ELOQUIO, SPROLOQUIO E TURPILOQUIO (III capitolo – 2.)

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “G. D’ANNUNZIO”

CHIETI – PESCARA

DIPARTIMENTO DI LETTERE, ARTI E SCIENZE SOCIALI

CORSO DI LAUREA IN FILOLOGIA, LINGUISTICA E TRADIZIONI LETTERARIE

L’ITALIANO DELLA POLITICA TRA PRIMA E SECONDA REPUBBLICA

RELATORE CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Emiliano Picchiorri Chiar.ma Prof.ssa Maria Teresa Giusti

LAUREANDO

Dario Lorè

Matricola n. 3171312

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

È appariscente la distanza tra un classico della Prima Repubblica come le convergenze parallele e il nuovo ed eversivo vaffa inteso come progetto politico. Secondo il giornalista Francesco Merlo, però, tra queste <<due bizzarrie italiane c’è che più che continuità, c’è la somiglianza che hanno tutti i progetti politici impossibili. Moro e Grillo, direte, nulla di più diverso, nulla di più lontano. Certo, ma convergenze parallele e vaffa esprimono, in modi opposti, una stessa tensione italiana verso l’impossibile, danno nome a una cosa buia.>>[1] Infatti, secondo Merlo, così come Moro spingeva l’idea del compromesso di mettere insieme nello stesso governo – nel punto di fuga dove sembrano convergere le parallele – la DC e il PCI, il cattolicesimo e il comunismo, il diavolo e l’acqua santa, il Papa e Carlo Marx, nello stesso modo Grillo spinge l’idea del “no ai compromessi”, del “no alla casta”, del “no alla politica” sino al punto di fuga del governo contro i governi. Si può portare all’odio per ogni governo? Pensate: il vaffa alle istituzioni è molto comprensibile – è la rabbia italiana – ma le istituzioni del vaffa cosa sono? Sì certo, se si scava un po’ si trovavano le profezie delfiche dell’ideologo Roberto Casaleggio, la sua descrizione con linguaggio infiammato del nuovo ordine mondiale, chiamato Gaia, <<il governo planetario che sarà eletto nel 2054, dopo la terza guerra mondiale, quando gli uomini sulla Terra saranno ridotti a un miliardo, la fine delle religioni, delle ideologie e dei partiti…>>.[2]

Aveva parodizzato, inconsapevolmente, Tommaso Campanella, il mito di Atlantide, Walt Disney e, nel riassumere il cammino del mondo verso Gaia e la sua “Intelligenza Collettiva”, <<Casaleggio insieme all’impero romano, al cristianesimo, alla Rivoluzione Francese fa del vaffa di Grillo una cosmogonia.>>[3]  In questi labirinti si capisce bene che il potere del vaffa che diventa vaffa al potere è come le parallele che convergono, un adunaton. E il linguaggio, in entrambi i casi, è oscuro. E forse bisognerebbe fare la storia delle parole che esprimono e riassumono gli uomini politici come si fa la storia delle idee e delle nazioni e dunque studiare il momento in cui Moro diventò le convergenze parallele, un’espressione che non pronunciò mai. Eppure convergenze parallele è tutto quello che la gente comune ricorda di Aldo Moro, oltre naturalmente al martirio per mano delle Brigate Rosse che forse, però, era già prefigurato in quella espressione di impossibilità, di progetto politico che si affaccia sul nulla. <<Moro era convinto>> – come scrisse Montanelli – <<che, per la Democrazia e i suoi valori liberali, la partita fosse persa, e che l’unica cosa da fare era associare al potere i comunisti lasciando che il potere li corrompesse come aveva fatto con i democristiani>>.[4] Il giornalista Francesco Merlo immagina quindi che come le convergenze parallele contenessero sia il delitto di Via Fani sia la fine della DC per mano di Mino Martinazzoli, così il vaffa di Grillo tra qualche anno potrebbe rivelare la fine della sua stessa storia.

Mino Martinazzoli era un uomo di poche parole e dunque la DC dei discorsi interminabili venne seppellita da un taciturno che aveva la passione della politica. Martinazzoli aveva la colpa di voler <<ripulire l’oscura lingua della DC con ironia e con pietà>>. Come diceva lui stesso: <<Nella politica italiana va in onda, in prima mondiale, la quadratura del cerchio>>[5]. A questo proposito Merlo è convinto che <<la lingua italiana abbia salvato la politica perché l’ha saputa raccontare, ha saputo dire l’indicibile, a partire forse dal 1876 che è l’anno di nascita del Corriere della Sera, e dunque del giornalismo italiano, ma è anche l’anno della Sinistra storico del governo e dunque del “trasformismo”, la più vecchia delle parole strambe della politica, quella che però ne continua ad acchiappare, ancora oggi, la sostanza>>[6].

Prima di diventare trasformismo, questa consolidata maniera di fare politica, con i suoi corollari di clientelismo e corruzione, veniva chiamata assimilanza, che è una parola che non ha fatto carriera. Trasformismo è invece la sintesi dell’autodifesa che Depretis fece alla Camera dei Deputati: <<Se qualcuno vuole entrare nelle nostre file, se qualcuno vuole “trasformarsi” e diventare progressista come posso respingerlo?>>. Scrisse Benedetto Croce: <<… poco di poi seguì la parola che dava la coscienza della dissoluzione avvenuta, una parola che parve brutta o addirittura vergognosa, e col senso di pudore e di ribrezzo correva per le labbra di tutti: trasformismo. Con le elezioni dell’80 si era costituito il centro sinistra; con quelle dell’82 si ebbe la nuova maggioranza del Depretis, quella appunto del “trasformismo” che egli chiamava “il grande nuovo partito nazionale”>>[7].

La coincidenza anagrafica della nascita del Corriere e del trasformismo come metodo sta all’origine della particolarità del nostro migliore giornalismo politico che ha affiancato alla prosa paludata, moralistica e compiacente anche quella divertita, la polemica fulminante e l’ironia tagliente che lo hanno reso ricco e piacevole con le cronache parlamentari come canovaccio del trasformismo, dai ribaltoni di Depretis-Minghetti sino a quelli più recenti di D’Alema, Bossi, Berlusconi, Renzi, sempre in nome della “governabilità”, che è un’altra parola magica.

Sono diversi gli episodi in cui, il più delle volte, abbiamo assistito a dei veri e propri strafalcioni da parte dei politici. Questo probabilmente può essere legato a una scarsa attenzione della padronanza linguistica, rispetto alla formalità del linguaggio adoperato durante la Prima Repubblica. Non mancano nemmeno veri e propri errori ortografici basilari.

A questo si aggiunge l’eccessivo incremento del tasso di aggressività del linguaggio politico. Per citare il Presidente Mattarella nel discorso di fine anno del 2016: <<Non è un fenomeno nuovo, ma è in preoccupante ascesa: quello dell’odio come strumento di lotta politica. L’odio e la violenza verbale, quando vi penetrano, si propagano nella società, intossicandola.>> Anche questa infatti è la via che si vuole percorrere in questa ricerca, sottolineare, anzi rimarcare, quanto la politica abbia negli ultimi anni provocato ira nei confronti dei cittadini, a tal punto da dover leggere quotidianamente insulti e parolacce. La diffusione dei social network, inoltre, ha aggravato la situazione dando agli utenti la possibilità di interagire, aggiungendo “benzina sul fuoco”. In questa parte del lavoro il “trasformismo” è, dunque, il nostro filo conduttore poiché aiuta a evidenziare il netto contrasto tra le varietà linguistiche e politiche della Prima e dell’attuale Seconda Repubblica.

Basta vedere cosa succede in rete quando Grillo lancia le sue invettive contro qualche personaggio pubblico. Il linguaggio rozzamente rissoso a cui i politici ricorrono sempre più spesso, non può che autorizzare un uso altrettanto scurrile e violento da parte dei seguaci, a riprova di quanto già detto.

Non un partito, un movimento. Proprio come il <<Movimento politico Forza Italia>> fondato da Berlusconi. A dispetto di tutto l’odio riversato su di lui in questi anni, il linguaggio non-politico (anti-politico) dei Cinque stelle è figlio proprio di Berlusconi e della rivoluzione linguistica che ha segnato la cosiddetta Seconda Repubblica. È l’esito di una evoluzione (involuzione) che nel giro di pochi anni ha portato l’italiano della politica da lingua artificialmente alta a una lingua altrettanto artificialmente bassa. Una lingua basica, elementare, grossolana. Apparentemente chiara, in realtà vuota, dal momento che si limita a ignorare o banalizzare le complesse questioni a cui dovrebbe far fronte.

Questo passaggio è stato accelerato, come era prevedibile, dallo spostamento del dibattito politico prima nell’ambito della chiacchiera televisiva (i talk show), poi di quella telematica (i blog, i social network, le chat). E ha fatto tutt’uno con il passaggio dall’argomentazione alla narrazione e il conseguente abbandono di una vera dialettica. <<Proliferazione di parole che cerca di colmare il difetto di presa sul reale>>[8] la definisce Christian Salmon.

Lo spazio delle parole si è ampliato a dismisura, ma nella stessa misura si è ridotto il tempo per il ragionamento e la discussione. Le uniche parole sono rimaste, così, parole d’ordine (o disordine, come dice Antonelli[9]) ripetute all’infinito, riprese a voce sempre più alta per coprire la voce di chi in quelle parole non si riconosce. Alla partecipazione si è sostituita la condivisione. Un meccanismo che sfrutta l’orizzontalità della rete, ma è in realtà verticale e verticistico: perché trasforma ogni attivista in passivo ripetitore impegnato a diffondere, rilanciandolo, un messaggio preconfezionato.

La politica si è sempre nutrita di parole però, adesso, le parole sembrano aver occupato tutto lo spazio: anche quello che dovrebbe essere del pensiero. La loro stessa genericità le allontana progressivamente dalla concretezza dei fatti, fino a renderle parole senza le cose. Dietro all’apparenza di un falso movimento, <<le parole stanno paralizzando la politica>>[10] dice Antonelli.

Come sappiamo bene questo è un processo che sta investendo l’intero globo. Un libro recente, scritto da Mark Thompson (presidente e chief executive del <<New York Times>>), s’intitola La fine del dibattito pubblico.[11] Vale a dire un confronto dialettico basato sulle idee e sulle proposte, cosa ben diversa dall’aggressiva faziosità politica sempre più simile al tifo calcistico. Proprio al tifo calcistico, d’altronde, rimandava nel 1994 il nome scelto da Berlusconi per il suo movimento: Forza Italia. Per sottolineare l’analogia sportiva, gli iscritti ai “club” di Forza Italia erano chiamati “gli azzurri”. Berlusconi aveva fatto scrivere anche un inno, da cantare in coro per sentirsi parte di un’unica squadra.

Per non essere da meno, il MoVimento 5 Stelle di Beppe Grillo di inni ne ha cambiati già tre. L’ultimo, nello specifico, Lo facciamo solo noi! di Max Bugani, ha permesso ad Antonelli di riscontrare non poche analogie con l’inno e gli spot di Forza Italia. Per esempio il <<per fortuna che qui prima o poi / governiamo noi>> su cui l’inno dei Cinque stelle si chiude, riporta direttamente all’inno di Forza Italia: Meno che Silvio c’è.

Nel testo scelto da Grillo c’è tutto il lessico classico del qualunquismo populista. Se i buoni siamo noi, i cattivi sono loro. Ma loro chi? Le tre marionette, ad esempio: un’espressione che rimanda al berlusconiano teatrino della politica. O, meglio ancora, la casta.

Di seguito il testo completo del brano dal quale sono stati individuati i riferimenti:

Lo facciamo solo noi

di salire sopra il tetto

di pretendere rispetto

da chi proprio non ce n’ha.

Lo facciamo solo noi

di non fare compromessi

di restar sempre noi stessi

per amore di onestà

Lo facciamo solo noi

di non prendere i rimborsi

di far fatti e non discorsi

per la nostra ITALIA

RIT: Noi diamo i soldi per fare le strade

loro distruggono la scuola pubblica

noi finanziamo le piccole imprese

loro le fottono con la politica

le autoblu le lasciamo alla casta

guadagniamo quel tanto che basta

per fortuna che qui prima o poi

governiamo noi.

Lo facciamo solo noi

di difendere l’ambiente

di arrestare il delinquente

che avvelena la città

Lo facciamo solo noi

di creare il Cambiamento

noi che siamo il Movimento

e che siamo ancora qua.

RIT: Noi diamo i soldi per fare le strade

Loro fan fuori la salute pubblica

noi lavoriamo anche quando è Natale

a loro sembra che è sempre domenica

accidenti a ‘ste tre marionette

fan più danni delle sigarette

per fortuna che qui prima o poi

governiamo noi.

governiamo noi.

governiamo noi.

governiamo noi.

Un movimento, quindi, non un partito. Anzi: un anti-partito. Proprio come il Movimento Sociale fondato da Giorgio Almirante. Già Mussolini, d’altronde, metteva tra i tanti –ismi da combattere anche il partitismo.

Che dire di un movimento il cui leader, durante la prima campagna elettorale per le elezioni politiche, ha esclamato a muso duro: <<apriremo il Parlamento come una scatola di tonno>>?[12] Affermare che in democrazia non ci sia bisogno di istituzioni rappresentative implica automaticamente il passaggio dalla democrazia alla demagogia, la quale prende qui una delle sue sembianze peggiori: il populismo.

“In nome del popolo” sembrano parlare, ed è così storicamente, <<solo gli imbroglioni e i dittatori>>[13], ha fatto notare Michele Serra. Secondo l’editorialista de “La Repubblica” esistono invece <<le moltitudini di individui che si raggruppano e si dividono, si alleano e si combattono, cambiano vita e cambiano idea>>. L’hanno fatto la Le Pen e Trump recentemente e Grillo in uno dei suoi noti comizi si domandava proprio dove fosse il “popolo sovrano” (<<Dove cazzo sta il popolo sovrano?>>).

E viene davvero da chiederselo, visto che quello dei Cinque stelle sembra più che altro un popolo seguace, senza diritto individuale più che di parola per quanto riguarda le dichiarazioni pubbliche e stretto da vincoli di mandato suggellati con contratti di diritto privato. Un popolo unito soprattutto dalla condivisione (più o meno passiva e virtuale) delle parole che partono dall’alto. <<Perché>>, come dice Antonelli, <<uno vale uno, ma c’è sempre qualcuno più uno degli altri>>; anche qui è possibile scorgere un riferimento di orwelliana memoria.[14]

Se la democrazia quindi è, etimologicamente, il potere del popolo, la demagogia rappresenta il potere dei capipopolo. Nella storia della politica italiana, anche per ragioni che vanno al di là dell’Italia, democratico è stato un aggettivo più usato dalla sinistra mentre il suo sinonimo popolare è sempre più caro all’area cattolica. Ora, scomparsa la prospettiva legata ai due grandi partiti di massa, l’area più affollata risulta di gran lunga quella tenuta insieme dall’aggettivo populista.

Sempre secondo Antonelli <<oggi, l’eloquenza di molti politici può essere definita volgare proprio a partire dall’uso distorto che fa delle parole e del concetto di popolo. Un uso dal quale discende quasi sempre una retorica dell’abbassamento. Nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come popolo bue. Qualcuno a cui rivolgersi con frasi ed espressioni terra terra, cerca di risvegliarne bisogni e istinti primari>>[15]. Si ipotizza, a questo punto, un terzo “paradigma” del linguaggio adottato dai politici, quello della “condivisione”. In esso il dibattito si fa, paradossalmente, aspro e divisivo, ma il linguaggio è condiviso, uguale per tutti. Un tempo bastavano poche frasi per capire l’appartenenza politica di chi stava parlando o scrivendo. Già da qualche anno, invece, la tendenza è a rendere irriconoscibile la provenienza politica, come se il parlante o lo scrivente se ne vergognasse. <<Noi stiamo con la maggioranza delle donne e degli uomini di questo paese. Con chi ha bisogno. Con chi chiede sicurezza, certezza per il domani. Con chi ha una famiglia da tirare su, un futuro da costruire per i propri figli, anziani o malati da assistere con amore>>[16]. Sembra il classico discorso di Berlusconi, e invece è Francesco Rutelli.

Un tempo c’erano parole di sinistra e di destra: oggi solo parole comuni. Questa era la sensazione che si aveva – nella primavera del 2016 – guardando le nuvole (le tag cloud) con le parole più usate nei programmi dei candidati a sindico di Roma e di Milano.

Parole comuni, o meglio parole in comune: città e nome della città, poi comune e comunale, servizio e servizi.  Per scovare le differenze, bisognava aguzzare la vista. Il gioco avrebbe potuto chiamarsi, riprendendo una formula fortunata di Stefano Bartezzaghi, <<lessico e nuvole>>[17]. Solo così ci si accorgeva che l’unica menzione partitica, in un contesto in cui tutti preferivano parlare di politiche piuttosto che di politica, riguardava proprio il non-partito dei Cinque stelle. E si trovava nel programma di Virginia Raggi, in cui l’accento veniva spostato non a caso dalla città ai cittadini; mentre in quelli di Alfio Marchini e Giorgia Meloni, accanto a Roma e città si trovava in grande evidenza la parola capitale. Altri candidati, come Stefano Parisi a Milano e Roberto Giachetti a Roma, preferivano la coralità della quarta persona o l’oggettività della terza, ricorrente soprattutto nel programma milanese di Giuseppe Sala (deve, può, va). Nelle nuvole dei Cinque stelle, invece, i verbi tendevano a scomparire del tutto, affidando l’azione all’impersonalità dei nomi astratti: amministrazione, formazione, partecipazione, realizzazione, riorganizzazione (dal Partito d’Azione al non-partito delle –azioni).

Va detto che in quelle nuvole i verbi risultavano meno frequenti dei sostantivi e tra i sostantivi prevalevano quelli più generici. Abbondavano i riferimenti al qui e all’oggi e le ricorrenze dell’aggettivo nuovo, ma mancavano quasi del tutto parole con una riconoscibile impronta locale o attuale, per non dire realmente innovativa. Da Roma a Milano, un unico luogo comune fatto di territorio, sistema, sicurezza, lavoro. Nessun visibile riferimento alle Olimpiadi o all’Expo, assenti o marginali alcune parole chiave del dibattito politico più recente come digitale o, su tutt’altro versante, corruzione. Escluso qualche isolata comparsa lessicale (euro, rete, start up), tutti programmi anacronistici.

Partendo dall’idea del consenso come consumo, l’involuzione della lingua politica ha seguito negli anni una perfetta logica commerciale. Si è via via abbassata al livello dei consumatori, così da accarezzarne e gratificarne l’ego. Sempre più bassa, insomma e ne troviamo conferma anche in Goffredo Buccini, il quale ha scritto: <<la forza dei Cinque stelle oggi sta soprattutto qui, senza scomodare nemmeno post-verità e algoritmi: ogni corbelleria, ogni affronto alla lingua del Manzoni ce li rende più cari, perché rassicuranti e simili in fondo ai nostri molti difetti. Rovesciando la convinzione che prima Gramsci e poi Togliatti avevano instillato nelle classi italiane più svantaggiate, e cioè che cultura e conoscenza sarebbero state le vere armi per conquistare l’egemonia, il verbo pentastellato postula una sorta di santa ignoranza, di stato naturale dell’umanità. Congela ciò che il PCI voleva mutare>>[18].

In ogni caso questa rappresenta una tendenza generale che non è affatto cominciata coi Cinque stelle. Notava già nel 2010 Cesare Segre: <<la nostra classe politica, che in tempi lontani annoverava ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato. È la tentazione, strisciante, del populismo>>[19]. Nel suo progressivo smottamento dal nazionale al popolare, la lingua pubblica ha finito col rispecchiare non l’italiano dell’uso medio[20], bensì quello che De Mauro ha per primo definito “italiano popolare”: <<il modo di esprimersi di un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che ottimisticamente si chiama lingua “nazionale”>>[21]. Allo standard, in sostanza, è stato preferito il substandard.

Certo: popolare può significare anche “democratico”. Per Tullio De Mauro un modello di italiano era rappresentato dalla lingua della Costituzione: precisa e puntuale; nitida nella sintassi, trasparente nel lessico: <<parole di tutti e per tutti>>. Di qui la sua polemica contro la <<vecchia lingua parruccona>> di tanta burocrazia e di certa scuola conservatrice. Di qui anche la sua instancabile battaglia per una <<educazione linguistica democratica>>, in grado di consentire a tutti un uso consapevole della lingua.

Affermare che i politici di oggi usano un italiano popolare, in effetti, è sbagliato: il loro è un italiano populista, secondo una formula usata da Giuseppe Antonelli. Cosa ben diversa, perché l’italiano populista ostenta una popolarità artificiale: orgogliosamente becera, consapevolmente o inconsapevolmente dolosa. Puntando sul politicamente e sul grammaticalmente scorretto, trasforma il paradigma del rispecchiamento in uno specchio deformante. L’italiano populista è altro da quello popolare perché non solo non evita gli errori, ma li usa come nella retorica classica si usavano i vari ornamenti stilistici. I suoi strumenti non sono più le clausole bilanciate, i parallelismi sintattici, le citazioni in latino o in greco. Sono le sgrammaticature, gli anacoluti, l’inglese maccheronico e gli inserti dialettali. Sono le parole storpiate, il turpiloquio, i verbi inventati, i congiuntivi sbagliati.

Un aneddoto presente nel libro di Antonelli racconta come in un’intervista, un sostenitore di Antonio Di Pietro, dichiarasse pubblicamente la sua soddisfazione nell’elezione dell’ex PM poiché rappresentava l’uomo del popolo, uno che sbagliava i congiuntivi come il “popolo”, appunto. Di strage dei congiuntivi, anche se solo per omissione era già stato accusato Massimo D’Alema (per frasi come <<io ritengo che questa vicenda dimostra che lui è un prepotente>>) e prima ancora, in epoca di Prima Repubblica, Bettino Craxi (<<io penso che le nostre possibilità sono limitate>>). Commentava Luciano Satta: <<il potere logora i congiuntivi di chi lo detiene>>.[22]

Comunque meglio non usarlo che usarlo male, il congiuntivo. Come il senatore Lorenzo Bodega (Lega Nord) che, in un intervento in Parlamento, ha detto: <<non ci precludiamo la speranza che l’esito del vertice europeo segui l’atteso cambio di rotta>>. O l’allora sindaco di Roma Gianni Alemanno che nel 2012 si è lasciato sfuggire uno <<spero vi servi>> davanti a degli studenti del liceo.

I maltrattamenti del congiuntivo sono continuati anche negli ultimi anni, senza sostanza, con un rimando tipicamente fantozziano. Infatti sono riscontrabili nel <<Mi facci finire>> di Alessandro Di Battista e nel <<Come vi sareste comportati voi se questi accadimenti avrebbero riguardo altri partiti>> di Michela Di Biase (capogruppo del PD a Roma), fino ad arrivare al <<Come se presentassi venti esposti contro Renzi, lo iscrivessero al registro degli indagati, poi verrei in questa piazza e urlerei Renzi è indagato>> di Luigi Di Maio.

E pensare che nell’ottobre del 1947, in una seduta dell’Assemblea Costituente, uso e significato di un congiuntivo erano stati al centro di un serrato dibattito tra Giuseppe Dossetti, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. <<Spero che il gruppo democristiano non pretenderà di farci cambiare la grammatica italiana col peso dei suoi 207 voti>>, aveva tuonato a un certo punto il segretario comunista.

Il congiuntivo viene oggi percepito come un modo fine, elegante. Questo spiega come mai i linguisti si trovino a segnalare sempre più spesso congiuntivi usati dove la norma richiederebbe semplici indicativi. In molto, spinti dall’idea di fare bella figura, cadono in quell’errore che la linguistica chiama “ipercorrettismo”. Come Carlo Sibilia, deputato del MoVimento 5 Stelle, che in un post su Facebook scriveva: <<Meno male che Renzi sia stato fischiato durante il dibattito con il presidente dell’Anpi […] Credo che se il Tg1 non abbia detto neanche una parola su quanto è accaduto vuol dire che siamo oltre il regime>>. O oltre la grammatica.

Poi, certo, non è solo questione di congiuntivi. Grazie ai social network, infatti, si è scoperto che i nostri onorevoli hanno spesso problemi anche con l’ortografia. A Roberta Lombardi, che nella sua pagina Facebook aveva scritto, riferendosi al sito Dagospia: <<di solito leggo fonti un pò più “alte”>>, Roberto D’Agostino, autore del sito, ha risposto: <<brava, continua a leggere “fonti un pò più alte”, magari scoprirai che un po’ si scrive con l’apostrofo…>>. Permaloso, ma ortograficamente impeccabile.

Il fenomeno riguarda ormai tutti gli schieramenti. Dall’ha fare di Daniela Santanchè fino a <<un’ente locale, ripeto un’ente locale>> di Stefano Boeri, passando per i , i , gli stà di Micaela Biancofiore. Matteo Salvini ha detto che migrante era un gerundio, Maurizio Gasparri ha usato chiesimo come passato remoto. Di Maio (ancora lui) ha detto <<Se voglio dire qualcosa alla Raggi la telefono>> oppure, e questo episodio risale solamente a qualche giorno fa quando si discuteva sul tema euro e Unione Europea: <<Io da sempre ho sempre detto che… il MoVimento ha sempre detto che noi volessimo fare un referendum sull’euro…>>. Inoltre Di Maio ha anche dimostrare di avere qualche pecca in geografia e storia quando in un suo discorso ha collocato Pinochet, ex dittatore cileno, in Venezuela. E, infine, ancora Alessandro Di Battista ha parlato di un maggior soddisfamento. Forse, come Beppe Grillo ebbe a dire dei partiti, anche la grammatica in Parlamento si va liquefando.

Oggi, complice la rete, l’uso politico della grammatica sembra essersi intensificato. Non solo perché gli strafalcioni abbondano, ma anche perché diventano immediatamente di dominio pubblico. Bisogna, però, fare attenzione che il dibattito sull’errore di grammatica non ci distragga dalle vere questioni politiche. Emblematica, in questo senso, la vignetta in cui Renzi trionfante diceva: <<Il problema migranti è risolto: è un participio presente>>[23].

Il rischio è che, parlandone troppo, si finisca col creare intorno a quegli errori un solidale alone di simpatia. Senza i suoi strafalcioni linguistici e senza l’imitazione di Crozza, Antonio Razzi sarebbe probabilmente uno dei tanti sconosciuti che siedono in Parlamento. E invece, dopo essere salito all’onore delle cronache per un colorito fuori onda parlamentare e poi per uno sgrammaticato intervento in difesa del tratto ferroviario Roma-Pescara, ha continuato a curare il suo rapporto con l’italiano. Come? Per esempio, augurando a tutti <<buona pascuetta>> in un tweet che ha fatto rapidamente il giro della rete. O battendosi a più riprese per la promozione della lingua italiana all’estero. Ultimamente si è anche distinto per voler fare da paciere tra Trump e il dittatore nordcoreano Kim Jong-Un.

Per non parlare di quanto sia diventato comune l’uso del vaffa, come abbiamo già notato anche in Francesco Merlo. Dopo la campagna elettorale per le politiche del 2006 l’uso del vaffa è diventato di per sé uno slogan. Lo sberleffo si è trasformato a sua volta in una forma di marketing politico. Ormai non ha più bisogno di appoggiarsi ad altro. Non è più parodia di qualcosa, non ha più un bersaglio preciso: basta a sé stesso. A colpire non è tanto il fatto che un politico dica vaffa. Quanto che un intero movimento politico, un’intera idea di politica (o anti-politica) si regga su quel vaffa: ne faccia il perno della propria protesta. E proprio grazie a questo diventi, nel giro di pochi anni, la prima forza politica italiana. Non si può che convenire con Beppe Grillo: il suo vaffa ha davvero rappresentato per l’Italia <<una svolta epocale>>.

La data della svolta è stata l’8 settembre 2007. <<L’8 settembre sarà il giorno del Vaffanculoday o V-Day. Una via di mezzo tra il D-Day dello sbarco in Normandia e V come Vendetta. Si terrà sabato 8 settembre nelle piazze d’Italia per ricordare che dal 1943 non è cambiato niente. Ieri il re in fuga e la Nazione allo sbando, oggi i politici blindati immersi in problemi “culturali”. Il V-Day sarà un giorno di informazione e di partecipazione popolare>>[24].

Un proclama di convocazione che, a rileggerlo oggi, porta con sé almeno un paio di riflessioni. La prima riguarda un aspetto esplicito: il disprezzo con viene usato l’aggettivo culturali. Qui sinonimo di inutili, astratti, vuoti, elitari: la cultura come idea stessa della parassitaria perdita di tempo. La seconda nota, invece, riguarda un aspetto implicito ma ancora più clamoroso. Più o meno consapevolmente, il richiamo all’8 settembre propone effettivamente di riprendere il discorso da ciò che c’era prima. Anche prima del 25 luglio? Perché se così fosse, il Vaffa-day nascerebbe in termini di aperta continuità con il fascismo.

Una continuità sicura è proprio quella rappresentata dal vaffa, vero centro dei “proclami” di Grillo prima da comico e poi da politico. <<Altra prova del carattere radicalmente pre-politico di questa volgare eloquenza>>[25], dice Antonelli. L’8 marzo 1992, in pieno scandalo Tangentopoli, il giornalista de “L’Espresso” Roberto Gatti intervistava Beppe Grillo alla fine di uno spettacolo in cui aveva <<fanculato>> – suscitando grande consenso da parte del pubblico – una serie di personaggi famosi, politici compresi.

La prima domanda del giornalista era: <<Signor Grillo, partiamo dai “fanculo” che ogni sera spara a raffica: non le sembrano un mezzo un po’ volgare per scatenare l’ilarità della gente?>>. Risposta di Grillo: <<Ma quale volgare… Volgare non sono io, che dico “figa, cazzo, culo” quando il senso della frase lo richiede>>. Volgare è, a suo dire, chi in televisione usa eufemismi, chi si esprime in pubblico usando parole ipocrite. <<E io tutta questa gente non dovrei fancularla? Ma la fanculo a raffica!>>. Da qui scaturisce l’illuminazione: <<Quando, nei giorni successivi, ho ricevuto i messaggi di tantissima gente incazzata come me, che mi diceva che avevo fatto bene a urlare “coglione”, ho capito che quella era la strada giusta. E il fanculo di oggi ne è la logica conseguenza>>[26].

La retorica nera e apocalittica di Beppe Grillo era pronta già all’epoca per sbarcare in politica. Ma il meccanismo aveva bisogno ancora di qualche anno per essere rodato, e aveva bisogno della rete (blog, social network) per potersi diffondere adeguatamente. Forse aveva bisogna anche dell’ulteriore frustrazione accumulata per il fallimento della stagione di Mani Pulite e per la fine delle illusioni berlusconiane.

Ma il procedimento retorico era già chiarissimo e ha iniziato a fondarsi sulla potenza liberatoria dell’insulto ai potenti. <<Il fanculamento dei politici, dei potenti, è un mero pretesto per fanculare la gente, lei, me stesso. Perché è colpa nostra se siamo ancora comandati da individui di questo tipo>>[27]. L’insulto al potere è sempre stato concesso al giullare, anche per lasciare al malcontento una valvola di sfogo. <<Solo che finora nessun giullare aveva mai pensato di farsi re>>[28].

Nel frattempo è cambiato anche il nostro rapporto con le parolacce. <<Negli anni Settanta e Ottanta le parolacce esistevano, naturalmente>>, osservava Tullio De Mauro in un’intervista del febbraio 2016, <<ma non comparivano con grande frequenza ed erano piuttosto marginali: non apparivano negli scritti né sui giornali, ma prevalentemente nell’avanspettacolo>>. Dagli anni Novanta, invece, hanno preso a dilagare un po’ dappertutto: <<giornali, letteratura, romanzi, teatro, cinema, televisione, perfino le aule giudiziarie, vedono frequentemente occorrere il gruppetto delle male parole più clamorose>>[29].

<<Nel nostro dibattito pubblico>>, notava Marco Imarisio, <<sono saltate regole elementari di convivenza, tolleranza, persino di educazione minima. Ormai il pensiero di pancia, la battuta greve, sono diventati consuetudine. Non c’è più alcune intermediazione tra stomaco e polpastrelli, buona la prima, come se fossimo in un gigantesco bar sport virtuale>>[30]. Nell’era della riproducibilità a oltranza, il confine tra privato e pubblico è diventato sempre più labile, consentendo un continuo sconfinamento della prima sfera nella seconda. Il privato, insomma, è diventato pubblico. E anche politico, seppure non nel senso che la frase aveva negli anni Settanta.

In uno dei suoi reportage, Daniele Rielli racconta i corridoi del Parlamento nei giorni che hanno preceduto l’elezione di Mattarella a Presidente della Repubblica. A un certo punto c’è Debora Serracchiani che <<sta rilasciando una dichiarazione a beneficio dei microfoni. Lo stacco fra tutto quello che c’è attorno – le chiacchiere, le pacche sulle spalle, le battutine taglienti, gli sguardi di chi vuole far capire che ha sgamato il tuo gioco ma ci sta, ci mancherebbe – e la lingua piena di parole responsabili, rassicuranti e rotonde destinata alle cucine degli italiani è straniante. In quell’angolino della sala si sta fabbricando una piccola dichiarazione politica che poi sarà spedita ad avere una vita propria. Una versione che traduca nell’incerta e modesta sacralità con cui il potere si mostra nel mondo di fuori quello che di molto prosaico sta accadendo qui, nel mondo di dentro. Due lingue diverse e necessarie ai fatti della vita, che non si toccano minimamente>>[31].

Due lingue diverse e necessarie, se davvero si continua ad avere a cuore la sacralità non del potere, ma delle istituzioni. Ovvero la dignità e la responsabilità legate al fatto di ricoprire una carica pubblica, di rappresentare nelle istituzioni quel “popolo” di cui tanto ci si riempie la bocca. È anche per questo che Grillo si tiene fuori da qualunque ruolo istituzionale, per non essere costretto a differenziare il suo stile comunicativo.

Infatti, come dimostra anche uno studio statistico svolto da Stefano Ondelli, le parolacce restano il cuore della sua oratoria: <<la vera cifra stilistica di Grillo sono i disfemismi>>. Tra quelli registrati in una selezione dei suoi discorsi, ci sono <<affanculo, cazzini e cazzo, tra i forestierismi un fucking clown e poi microcacche, minchiate, un pudico pipì e, per finire, pirliamo, pugnette, puttaniere, il tipico suffissato da Seconda Repubblica puttanopoli, una cinematografica supercazzola>>[32]. Inoltre, l’identificazione del leader col cittadino comune è assicurata dai colloquialismi (ammanicati, menarmelo) e da voci dialettali e regionali (ammuina, danè, inghippo, madunina, mortacci, ecc.), sorprendentemente più numerosi in Grillo che in Bossi, che comunque attinge solo dal repertorio lombardo.

La parolaccia fa guadagnare voti, purtroppo. E non solo in Italia. A dimostrarlo, una serie di studi scientifici portati avanti negli ultimi anni nell’ambito della psicologia sociale. Da ultimo anche quello di due studiose italiane, Nicoletta Cavazza e Margherita Guidetti[33], che hanno testato le reazioni di alcune persone al comportamento verbale di due candidati fittizi. Alla domanda esplicita: <<un messaggio volgare è più efficace?>> rispondeva di sì solo il 21%. Ma, alla prova dei fatti, frasi come una situazione che fa incazzare o ci si trova nella merda ottenevano un ottimo riscontro, perché associate (soprattutto dagli uomini) a un’idea di informalità, sincerità, energia.

Grillo non è certo l’unico a sfruttare questa tecnica; anche Salvini, per dirne uno fra tanti, il quale ha avuto Bossi come “maestro”, è solito imbottire il suo linguaggio di turpiloquio.

Non stupisce, dunque, che la parolaccia stia facendo tanta strada nella retorica politica.

 

[1] F. Merlo, La lingua di legno è un manganello. Dagli scarponi chiodati all’hashtag #enricostaisereno, in R. Piro, R. Librandi (a cura di), L’italiano della politica…, cit., p. 153.

[2] F. Merlo, Insulti e nomi storpiati da Grillo, in “La Repubblica”, 12 novembre 2012.

[3] F. Merlo, La lingua di legno…, cit., p.153.

[4] I. Montanelli, Liberali di destra e liberali di sinistra, nella rubrica “La stanza di Montanelli” in “Corriere della Sera”, 7 maggio 2001.

[5] F. Merlo, La lingua di legno…, cit. p. 154.

[6] Ivi, p. 155.

[7] B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza Editori, Bari, 1928.

[8] C. Salmon, G. Gasparri, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi Editore, Roma, 2008.

[9] G. Antonelli, Volgare Eloquenza…, cit., p. 11.

[10] Ivi, p. 12.

[11] M. Thompson, La fine del dibattito pubblico. Come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia, Feltrinelli, Milano, 2017 (diverse pagine sono dedicate a Berlusconi).

[12] Beppe Grillo alla presentazione delle liste elettorali del MoVimento 5 Stelle per le Elezioni Politiche del 2013.

[13] M. Serra, L’amaca, in “La Repubblica”, 7 febbraio 2017.

[14] In questa frase sembra palese il riferimento alla “Fattoria degli animali” di George Orwell: <<Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri>>.

[15] G. Antonelli, Volgare Eloquenza…, cit., pp. 16-17.

[16] La frase di Rutelli è tratta dal discorso tenuto alla Conferenza Nazionale dell’Ulivo il 20 aprile 2001.

[17] “Lessico e Nuvole” è un blog su “La Repubblica” gestito da Stefano Bartezzaghi.

[18] G. Buccini, Fenomenologia grillina del superuomo di massa, in “Corriere della Sera”, 12 febbraio 2017.

[19] C. Segre, Così degrada la nostra lingua. L’italiano e i registri violati, in “Corriere della Sera”, 13 gennaio 2010.

[20] F. Sabatini, L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in G. Holtus, E. Radtke, Gesprochenes Italienisch…, cit., pp. 154-184.

[21] T. De Mauro, Per lo studio dell’italiano popolare unitario, introduzione ad Annabella Rossi, Lettere da una tarantata, De Donato, Bari, 1970, pp. 43-75.

[22] L. Satta, Scrivendo & parlando: usi e abusi della lingua italiana, Sansoni, Firenze, 1988, p. 72.

[23] Vignetta di Walter Leoni del 2 giugno 2015.

[24] Discorso apparso nel luglio del 2007 sul blog del sito di Beppe Grillo in cui si invitavano gli iscritti a partecipare al primo “Vaffa-day”.

[25] G. Antonelli, Volgare Eloquenza…, cit., p. 71.

[26] R. Gatti, Non è più tempo di satira politica. Intervista a Beppe Grillo, in “L’Espresso”, 8 marzo 1992.

[27]Ibidem.

[28] G. Antonelli, Volgare Eloquenza…, cit., p. 72.

[29] Alessandra Lemma, Politici e male parole: specchio del paese, intervista a Tullio De Mauro, agenzia di stampa “La presse”, 3 febbraio 2016.

[30] M. Imarisio, Il caso Raggi e il gigantesco bar sport oltre gli argini della convivenza civile, in “Corriere della Sera”, 10 febbraio 2017.

[31] D. Rielli, Storie dal mondo nuovo, Adelphi, Milano, 2016, p. 21.

[32] S. Ondelli, Populismo e parolacce nella comunicazione politica: Beppe Grillo, pubblicato nel portale Treccani.it.

[33] N. Cavazza, M. Guidetti, Swearing in Political Discourse: Why Vulgarity Works, Journal of language and social psychology, vol. 33, 2014, pp. 537-547.