LA STORIA DELLA BRIGATA MAIELLA

I Ragazzi della Brigata Maiella con Ettore Troilo

di Carlo Troilo

IL 5 DICEMBRE DEL 1943, SI COSTITUÌ A CASOLI LA BRIGATA MAIELLA, la sola formazione partigiana, assieme al Corpo Volontari della Libertà, decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare, la prima a conquistarsi la fiducia e le armi degli alleati l’unica che, una volta liberata dai tedeschi la regione di origine, continuò a combattere a fianco degli alleati attraverso le Marche, la Romagna e l’Emilia, liberando Bologna e spingendosi fino agli altipiani di Asiago. Una brigata – è importante ricordarlo dopo i troppi libri di Pansa e dei suoi imitatori sul «sangue dei vinti» – che arrivò ad una forza di 1.500 uomini e che pure non si macchiò mai di un solo episodio di violenza verso i fascisti, al punto che gli alleati (prima gli inglesi e poi i polacchi) affidavano proprio a loro la tutela dell’ordine pubblico nei paesi e nelle città via via liberati.

Promotore della sua nascita fu mio padre, Ettore Troilo. Volontario a 18 anni nella Grande Guerra, socialista riformista, allievo di Turati a Milano e poi segretario di Matteotti a Roma, attivo avvocato antifascista durante il ventennio, Troilo raggiunse il natio Abruzzo dopo aver partecipato alla difesa di Roma a Porta San Paolo, fu catturato dalle SS, riuscì a fuggire, radunò una quindicina di uomini, quasi tutti contadini, ed arrivò a Casoli, dove chiese al comando alleato le armi necessarie ai suoi uomini per combattere contro i nazisti. Dopo molti e umilianti rifiuti (gli inglesi vedevano dovunque «communists») Troilo incontrò l’ufficiale che per primo ebbe fiducia nei montanari abruzzesi, il maggiore Lionel Wigram, una figura di straordinario interesse: grande avvocato, baronetto, autore di trattati militari usati per decenni dall’esercito inglese, amante dell’Italia e della sua cultura, Wigram si fidò subito di questo appassionato avvocato abruzzese, come lui non più giovanissimo (entrambi avevano 45 anni e «figli a carico).

Purtroppo dopo solo due mesi, il 4 febbraio del ’44, Wigram cadde assieme a 11 patrioti della «Maiella» e a 4 dei suoi uomini nel tentativo di liberare Pizzoferrato ed aprire agli alleati la strada verso gli altipiani di Roccaraso e verso Roma: una impresa arditissima, per la forza della guarnigione tedesca e la posizione del paese, a 1.250 metri di altezza e con due metri di neve. In questa importante ricorrenza, più che ricordare le vicende della «Maiella» (rimando per questo al libro di mio fratello Nicola Storia della Brigata Maledio, editore Mursia, 2011), vorrei affrontare tre temi «di contesto» che penso meritino una riflessione. Il primo riguarda l’importanza, militare e strategica, della guerra in Abruzzo. La maggioranza degli italiani ritiene che la guerra sia semplicemente «passata» nella nostra regione. E invece l’Abruzzo fu uno dei principali terreni della guerra in Italia: alla fine del ’43, in un’area per secoli tagliata fuori dalle grandi vicende della storia, vi si incrociarono i destini di Mussolini, prigioniero al Gran Sasso, del re e del suo governo, in vergognosa fuga dal porto di Ortona, e dei due capi supremi degli opposti eserciti, il maresciallo Montgomery ed il feldmaresciallo Kesselring.

Le truppe alleate furono impegnate per otto mesi nel tentativo di sfondare la linea Gustav, incontrando una resistenza dei tedeschi fortissima, agevolata da un inverno molto rigido e dalla conformazione della regione, con montagne impervie e fiumi in piena che rendevano difficile il passaggio dei mezzi corazzati e pesanti.
Si parla sempre, e giustamente, della battaglia di Montecassino, ma quasi mai di quella di Ortona, caposaldo della Linea Gustav sull’Adriatico, che durò settimane, provocò la morte di un numero impressionate di civili (1.314, quasi l’intera popolazione) ed una vera ecatombe fra i soldati delle due parti. Ne sono struggente testimonianza il cimitero militare inglese di Torino di Sangro e quello di Ortona, dove riposano – assieme al maggiore Wigram duemila soldati canadesi, che ebbero il ruolo principale nella conquista della città. Non a caso Mongomery intitolò le sue memorie Da El Alamein al Sangro.

Il secondo tema riguarda la sorte terribile dei paesi dell’alto chetino, rasi al suolo all’80-90 per cento dai tedeschi per fare «terra bruciata» dinanzi agli Alleati: anche da qui, l’emigrazione di mas-sa che nel dopoguerra caratterizzò l’Abruzzo più di ogni altra regione del centro-sud. E riguarda, soprattutto, le stragi di civili, che in Abruzzo furono tra le più atroci: migliaia di abitanti, per lo più vecchi, donne e bambini, massacrati a Pietransieri, a Sant’Agata di Gessopalena, a Onna, a Filetto, in tante altre sconosciute località, affratellati nella morte ai giovani martiri delle insurrezioni di Lanciano e de L’Aquila. E furono stragi – in particolare quella di Pietransieri, per la prima volta non motivata nemmeno con una ragione di rappresaglia – volute personalmente da Kesselring, che le riteneva il metodo più efficace, e meno «costoso» per le truppe tedesche, per scoraggiare da un lato la nascita di formazioni partigiane, dall’altro il sostegno della popolazione civile agli stessi partigiani ed ai militari alleati.

Ed è questo il terzo tema di riflessione, quello di cui maggiormente avverto l’urgenza morale. Forse nessuna popolazione, in Italia, si prodigò come quella abruzzese nell’aiutare non solo i partigiani locali ma i tanti sconosciuti soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre e le migliaia di militari alleati fuggiti dagli affollatissimi campi di prigionia tedeschi. Italiani, inglesi, americani, canadesi, australiani, neozelandesi, sud africani, indiani furono nascosti nelle case e nelle masserie – soprattutto dalle nostre donne, eroiche e silenziose – furono nutriti («si divisero il pane che non c’era», furono aiutati da organizzazioni spontanee a superare d’inverno i valichi nevosi della Maiella per passare le linee e raggiungere l’esercito italiano al Sud o quello alleato al di là del fiume Sangro. In queste organizzazioni di volontari vi erano insegnanti, impiegati e operai, ma soprattutto contadini e pastori, spesso analfabeti: uomini e donne indifferenti alle consistenti taglie in danaro offerte dai tedeschi e pronti invece a sfidare i rastrellamenti e le rappresaglie, e spesso a pagare con la vita dinanzi ai plotoni di esecuzione nazisti. Le stragi furono anche una rabbiosa reazione all’opera di queste organizzazioni, ma non riuscirono a soffocare l’umanità profonda e l’indomito coraggio dei nostri conterranei. C’è una Medaglia d’Oro per la Resistenza che dovrebbe ancora essere assegnata, ed è quella al popolo abruzzese, protagonista silenzioso e modesto di una vera epopea. In nome dei caduti e dei reduci della Brigata Maiella.