Morandi, invece, vede l’unità tra i due partiti nei termini di un rinnovamento generale delle strutture del movimento operaio come il prodotto delle nuove esperienze popolari sorte con il CLN nella lotta di Resistenza, e il cui maturarsi conduce al sistema dei consigli di gestione.
Queste tre posizioni confluiscono su una unica piattaforma politica nella prima assise del PSIUP, il Consiglio nazionale del luglio 1945, nel quale prevale la mozione Cacciatore-Morandi-Basso, sulla mozione autonomista Saragat-Bonfantini-Silone. La mozione di maggioranza affermava che “il partito unico della classe lavoratrice è una costante aspirazione dei socialisti” per cui esso “deve sorgere al più presto possibile“. Infatti la mozione approvata demandava esplicitamente al primo congresso nazionale del partito il compito di realizzare l’unità organica con il PCI.
La mozione di minoranza poneva l’accento sulla irrinunciabilità della dipendenza e autonomia organizzativa del partito, pur riconoscendo la necessità di conservare e rafforzare il patto di unità d’azione con il PCI. La maggioranza del gruppo dirigente poneva pertanto il problema dell’unità organica come un obiettivo di immediata realizzazione; mentre la minoranza, pur accettando il principio della unità dei due partiti ne spostava i termini dal terreno della fusione a quello dell’unità di azione.
Il risultato del Consiglio nazionale del luglio 1945 non poteva però assumere il significato di una adesione del partito alla politica della fusione a breve scadenza, quanto il significato della volontà della maggioranza del gruppo dirigente di condurre il movimento socialista all’unità organica con i comunisti, ritenendo superati i motivi della scissione del 1921.
Il Consiglio nazionale infatti era stato designato per larga parte da quel gruppo dirigente che guidava il partito fin dalla sua costituzione, e che appunto nella dichiarazione politica del 25 agosto 1943, con la quale si asseriva la necessità di realizzare la fusione, lasciava intendere che la ricostituzione del partito era un fatto soltanto temporaneo, in attesa della realizzazione dell’unità organica.
Le stesse minoranze “autonomistiche” del gruppo dirigente del PSIUP, divise tra di loro, sul piano politico, fra un’ala che si ricollegava alla tradizione turatiana della “Critica Sociale” e un’ala che aveva acceso una polemica da “sinistra” con la direzione del partito, non sapevano opporsi con la necessaria fermezza alle manovre fusioniste, accettando nella sostanza la prospettiva dell’unità organica, sia pur rinviandola nel tempo.
Se l’unità organica era possibile e auspicabile, come riteneva il gruppo dirigente del partito, maggioranza e minoranza, nessuna argomentazione valida poteva allora essere adottata perché essa venisse dilazionata nel tempo. Le condizioni politiche internazionali ed interne sembravano infatti le più favorevoli, non ad ostacolare, ma a stimolare la costituzione del partito unico dei lavoratori. Del resto, PCI e PSIUP, perseguivano dal 1943 la stessa politica: quella dell’unità nazionale antifascista, della collaborazione con i partiti democratici nei CLN, con la luogotenenza, e con le forze alleate di occupazione.
La divergenza di fondo tra i comunisti e i socialisti era nella prospettiva politica degli anni futuri, non nella posizione politica di allora. E quando le minoranze autonomistiche del gruppo dirigente accettavano appunto la prospettiva della fusione con i comunisti, esse finivano per annullare ogni elemento reale di divergenza tra il PCI e il PSIUP, rinunciando quindi nella sostanza ad esercitare con efficacia la loro funzione autonomistica. Peraltro, la politica dell’unità d’azione come preludio all’unità organica doveva ancora trovare il crisma della base socialista. L’occasione per porre alla prova di fronte alla base di validità della politica perseguita dal gruppo dirigente fu appunto data dal Consiglio nazionale del luglio, che permetteva ai militanti e ai quadri del ricostituito partito di prendere coscienza degli obiettivi verso i quali si indirizzava l’azione della direzione. Quale fu la reazione della base socialista alla decisione presa dalla maggioranza del gruppo dirigente di accelerare i tempi della fusione? La reazione della base fu negativa, e rivolta in senso autonomistico. “Tutto l’atteggiamento del partito sembrò orientato verso la fusione, che al paese apparve come una messa in liquidazione del PSI“. Così fu in seguito commentata la decisione del Consiglio nazionale, nella relazione che la corrente di Critica Sociale doveva presentare al successivo congresso.
In realtà qualcuno poteva credere, con un errore di valutazione politica, che il PSIUP, in quanto partito numericamente più forte, avrebbe finito per assorbire il Partito comunista, di dimensioni più ridotte.
Nel discorso al primo Consiglio nazionale del PSIUP, Nerini aveva affermato: “La nostra aspirazione è quella di arrivare alla formazione di un partito unico della classe lavoratrice. Sento dire che alcuni compagni di questo hanno paura. Siamo oggi 700.000 socialisti. Saremo tra poco più di un milione di socialisti organizzati. Che cosa può farci paura?“.
Le masse lavoratrici e la base socialista avvertivano la debolezza di questo ragionamento. Comprendevano che dietro le più ridotte, allora, forze organizzate del PCI vi era la forza politica dell’Unione Sovietica, uscita vittoriosa dalla guerra contro il nazismo; vi era la forza di un movimento comunista internazionale, che aveva dato la misura della sua capacità combattiva nel corso di circa trent’anni dalla Rivoluzione di Ottobre.
La stessa maggior forza di attrazione del PSIUP rispetto al PCI era indicativa dell’orientamento delle masse. Se queste condividevano la volontà dei dirigenti socialisti di giungere alla realizzazione del partito unico, donde derivava la loro preferenza per il PSIUP, piuttosto che per il PCI, quando da circa un ventennio la propaganda fascista aveva indicato nel comunismo il più agguerrito avversario del fascismo, e quando il PCI, al contrario dei socialisti, era stato capace di costituire e conservare una forte struttura organizzativa clandestina nella lotta contro il regime?
I lavoratori, dunque, accorrendo in maggior numero nelle fila socialiste avevano espresso la loro preferenza politica per un socialismo a carattere democratico, autonomo dal PCI. La loro reazione alla decisione del gruppo dirigente di procedere rapidamente alla fusione era negativa. Ci fu, di conseguenza, una flessione organizzativa dovuta anche al fatto che il gruppo dirigente, ritenendo imminente la fusione, “curò poco l’opera di organizzazione e di propaganda“, mentre il Partito comunista presentava alle masse la prossima traduzione dell’unità d’azione in unità organica come un successo della sua politica.
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