I LAVORATORI DEL PORTO DI GENOVA: LA DIMENSIONE POLITICA E SOCIALE

[avatar user=”Pierfranco Pellizzetti” size=”thumbnail” align=”left” link=”https://www.ilfattoquotidiano.it/blog/ppellizzetti/” target=”_blank” /] di Pierfranco Pellizzetti

“I lavoratori del porto di Genova hanno da epoca antichissima avuto – scrive Luigi Einaudi nel 1901 – la tendenza a raggrupparsi in corporazioni, per la tutela dei loro interessi e per la determinazione dei salari e delle altre condizioni di lavoro. Dove gli imprenditori sono pochi e gli operai si contano a migliaia, e tutti sono suppergiù, egualmente forti ed atti a compiere il rude lavoro di facchinaggio che è loro imposto, è naturale che gli operai si riuniscano in società per non portarsi via il pane l’un l’altro, per regolare, una volta per sempre, l’ammontare del salario e la durata del lavoro. Ancora. Siccome il lavoro del porto non è continuo, ma muta di giorno in giorno per intensità e ampiezza, così è necessario che sul porto esista un’armata di lavoratori capace di far fronte ai lavori di luna massime nello scarico e nel carico: e siccome nei giorni di lavoro medio od inferiore alla media non tutti possono essere occupati, così è d’uopo che gli operai si accordino per alternarsi al lavoro in modo che nessuno corra il rischio di morire di fame, quando il lavoro è scarso”.

Nell’equilibrio perennemente instabile tra “l’unità necessaria e l’individualismo tenace”, caratteristico dello spirito genovese, le categorie portuali si organizzano precocemente in corporazioni. Vi sono elementi che inducono a pensare che fossero presenti e attive già dal 1100, anche se i primi statuti di cui abbiamo traccia risalgono al 1400. Questo associazionismo di autogoverno e difesa attraversa i secoli in costante dialettica antagonistica con gli interessi delle controparti imprenditoriali; capitalisti che perseguono l’imposizione di relazioni individualizzate per meglio far valere a proprio favore lo squilibrio dei singoli rapporti di forza. Nel contrasto permanentemente latente tra punti di vista contrapposti, l’associazionismo assume i tratti della propria ambiguità: punto di resistenza contro la sopraffazione e – al tempo – presidio di vantaggi posizionali tendenti al corporativo. Fermo restando che lo stato materiale delle classi lavoratrici portuali resta oggettivamente a livelli di estrema penuria e di drammatica precarietà. Il nodo viene tranciato di netto dopo l’annessione della Liguria al Regno di Sardegna. Tra il 1839 e il 1844 le antiche corporazioni vengono sciolte consegnando agli imprenditori l’assoluto governo dei traffici nello scalo genovese. Questo scioglimento consentiva a chiunque di accedere al lavoro. Ciò rese possibile ai datori di lavoro di richiamare in porto masse di contadini poveri dell’entroterra. Azione volta a rompere, con assunzioni arbitrarie, ogni eventuale fronte unitario di resistenza alla determinazione padronale delle tariffe d’ingaggio dei facchini (che raggiunsero limiti di pura sussistenza).

Un sistema definito come “libertà di lavoro”. Espressione accattivante che vorrebbe rappresentare il superamento delle vecchie strozzature nel mercato del lavoro proprie dell’antico regime corporativo. Anche in questo caso – però – formulazione carica di ambiguità e derivazioni ideologiche. Così come ambigua (e intrisa di “retro-significati”) è la deriva verso la libertà che marca l’intera modernità. Progetto di civilizzazione che troppo spesso trascura di precisare a vantaggio di chi e per che cosa.

Storia vecchissima e ricorrente se consideriamo come – a detta degli storici – uno dei suoi primi e più sventolati stendardi (quella del “libero mercato”, innalzato in Occidente a partire dal XVII secolo) altro non sia che la vendita, sotto forma di valori universali, dei concretissimi interessi di circoli finanziario-affaristici (prevalentemente inglesi) a quote del lucroso business dell’epoca: la tratta oceanica degli schiavi. In quel tempo regolamentata oligopolisticamente dal sistema delle patenti regie.

Ciò per dire che l’argomento-“flessibilità” e il suo contrario altro non sono che strumenti di scontri sociali finalizzati al predominio, il cui bottino realmente in gioco è la possibilità dello sfruttamento o il suo contrario. In altri tempi, l’economista Paolo Leon sosteneva che “la storia del movimento operaio si racchiude nel contrastare la flessibilizzazione del fattore lavoro” per promuovere l’emancipazione. In quest’ottica, il vero campo che difende la libertà e la promuove andrebbe individuato ribaltando le apparenze (e le grandi narrazioni di comodo).

Tornando al “campo di battaglia” portuale a Genova, gli effetti del “regime di libertà del lavoro” sulla popolazione lavoratrice si rivelarono devastanti. Si parla letteralmente di “fame”. Un solo dato: nel 1881 le mercedi erano scese a un quarto di quelle del 1874. La situazione, sempre peggiore e caratterizzata da endemiche agitazioni, smascherava definitivamente l’inconsistenza della propaganda che per prima aveva perseguito la formazione politica delle classi subalterne: l’interclassismo a-conflittuale mazziniano.

In quegli anni fioriscono le prime pubblicazioni destinate a formare coscienze proletarie capaci di ragionare nei termini della lotta di classe. Su una di queste, “l’89”, fa i primi esercizi teorici un giovane operaio piemontese trasferitosi a Sampierdarena e che avrà una parte importante nell’organizzazione del movimento dei lavoratori: Pietro Chiesa.

Nel porto la popolazione è in rapida crescita. Circa 7mila persone sono ora avviate quotidianamente al lavoro sulle banchine. All’interno di questa massa, il peso più rilevante è quello dei portuali del carbone. Il traffico del carbone, a fine ‘800, rappresenta oltre la metà di quello complessivo delle merci. Le importazioni di questo minerale passano dalle 838.000 tonnellate del 1885 al 1.309.000 del 1890, ai 2.030.692 del 1900.

Nel 1900 i carbonai sono 3.500, suddivisi in quattro categorie: facchini, caricatori o coffinanti, scaricatori, pesatori-ricevitori. Il carbone giunge a Genova dall’Inghilterra e dalla Germania e viene movimentato manualmente. L’affollarsi delle navi, che determina endemico intasamento, impone lo scarico attraverso le chiatte su cui il materiale trasborda stipato in ceste con manici (coffe); contenitori fragilissimi ma pesanti fino a 150 chili, che i facchini portano a spalla lungo gli scalandroni, tavole sospese larghe trenta centimetri.

Ogni giorno si caricano 350/400 vagoni ferroviari e la giornata, nella buona stagione, arriva alle 14 ore. I salari, frutto di contrattazioni individuali, oscillano tra le 5 e le 2 lire; una paga proporzionalmente più alta di quella dell’operaio di fabbrica ma percepita in modo irregolare e vincolata all’accettazione del sistema del “vino e coltello” imposto dai confidenti.

Gli imprenditori del settore sono detti “negozianti” (importatori e grossisti del carbone) e il loro costante obiettivo strategico è quello di mantenere la possibilità di assumere manodopera piegata alle loro condizioni.

Loro braccio armato è la categoria dei confidenti (ex facchini associati nella “Società dei forti”) che svolgono funzioni di “caporalato” e di guardiani del sistema vigente attraverso intimidazioni e violenze. Un sistema del terrore che costringerà la stessa magistratura a intervenire. Nel 1876 sarà avviato un processo penale che terminerà comminando pene detentive a ben 15 imputati, rei di gravi reati nei confronti dei lavoratori.

Uno degli aspetti – al tempo – più tipici e inquietanti, funzionale alla sopraffazione, era rappresentato dai modi del reclutamento e dalle sedi di pagamento dei salari. Ciò avveniva nelle osterie adiacenti il porto (solitamente controllate dagli stessi confidenti) e lì parte della mercede doveva essere “lasciata”. La taverna della seconda metà dell’ottocento, spiega Eric Hobsbawm, è luogo deputato alla “polarizzazione sociale” dei lavoratori, in cui formare coscienza comune e comuni stili di vita. “La chiesa dell’operaio” le definì un liberale borghese. Ma in questi luoghi, fioriti attorno allo scalo genovese, vi è spazio solo per violenza, corruzione e alcolismo.

Contro questo stato di fatto, i lavoratori del porto reagiscono lottando in due direzioni; contro l’Autorità pubblica come componenti di un più vasto movimento “di classe”, contro gli imprenditori come avanguardia che controlla capacità professionali pregiate. L’obiettivo è la conquista di un sistema di diritti a tutela delle condizioni di vita e lavoro, la leva è quella organizzativa.

Per la classe degli sfruttati si traduce nella istituzione della Camera del Lavoro, per la categoria portuale nelle varie forme dell’associazionismo di mestiere. L’idea della Camera del Lavoro deriva dai primi contatti con le esperienze francesi. Se ne fecero latori i delegati del Partito Operaio che si recarono a Marsiglia, nel 1888, per l’inaugurazione della locale Bourse du Travail. Il modello della Bourse o Chambre, nel passaggio in Italia aggiunge alle originali funzioni di promozione dell’occupazione e di intermediazione tra la domanda e l’offerta, funzioni di resistenza e di lotta.

Fra il 5 e il 6 gennaio 1896, l’assemblea generale presieduta da Pietro Chiesa, dichiarò costituita La Camera genovese.

Le autorità intuirono subito la pericolosità di un’organizzazione autonoma che, ormai lontana dalla tradizione interclassista, andava a determinare una saldatura tra questione sociale e questione portuale. In data 8 dicembre dello stesso anno un decreto prefettizio ne ordinò lo scioglimento. Il pretesto fu fornito dall’opera di dissuasione che la Camera aveva svolto presso i facchini dal recarsi in Amburgo per sostituire i lavoratori locali in sciopero. La ragione vera va vista nei timori che ingenerava il consolidarsi di un’istituzione con precisi connotati di classe. Il processo, intentato contro 25 dirigenti (tra cui Giuseppe Canepa, Pietro Chiesa e Luigi Murialdi) il 4 maggio 1897, venne subito rinviato e successivamente lasciato cadere. Indagini di polizia portarono alla luce come la lotta anti-Camera del Lavoro fosse stata condotta principalmente da confidenti, legati agli ambienti padronali, preoccupati dalle conseguenze dell’opera avviata da questa istituzione operaia contro gli arbitrii in materia occupazionale.

La sera del 20 luglio 1900 la Camera venne ricostituita eleggendone a segretari Buratti e Leoni. Ancora una volta le autorità si muovono rapidamente e il 18 dicembre il Prefetto firma un nuovo decreto di scioglimento. L’immediata reazione dei lavoratori si traduce nella proclamazione di uno sciopero contro l’illegalità subita. Azione di una forza e intensità tali da costringere il governo Saracco a ritirare il provvedimento.

Lo sciopero di Genova scosse a tal punto le stesse posizioni governative da determinare la caduta, nel febbraio dell’anno successivo, del gabinetto Saracco. L’avvio del nuovo corso Zanardelli-Giolitti che apre una fase nuova nella storia del movimento operaio italiano e nello sviluppo democratico del paese.

La seconda via battuta dai lavoratori del carbone per la promozione delle proprie ragioni fu quella dell’associazionismo professionale.

Nella seconda metà dell’800 una fitta rete di società mutualistiche aveva costituito lo strumento per la difesa delle culture e delle tradizioni di mestiere. Le associazioni di mutuo soccorso delle categorie portuali svolgevano azioni previdenziali e solidaristiche ma cercavano anche di governare le attività di scarico e carico delle merci per limitare forme di concorrenza fratricida tra lavoratori. Nel 1892 viene fondata la prima “Lega di miglioramento fra i lavoratori del carbone” al fine di ottenere nuove tariffe, l’abolizione del potere discrezionale dei confidenti e l’introduzione del turno di lavoro.

“Tra il 1901 e il 1907 – scrive Luca Borzani – la storia dei lavoratori del porto è sintetizzabile in tre fasi strettamente connesse con la modifica delle funzioni delle organizzazioni della resistenza: la fase delle leghe, la fase delle compagnie, la fase delle cooperative di produzione e lavoro. Sono fasi prive di soluzioni di continuità e di cesure nette”. Ma l’azione per il raggiungimento di stabilità professionale e di garanzie salariali passa attraverso un nuovo momento di drammatica lotta: lo “sciopero nero”, tra il giugno e il luglio 1901. Questa volta è scontro diretto tra le parti sociali, lavoratori e imprenditori, senza lo schermo di interposizione rappresentato dall’autorità pubblica. In ballo non vi sono soltanto le regole e i diritti ma la sostanza dura e nuda del potere e dell’egemonia. Proprio per questo è lotta senza mediazioni e senza esclusione di colpi. Durerà 43 giorni, durante i quali si consumerà il tradimento della Lega cattolica. Questa organizzazione, sino ad allora trascurabile, coglie l’opportunità per acquisire ruolo e peso fungendo da strumento dei gruppi padronali per rompere il fronte unitario dei lavoratori e collaborando con gli agenti dei negozianti nel reclutamento di krumiri nelle campagne.

La vicenda non termina con una vittoria dei lavoratori. I padroni sono pronti ad abbandonare al loro destino i propri “cani da guardia” (i confidenti) e la massa di manovra contadina utilizzata per il krumiraggio, non certo a rinunciare al privilegio della mano libera nella gestione del fattore lavoro. Il 22 luglio sarà stipulato un armistizio. Tuttavia alcuni vantaggi ne derivano ai lavoratori: viene sancito il declino dell’inquietante figure dei confidenti (d’ora in avanti “i pagamenti delle mercedi si faranno sulle calate e mai nelle osterie, sarà fatto divieto ai capisquadra di usare preferenze per coloro che frequentano le loro osterie”); il riconoscimento delle organizzazioni dei lavoratori che subito dopo, stipulando il contratto detto “dei 12 mesi” (31/3/1902-30/6/1903), ottengono una corresponsabilizzazione nel governo delle operazioni portuali (a fronte dell’impegno preso dai negozianti di assumere sulla base di norme e tariffe fisse i lavoratori giornalmente necessari e scegliendoli tra gli iscritti alle leghe).

A seguito dello scontro e dei suoi esiti, cresce tra i carbuné la convinzione dell’opportunità di affiancare all’azione conflittuale e rivendicativa diretta l’impegno di lungo periodo per il rafforzamento complessivo del corpo sociale dei lavoratori portuali. Si comprende che lo scontro frontale è oltremodo pericoloso senza una contestuale crescita civile e sociale. Da qui una vasta strategia, guidata da un ristretto e coeso gruppo dirigente (legato all’ala riformista del Partito Socialista) di cui Pietro Chiesa è il portavoce politico, Luigi Murialdi l’abile mente organizzativa. Nel 1902 si costituiscono la “Cooperativa caricatori di carbone” e la “Cooperativa facchini del carbone”; nel 1903 viene fondata la cooperativa “L’Emancipazione” per la gestione di una rete di servizi (mensa, infermeria, bagni).

Sempre il 7 giugno di quello stesso anno, grazie ai fondi messi a disposizione dalle cooperative dei carbonai, inizia le pubblicazioni il quotidiano Il Lavoro. Nel luglio di quel 1903 entra in funzione il Consorzio Autonomo del Porto per il governo delle attività portuali. Termina – così – la fase pluridecennale della “libertà di lavoro” nel porto di Genova, contro cui i carbuné tanto avevano lottato. Nel dicembre 1906 le varie cooperative dei carbonai si unificano nella “Società Cooperativa Sbarco Imbarco Carboni minerali”. Un soggetto composto da 2540 soci, suddiviso in quattro gruppi (facchini, scaricatori, caricatori, pesatori e ricevitori) e in cui la prevalenza è quella dei facchini; vuoi per il maggiore peso finanziario assunto, vuoi per la maggiore coesione politica.

Dopo i primi 18 mesi di esercizio, il 18 marzo 1908, gli utili della cooperativa superano gli 8 milioni. Ma ben presto questo soggetto entra in fibrillazione. La società dei carbonai è terreno di scontro delle gravissime tensioni che investono il gruppo dirigente politico socialista, locale come nazionale, non meno che dei profondi conflitti di interesse interni alla compagine lavorativa.

La mai risolta contraddizione tra integrazione e antagonismo, tra “la necessaria unità e il tenace individualismo”.

Da un lato la divaricazione crescente del socialismo italiano tra riformisti e rivoluzionari, tra “movimento” e “obiettivo finale”, tra aristocrazie operaie e istanze collettive; ma – d’altra parte – giocano anche contrasti intestini tra soci per concretissime divergenze di interessi. Ad esempio, a seguito dell’introduzione dei primi elevatori elettrici, sulla ripartizione tra le varie funzioni dei vantaggi derivati dall’utilizzo delle macchine.

Azioni penali per diffamazione si intrecciano all’istanza di fallimento della cooperativa. Il 24 maggio 1909, preso atto della situazione, il Consorzio Autonomo del Porto introduce un nuovo ordinamento del ramo carboni ricostituendo, sotto la propria amministrazione diretta, tre distinte compagnie dei facchini, degli scaricatori e dei caricatori.

Anello debole e agnello sacrificale sarà Luigi Murialdi, espulso dal partito e accusato ingiustamente di malversazioni nella gestione amministrativa della compagnia. La figura simbolica di una traiettoria di partecipazione dei lavoratori, sempre in bilico tra promozione della propria autonomia di mestiere e avvitamento nella difesa dei particolarismi e delle posizioni acquisite.

Ma qui la dimensione sociale si intreccia strettamente con la dimensione politica rischiando, nel contatto troppo ravvicinato, un drammatico cortocircuito. – Le esperienze e gli episodi ammirevoli restano, persiste il ricordo di una tradizione gloriosa, va ad esaurirsi un ruolo propulsivo.

Poi giungerà la Grande Guerra, la lunga gelata durante il fascismo, il secondo conflitto mondiale. Sempre con i loro strascichi di lutti, di devastazioni materiali e civili.

Al termine di queste catastrofi e con il ritorno all’ordine postbellico, nel porto di Genova rinascono le compagnie dei lavoratori.

Quella dei carbonai si riformerà il 22 giugno 1946 riassumendo il nome di “Compagnia Pietro Chiesa”.

Tratto daRagnatela di MareCompagnia Portuale Pietro Chiesa – Genova