IL MEDIANO GRANATA MORTO A MAUTHAUSEN

di Fabrizio Accatino

Vittorio Staccione, torinese di Madonna di Campagna, vinse lo scudetto revocato del 1926-27. A fine carriera, operaio socialista, organizzò lo sciopero del ’44. Deportato dalle SS, morì l’anno dopo.

A osservarlo con lo sguardo nichilista di oggi, pare incredibile che possa essere mai esistito un calcio partigiano. Eppure durante la Seconda Guerra Mondiale diversi giocatori del campionato italiano hanno trovato la morte nei campi di concentramento o arruolandosi nella Resistenza. Due di loro hanno vestito la maglia del Torino: Bruno Neri, ucciso sugli Appennini dal fuoco dei tedeschi e Vittorio Staccione, che perse la vita a Mauthausen. La straordinaria e tragica vicenda umana di quest’ultimo è stata ricostruita con amore e fatica dal nipote Federico Molinario, che negli anni ha consultato documenti, archivi, quotidiani d’epoca. «Mio zio era una persona buona, riservata, che dava poca confidenza» racconta oggi Molinario.

«Fin da ragazzino aveva iniziato a frequentare i circoli socialisti torinesi e per quello è sempre stato inviso al fascismo. Spesso veniva aggredito dagli squadristi e se tentava di difendersi veniva arrestato con l’accusa di resistenza. Ma non era un esagitato o un violento, anzi, aveva modi talmente gentili da apparire dimesso». Vittorio era nato il 9 aprile 1904 da una famiglia torinesissima, in viale Madonna di Campagna 4, in una piccola casa che oggi non esiste più. Tifoso del Toro fin da bambino, come tutti i ragazzini inizia a giocare per strada, prendendo a calci un pallone di stracci insieme al fratello Eugenio. A 11 viene notato dallo svizzero Bachmann, capitano del Toro, che lo chiama nelle giovanili granata. Debutta in prima squadra il 3 febbraio 1924 contro il Verona.

Per lui 3 presenze in tutto, poi parte per il servizio militare, venendo prestato alla Cremonese. Torna al Toro nella stagione 1925-26, collezionando sei presenze in campionato. Un infortunio gli impedisce di essere presente alla partita inaugurale del nuovo stadio Filadelfia ma si rifarà l’anno successivo, vincendo il primo scudetto granata (poi revocato) insieme a Baloncieri, Janni, Libonatti. Nell’estate del ’27 si trasferisce alla Fiorentina. A Firenze conosce Giulia, che sposa dopo pochi mesi ma che morirà di parto, insieme alla bambina che porta in grembo.

«Da quel momento mio zio è cambiato» racconta Molinario. «Mia madre mi ha sempre detto che da allora si è chiuso in se stesso, diventando ancora più solitario e taciturno. Da quella tragedia non si è mai rimesso davvero». Chiude la carriera a Cosenza e al Savoia. Tornato a vivere a Torino, continua a frequentare i circoli della sinistra. Spesso viene arrestato, schedato, fotosegnalato dall’Ovra. A condannarlo è la sua partecipazione all’organizzazione dello sciopero del 1° marzo 1944. Il 12 marzo viene arrestato dalla polizia di Madonna di Campagna, che lo cede alle SS. «La polizia gli comunicò che sarebbe stato deportato in un campo di concentramento tedesco e lo mandò a casa da solo a prepararsi per il viaggio. Chiunque al suo posto sarebbe fuggito, ma non lui. Il giorno stesso si presentò alle Nuove con la valigia, consegnandosi ai nazisti. Questo dice tanto della natura di mio zio, e anche della sua piemontesità».

Il 16 marzo Vittorio Staccione parte da Porta Nuova sul treno di deportazione numero 34. Sul 32 c’è il fratello maggiore Francesco, arrestato insieme a lui. Arriva a Mauthausen il 20 marzo. Viene classificato come Schutzhäftling, prigioniero politico. Lo aspettano un triangolo rosso e il numero di matricola 59160. Viene assegnato alla cosiddetta «scala della morte», una cava attraversata da 186 gradini, lungo i quali i detenuti devono trasportare grossi blocchi di granito. Nel campo incontra Ferdinando Valletti, mediano del Milan che aveva affrontato da avversario ai tempi del Toro. Per le loro capacità sportive i due vengono notati dalle SS, che li reclutano nella squadra del campo.

Dopo un anno di prigionia, Vittorio viene trasferito a Gusen. Lì un pestaggio delle guardie gli procura una profonda ferita alla gamba. Privato delle cure necessarie, muore di setticemia e cancrena all’alba del 13 febbraio 1945.

Suo fratello Francesco lo seguirà nove giorni dopo, il 25 marzo. Chi ama il calcio e i valori dello sport non può dimenticare la figura di Vittorio Staccione. Dal 2015, allo stadio Zini di Cremona, lo ricorda una targa. A scolpire l’immagine in bronzo (un pallone dietro a un filo spinato), l’artista Mario Coppetti, classe 1913: a undici anni aveva visto giocare Staccione nella Cremonese, a 102 ha voluto rendere omaggio a uno degli eroi della sua gioventù.

Sul marmo bianco, un epitaffio riassume così l’uomo e il calciatore: «Simbolo dello sport come impegno sociale, civile e politico, lottò sui campi della vita per la libertà e la fratellanza degli uomini».

Fonte: La Stampa – Torino