DISCORSO TENUTO DA RICCARDO LOMBARDI AL SALONE MATTEOTTI DI TORINO IL 1° MAGGIO 1967

Compagni, ho scelto io stesso il tema di questa nostra conversazione, i problemi della programmazione e le implicazioni politiche che essa comporta, perché io sono d’accordo con tutto il partito in questo terreno, cioè che al centro dell’azione socialista è il problema della programmazione.

Io credo che sia stata una giusta scelta quella di avere accentuato fortemente l’importanza che l’introduzione di una politica di piano ha nel nostro paese. E tuttavia credo che sarebbe un grave errore, un autocompiacimento, la convinzione che basti un provvedimento legislativo, o basti una serie di iniziative di carattere parlamentare, perché questo problema sia bene impostato, sia l’inizio di sviluppi coerenti e non contraddittori; cioè temo che vi sia un pericolo di mistificazione (riconosciamolo francamente) nella stessa sottolineatura che si dà al problema. Questo rischio di mistificazione nasce essenzialmente da una sottovalutazione degli elementi qualitativi rispetto agli elementi quantitativi, essendo gli elementi qualitativi di una programmazione quelli che ne definiscono il carattere, la portata e anche l’avvenire.

Da questo punto di vista si è fatta strada, con una certa faciloneria, l’idea che la programmazione sia in sé e per sé un’acquisizione socialista, e ciò non è vero: ciò corrispondeva a una certa fase della politica economica del nostro paese e fuori, allorché economisti liberali, anche se progressisti, pensavano che il socialismo fosse tutto nel piano e basta; che era poi una trasposizione in termini ammodernati della vecchia interpretazione positiva del marxismo come fatto puramente economico. Ma la situazione che si è evoluta negli ultimi decenni, in Europa e nel mondo, quella che noi qualifichiamo come fase di neo-capitalismo per contrapporla in certa maniera al vecchio capitalismo, ha fatto sì che il problema della programmazione non sia più una specifica rivendicazione socialista. La rivendicazione socialista nasce, ma nasce a valle di una scelta anteriore sulla necessità di una programmazione.

Una volta il capitalismo era giustamente qualificato e contraddetto e criticato per il suo carattere anarchico, per la sua incapacità di dominare coscientemente l’organizzazione economica della società, e non soltanto la ripartizione del reddito, ma anche la formazione del reddito e quindi per la incapacità conseguente di dominare i cicli: gli si contestava perciò di portare necessariamente a delle crisi di sovrapproduzione e di sottoproduzione provocando nella società uno stato di permanente instabilità.

La programmazione, come intervento cosciente del potere pubblico nella formazione e nella distribuzione del reddito, era qualche cosa di assolutamente inassimilabile per il vecchio capitalismo, il quale appunto si basava sulla potestà del mercato che poi veniva interpretata come una democrazia del mercato. Ricorderete il motto di Einaudi alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando identificava una forma di democrazia economica con la libertà del consumatore: era il consumatore che col suo acquisto giorno per giorno deponeva un bollettino di voto democratico. La situazione oggi è diversa.

Oggi il capitalismo è diventato il neo-capitalismo, è diventato pianificatore. È diventato pianificatore perché il capitalismo non è più quello di prima: non dico che sia migliore, dico che è diverso, e ci sono alcuni fatti principali che motivano e giustificano questa profonda evoluzione, che ci costringe, come socialisti, a guardare l’avversario che abbiamo di fronte, non quello vecchio, ma quello vero, quello reale, quello di oggi, e a non sbagliarci sul tiro perché altrimenti spareremmo a vuoto. Oggi il capitalismo ha bisogno di una pianificazione per molte ragioni, e prima di tutto perché il capitalismo nuovo è un capitalismo che punta sulla produzione di massa, è un capitalismo il quale ha bisogno di una espansione continua dei mercati; oggi non è più concepibile un capitalismo che segua la linea di sviluppo del vecchio capitalismo, quello che fu criticato da Marx, vale a dire che abbia una tendenza prioritaria alla accumulazione e quindi alla depressione permanente della capacità di consumo delle masse popolari.

Quale era il succo della critica marxista del secolo scorso, ancor oggi valida, ma entro certi limiti, diversi dai limiti di allora? Il capitalismo nella sua corsa alla capitalizzazione del reddito e al suo reinvestimento tendeva, per sua forza naturale, a depauperare permanentemente la capacità di acquisto della maggioranza della popolazione, e, puntando alla acquisizione del massimo reddito, puntava, come conseguenza, alla diminuzione massima possibile dei salari, ridotti al livello di sussistenza. Questa diminuzione permanente dei salari che cosa implicava? Da un lato, attraverso gli investimenti maggiori e progredienti, una capacità produttiva sempre maggiore, dall’altro capacità di consumo e di acquisto da parte delle masse popolari sempre minori, di qui la crisi e la necessaria catastrofe del capitalismo, stretto, a un certo punto, nella morsa dell’eccesso di produzione e della depauperazione del consumo.

La situazione di oggi è diversa. Sotto l’impulso di due elementi fondamentali che hanno caratterizzato la società moderna nel secolo scorso, e soprattutto nel secolo in cui viviamo, vale a dire la democrazia politica e la forma sindacale, il vecchio capitalismo, che tendeva esclusivamente all’accumulazione, si è modificato: è stato costretto dalla pressione dei sindacati, che hanno contestata la riduzione dei salari, e dalla democrazia politica, che ha immesso nel corpo sociale la pratica ormai generalizzata delle spese sociali, a lasciare la presa su una quota sempre più rilevante di reddito destinata all’investimento e a trasferirla ai consumi.

Da questo punto di vista quindi la corsa quasi fatale verso una sempre maggiore accumulazione di capitale, corrispondente a una sempre diminuita capacità di consumo da parte della popolazione, ha subito una radicale modificazione. E aggiungo che, anche la scappatoia rappresentata (secondo la critica postmarxista, per esempio di Rosa Luxembourg) dal colonialismo, vale a dire il fatto che la diminuzione della capacità di acquisto dei prodotti da parte della popolazione metropolitana fosse compensata da un acquisto della popolazione coloniale in una ricerca di mercati che supplissero alla deficienza di domanda dei mercati nazionali, anche questo fenomeno a poco a poco, con l’insorgere del movimento di liberazione dei popoli oppressi, con la nascita di economie che tendono a una propria organizzazione autonoma, con la frantumazione del mercato generale capitalistico ha fatto sì che il panorama generale del capitalismo sia mutato.

Questo è il primo elemento fondamentale.

Il secondo elemento fondamentale è questo: che il capitalismo di oggi ha bisogno di un mercato sempre più intenso.

La vecchia impresa capitalista aveva una quota di capitale fisso relativamente modesta rispetto al capitale impiegato nel pagamento dei salari; oggi invece il capitalismo, appunto per l’enorme progresso tecnico che si è registrato in questi anni, tende sempre di più a investimenti intensivi, alle iniziative cosiddette risparmiatrici di lavoro e perciò consumatrici di capitale, il costo fisso di questi investimenti implica la necessità di una loro produttività sempre crescente e quindi di un mercato capace di assorbire la sempre progrediente disponibilità di prodotti dell’industria. Questo fa sì che oggi, paradossalmente, i capitalisti siano interessati non più all’impoverimento del mercato, anzi alla capacità sempre maggiore del mercato stesso di acquistare i loro prodotti.

Questo non significa che un’impresa desideri pagare di più i propri operai: ciascuna impresa desidera pagarli il meno che sia possibile compatibilmente col quadro politico in cui si trova, ma desidera in qualche modo che gli altri paghino di più i loro operai perché acquistino i suoi prodotti. C’è dunque una tendenza generale ed è una delle contraddizioni macroscopiche del capitalismo di oggi, a vedere nella sempre maggiore estensione del mercato di consumo una condizione essenziale per la vitalità stessa della macchina produttiva.

Terzo, e ultimo elemento da considerare, è il fatto che il capitalismo comincia a essere colpito dalla alternanza dei cicli. Una volta, allorché gli investimenti di capitale fisso, e quindi le spese costanti nelle industrie, erano una parte importante, ma non dominante dell’attività produttiva, il capitalismo poteva affrontare le fasi cicliche in periodo di depressione a un costo relativamente moderato; oggi no, perché anche durante i periodi di crisi, e durante i periodi di bassa congiuntura, il costo degli investimenti fissi, che sono rilevantissimi, continua a incidere, resta un capitale immobilizzato il cui costo è enorme, cosicché il capitalista subisce molto più che nel passato l’alternanza dei cicli e il depauperamento delle sue capacità produttive, originato dalle fasi calanti del ciclo economico.

Il concorso di tutte queste circostanze fa sì che il capitalismo oggi abbia bisogno di pianificare la sua produzione, e non è per capriccio che i capitalisti più evoluti, ad esempio quelli americani, e anche quelli italiani nei settori più avanzati, non fanno più i conti e le previsioni a breve scadenza, cioè non regolano la loro iniziativa sulla base di un criterio di redditività massima a breve periodo, nell’anno per esempio, ma fanno un conto molto più lungo: sono disposti a perdere per un anno o a perdere per due anni, pur di garantirsi una regolarità di guadagni negli anni successivi.

Oggi non c’è una grande industria la quale non pensi a quello che avverrà fra quattro o cinque anni, che non regoli i propri investimenti, le modificazioni del proprio apparato produttivo, in base a delle previsioni razionali di mercato, mercato sulla cui domanda influisce il tipo stesso di produzione, e ciò per far fronte quanto più sia possibile all’alternanza dei cicli.

Tutto questo complesso di elementi nuovi ha portato al fatto che il capitalismo moderno ha bisogno della pianificazione, ha bisogno di una pianificazione propria, nell’ambito puramente aziendale e intersettoriale, e ha bisogno anche di una programmazione da parte dello stato; non è per capriccio e non è per demagogia, come spesso qualche compagno crede, che si è coniata l’espressione “capitalismo monopolistico di stato” oggi corrisponde a una precisa realtà; oggi i capitalisti, che una volta rifuggivano dall’intervento dello stato, hanno bisogno dello stato, perché ci sono degli elementi di stabilizzazione, di compensazione del ciclo e ci sono soprattutto dei tipi di servizi che lo stato deve necessariamente fornire e che sono la condizione stessa della vitalità e dello sviluppo del capitalismo. Si chiede allo stato di provvedere per suo conto a quei servizi essenziali e prioritari a cui i capitalisti non possono provvedere, perché sono per loro natura alieni dal consentire profitti; parlo dell’istruzione tecnica e dell’istruzione elementare, o della viabilità; ma parlo anche di qualche cosa di più come la fornitura di certi elementi produttivi basilari che sono indispensabili e che non consentono più la corsa all’accumulazione attraverso il massimo profitto: parlo delle fonti energetiche, per esempio, e della siderurgia.

Oggi ci si accorge (e il caso Krupp ne è la verifica) che la siderurgia non rende più, che la siderurgia è un elemento importante, necessario perché è a monte di qualsiasi attività produttiva, ma non consente più redditi tali da poter convogliare capitali privati: la si lascia quindi volentieri in mano allo stato e non è per capriccio che quasi dovunque essa comincia a essere nazionalizzata sotto diverse forme.

Da qui deriva tutta una interpretazione fra attività dei grandi monopoli produttivi e attività dello stato, le quali attività di fatto, quando non di diritto, sono associate, per cui oggi effettivamente, se vogliamo con una parola sintetica caratterizzare il tipo veramente distintivo del moderno sistema produttivo, possiamo definirlo un capitalismo monopolistico in cui l’associazione dell’attività pianificatrice dello stato con l’attività pianificatrice dei privati è il nesso cui si forma il nuovo blocco di potere, che è conservatore e progressivo nello stesso tempo, progressivo economicamente e conservatore politicamente.

Ora, soltanto guardando a questa situazione possiamo renderci conto che non possiamo più come socialisti dire che in sé e per sé la pianificazione è tendenzialmente democratica o tendenzialmente socialista. Qui intervengono gli elementi che qualificano questa programmazione: programmazione sì, ma di che cosa e per che cosa e con quali obiettivi, con quali finalità? In base a una giusta valutazione di questi elementi distintivi e degli elementi operativi, io credo possibile ricavare i contenuti tendenzialmente socialisti, che valga quindi la pena, per dei socialisti, di appoggiare e di promuovere.

Ora, che cosa è accaduto nel nostro paese?

Nel nostro paese è accaduto che per merito dei socialisti (e in questo bisogna non avere false modestie) noi siamo riusciti a imporre l’idea della programmazione a una classe politica riluttante; però, badate bene, siamo appena all’inizio delle cose, e siamo a un inizio in cui la programmazione che si è diffusa e che si va mano mano organizzando attraverso attività legislative, ha, non esito a dirlo, un forte contenuto neutro; cioè da una idea generale di programmazione acquisibile, che può interessare sia le classi popolari come le classi conservatrici, da questa idea fondamentale che è caratteristica della società moderna, della società industriale, qualunque sia il suo sviluppo, sia che si sviluppi in senso monopolistico sia che si sviluppi in senso socialista, la biforcazione non è ancora avvenuta, perché la biforcazione non può essere quantitativa, la biforcazione deve essere necessariamente qualitativa. Cioè, a un certo punto si pone il problema: dobbiamo pianificare, dobbiamo programmare soltanto per rendere più razionale il dispositivo produttivo e dei consumi del sistema?

Badate bene, anche questo non è un obiettivo da poco, però non è un obiettivo socialista.

La necessità di razionalizzare il sistema, di sottrarlo al suo naturale impulso anarchico e dissolvitore; la necessità di dare coerenza agli interventi sia privati che pubblici, cioè di assegnare un fine, è una necessità, come dicevo prima, oggi fortemente sentita e direi essenziale, non revocabile, sia dei capitalisti, sia dei socialisti.

Il problema nasce, la biforcazione nasce quando si tratta di vedere che cosa vogliamo fare di questa società, e per noi socialisti questo si traduce proprio in un grosso, grossissimo problema, a risolvere il quale la prima condizione è quella di guardarlo lucidamente, con gli occhi aperti e senza illusioni e senza automistificazioni.

Vogliamo noi impiegare tutta la nostra forza, la forza politica di cui disponiamo, la forza sindacale, l’influenza che abbiamo fra le masse popolari a sostegno di un grande processo di razionalizzazione del capitalismo?

Si badi bene, è uno scopo possibile.

Il compagno Giolitti alcuni anni fa puntualizzava in modo molto preciso questa prima alternativa, dicendo che noi abbiamo un orto molto infestato da erbacce, l’orto del capitalismo: noi interveniamo per portar via le erbacce. Portando via le erbacce l’orto cresce più florido, però è sempre lo stesso orto capitalista, compagni: è meglio organizzato, dà frutti migliori, certo, e quindi anche una possibilità di ripartizione del reddito maggiore, però è sempre quell’orto, è sempre l’organizzazione che non ha risolto il problema fondamentale del potere, che non ha scelto la direzione cosciente verso finalità che non siano le finalità del profitto.

O altrimenti, l’altra alternativa è questa: vogliamo, con tutta la gradualità necessaria (parleremo di questo problema di gradualità, che è essenziale), intervenire con una pianificazione, certo razionalizzando il sistema, ma razionalizzandolo su uno scopo e introducendo gli elementi dinamici necessari, indispensabili a questo scopo, non per mantenere un giardino meglio coltivato e più prospero, ma per cambiare la cultura, per cambiare il sistema? Qui nasce la differenziazione.

A questo punto noi dobbiamo domandarci fino a che punto noi socialisti (e quando parlo di noi socialisti direi tutta la sinistra italiana, dalla parte comunista fino alla parte cattolica) siamo riusciti a vedere bene la sostanza del problema e le sue implicazioni. Premetto che già il fatto solo di avere introdotto la politica di piano è una cosa importante, ha operato una rottura perlomeno psicologica, dalla quale si tratta però di trarre le conseguenze giuste e non le conseguenze sbagliate, e la prima conseguenza giusta è di resistere al tentativo puramente propagandistico, e che poi non arriva a nessun risultato, dell’autocompiacimento. Mi pare che nel partito ci si abitui troppo in questi ultimi mesi ad autocompiacersi di questa grande cosa che è il piano: il piano può essere una grande cosa, può essere una cosa pessima, compagni, e ciò dipende appunto dalla capacità che noi abbiamo di indirizzarlo in un certo senso, tenendo presente che esso, creato in una società fortemente dominata da interessi privati e da interessi conservatori, è per sua natura spostato, è, direi collocato, con una forte accentuazione, più verso la conservazione, razionalizzandola, della società presente che non verso la sua trasformazione.

E da questo punto di vista l’impostazione iniziale che noi socialisti avevamo dato al problema, secondo la quale il piano doveva essere lo sbocco di una grande opera di riforma a monte, che preparasse gli elementi necessari e indispensabili e rimovesse gli ostacoli più massicci a una pianificazione democratica, era un’idea giusta, un’idea che il vecchio partito socialista ebbe nel 1962, allorché attraverso la nostra commissione economica (e allora fu l’ultima volta che nel partito si votò all’unanimità, prima della scissione), si stabilì un programma economico che conteneva una serie di riforme. Non è soltanto che noi avessimo voluto avere le prove, anzi le testimonianze, come alcuni amici cattolici, o meglio democristiani, si ostinano a ribadire, attraverso qualche riforma importante come quella della energia elettrica, della disponibilità esistente nella DC di attacco al sistema; c’era una serie concatenata di riforme più o meno ben fatte, più o meno ben articolate, le quali avevano tutte un’idea centrale, che era quella di rimuovere gli ostacoli preordinati e più corposi; per esempio, eliminare alcuni casi mostruosi di rendita, come quella urbanistica, alcune posizioni ormai diventate di rendita e non più di profitto, come quelle derivanti dalla distribuzione della energia elettrica; costituire le regioni come corpi capaci di imprimere un effettivo contenuto democratico alle scelte prioritarie e settoriali.

Non si poteva pretendere evidentemente di rimuovere prima alcuni ostacoli, per passare in seguito alla programmazione.

Il corso delle cose politiche costringe molte volte a fare contemporaneamente molte cose che logicamente, razionalmente dovrebbero essere fatte in due fasi, alcune prime e alcune dopo, ma questo non è male. A un certo punto noi, impegnati in una azione di governo, siamo stati costretti a questo problema: cominciare a delineare gli elementi di una programmazione e nello stesso tempo gli elementi di una riforma che questa programmazione rendessero possibile e, insieme, operativa.

Non è per capriccio che in un primo momento unanimamente abbiamo detto che parte essenziale della programmazione dovessero essere alcune riforme fondamentali. La riforma della legge sulla fiscalità, senza la quale manca uno degli strumenti più agili e più a portata di mano per poter influire sui cicli, l’eliminazione di alcune forme di rendita, come quelle citate, parte essenziale di qualsiasi programmazione degna di questo nome, la legge sulla società per azioni, per poter costituire un canale non di intervento, ma di conoscenza di questo complesso fenomeno dominante nella società capitalistica, tutta una serie, che io non starò a ripetere, di riforme che dovevano appunto essere gli elementi necessari di una programmazione democratica.

Noi siamo oggi in una situazione pericolosa, siamo nella situazione in cui alcune riforme, che avrebbero dovuto fare a monte, ma che, non potendo essere fatte a monte, devono essere fatte parallelamente alla definizione della programmazione, non sono state fatte; e c’è qualche cosa di peggio, poiché alcune riforme, che ci si propone di fare, hanno perso, almeno nei propositi, il loro contenuto realmente innovatore; infatti non basta parlare di titoli, non basta parlare di riforma della società per azioni (qui c’è il compagno Cottino che ci può insegnare molte cose su questo terreno); non basta parlare di legge urbanistica (e qui c’è il compagno Astengo che ci può dire altre cose); non basta parlare di riforma della fiscalità o di regioni: bisogna vedere qual è il contenuto di queste cose, perché tutte le riforme possono essere fatte in senso conservatore e possono essere fatte in senso innovatore.

Oggi siamo al punto in cui il complesso essenziale, il coacervo ritenuto indispensabile come premessa di una programmazione democratica o non c’è o, nella misura in cui viene progettato, è pericolosamente incline, e parlo per diretta conoscenza di causa di cui mi potrebbero testimoniare tutti i compagni che lavorano alla commissione economica del partito o in altri organismi, è pericolosamente incline a lasciare le cose praticamente come sono, con qualche aggiustatura alla superficie; con il che la programmazione, ammesso che avesse quei fini dei quali parlavo prima, cioè quei fini di riforma e di modificazione delle strutture essenziali del nostro paese, mancherebbe, anche se questa fosse la volontà delle forze politiche, degli strumenti necessari per poter far valere questa volontà.

E badate bene, compagni, io credo di fare il mio dovere denunciando l’estrema pericolosità di questo disegno, perché è certamente un disegno ambizioso quello del partito socialista, che si è proposto, attraverso la programmazione la trasformazione graduale di una società organizzata in un certo modo; il fatto che poi, ammesso che questa volontà persista, manchino gli strumenti necessari per poter operare questa trasformazione, non soltanto produce una grande delusione psicologica, ma lascia le cose non immutate, le lascia peggio di prima, perché elimina nella competizione politica una forza essenziale come quella socialista che, a mio giudizio, è una forza insostituibile, che se venisse a sparire e se venisse a essere degradata attraverso un insuccesso o una rinuncia, peggio ancora, di questa natura, non troverebbe nella condizione presente della società italiana nessuna forza politica in grado di surrogarla nella stessa funzione. Ecco perché per me è estremamente importante che su questo terreno sia richiamata nel modo più accentuato possibile, nel modo più esasperato, se credete, la coscienza e l’attenzione del partito.

Oggi noi siamo in una situazione nella quale abbiamo accumulato un certo numero di errori; e badate che io non mi scandalizzo degli errori e non mi scandalizzo neppure dei ritardi: in un’opera di riforma nessuno può programmare, lasciate che ve lo dica, nessuno può programmare con la certezza di un orario ferroviario. Un partito politico o una coalizione di partiti politici può impegnarsi in una grande opera di riforma, può prevedere e pianificare la propria opera in modo da arrivare a certi risultati in un anno, in due anni o in tre anni, graduandoli nel tempo, e poi può trovarsi nella condizione di dover ritardare le diverse tappe di questo processo, e questo no mi scandalizza.

Le ragioni del mio dissenso dalla maggioranza del partito (lasciatemi accennare anche a questo), non dipendono dai ritardi. Io capisco perfettamente che in una situazione complessa nazionale e internazionale come quella italiana, con degli elementi congiunturali insorgenti e dei quali parleremo, si possono verificare dei ritardi; io non sono affatto preoccupato che la macchina che noi vogliamo lanciare nel paese marci anziché a ottanta all’ora o a cento all’ora, a sessanta, a quaranta o a cinquanta all’ora. Questo può avvenire e dovremmo assumere la responsabilità di riconoscere anche che molte volte è necessario.

Quello che non possiamo ammettere non è la riduzione di velocità, è l’inversione di marcia.

Si può e qualche volta è necessario, ed è frutto di responsabilità, marciare più lentamente, purché si marci nella direzione giusta, purché il senso della marcia sia quello stabilito, purché non si modifichi l’itinerario. Lo si ritardi, ma non lo si modifichi, soprattutto non lo si inverta. Ecco perché quando si dice che una delle ragioni del relativo scadimento dell’impegno sulla programmazione è dovuta alla congiuntura sfavorevole che ci è piombata addosso, e non dal cielo, negli anni dal ’62 in avanti, si dice qualche cosa che ha certamente, come sempre, qualche elemento di verità, che però non è tutta la verità.

E devo dire che se c’è qualche cosa nel piano Pieraccini, che io ho votato, difendendolo in senso parlamentare, che non persuade, è proprio questa mancanza di analisi del processo di sviluppo della società italiana: insomma noi vogliamo imprimere allo sviluppo della società italiana un corso diverso, perché il modello di sviluppo del neocapitalismo non ci piace (se ci piacesse non avremmo bisogno di fare il partito socialista, mi pare), non ci piace e vogliamo modificarlo. L’abc della nostra posizione è questo, e non è soltanto l’abc della nostra posizione, è l’abc di tutta la componente di sinistra della società italiana; non ci piace e vogliamo modificarlo.

Ma la premessa per poterlo modificare è rendersi conto di che cosa non ci piace in questo meccanismo e devo dire che, malgrado gli sforzi fatti, non si è potuto, in un documento così lungo, alle volte prolisso com’è il documento di programmazione, includere un minimo di analisi del processo di sviluppo della società italiana, anche per rendersi conto del perché a un certo punto questo meccanismo si è inceppato con la crisi congiunturale del ‘62-63.

Come possiamo pretendere di costruire un meccanismo migliore, se non soltanto non conosciamo quello preesistente, ma neppure le ragioni per le quali non ha funzionato? In questo modo finiamo per subire in modo subalterno l’interpretazione che i liberali e i conservatori hanno dato, secondo la quale la crisi congiunturale sarebbe nata dall’aumento dei salari intervenuto nel 1962 e nel 1963.

Ora permettetemi di dedicare qualche minuto a questa analisi, che è essenziale.

L’inceppamento è nato proprio come implicito nel sistema che ha tentato di modificarsi. Un circuito economico capitalistico (dal punto di vista dei capitalisti, naturalmente dei capitalisti intelligenti) come dovrebbe configurarsi? Una massa di produzione crescente con una massa di salari crescente, per la ragione di cui ho detto prima, massa di salari crescente per poter costituire un mercato. Il punto delicato della situazione dov’è?

Il circuito dovrebbe verificarsi in questo modo: produzione industriale che dà luogo a una distribuzione di salari crescente, salari che vanno ai lavoratori, dai lavoratori vanno ai consumi, dai consumi, attraverso le banche o le borse, ritornano all’apparato produttivo e il ciclo riprende. Questo è il meccanismo neocapitalistico, che in Italia negli anni della prosperità, negli anni del miracolo, più o meno s’era riusciti a stabilire, cioè un circuito abbastanza regolare in cui i salari venivano consumati per acquisto di merci, il loro importo, a parte alcune implicazioni di mercato esterno, ritornava all’apparato produttivo e il ciclo ricominciava, alimentandosi e irrobustendosi.

Che cosa ha interrotto questo circuito? Il fatto che nel corso del circuito si sono inseriti alcuni taglieggiatori che hanno impedito che il flusso avvenisse regolarmente. Quando noi abbiamo tanto insistito sulla rendita fondiaria e sulla rendita della speculazione urbana e sulle rendite agrarie, e, insomma, sulla natura della società italiana ancora fortemente caratterizzata dalla presenza di importanti posizioni di rendita, non lo abbiamo fatto per capriccio, l’abbiamo fatto perché comprendiamo che nella società moderna, anche neocapitalistica, l’eliminazione delle rendite, delle rendite parassitarie, è una operazione essenziale proprio perché quel circuito è essenziale, anche per i capitalisti, se si vuol fare un capitalismo moderno.

E invece il circuito si è interrotto perché vi sono inseriti dei taglieggiatori. A un certo momento la circolazione sanguigna (i fondi necessari) è stata deviata e isterilita in gran parte nella speculazione fondiaria e in altre rendite parassitarie, e ciò è stato riconosciuto anche dal consiglio nazionale delle ricerche; perché, ripetiamo, quando gli operai nel 1962, o gli impiegati, anche come conseguenza della formazione del governo di centro sinistra, hanno cominciato ad accentuare la loro pressione per l’aumento dei salari, per riconoscimento universale essi riguadagnavano unicamente e tardi delle posizioni che francamente avevano perduto negli anni precedenti.

Non è un mistero per nessuno, e lo ha riconosciuto anche il governatore della Banca d’Italia, che negli anni del miracolo economico gli aumenti di produttività, nell’industria manifatturiera almeno, sono stati largamente superiori agli aumenti di salari, e siccome i prezzi non sono diminuiti, questo vuol dire, senza possibilità di discussione, che i profitti sono aumentati. Dove sono andati questi profitti?

Al momento in cui gli operai hanno incominciato a recuperare il loro potere contrattuale e a domandare maggiori salari, questi profitti dovevano esistere, dovevano essere investiti e non risulta che l’apparato produttivo in quegli anni sia stato ammodernato al punto da comprovare un loro investimento totale. Attraverso tali profitti le industrie, le grandi organizzazioni finanziarie avrebbero dovuto avere la riserva necessaria per poter aumentare gli investimenti, per poter cioè superare il ciclo. Al contrario, i profitti sono andati a finire proprio in quelle forme dissipatrici di rendite, che sono state effettivamente i taglieggiamenti occulti e palesi che hanno impedito la circolazione sanguigna naturale.

Ecco che, considerate da questo punto di vista, le richieste di dare priorità a una buona legge urbanistica e una buona legge fiscale, non sono fisime del compagno Nesi, del compagno Lombardi o di alcuni demagoghi che vogliono sfasciare l’industria elettrica; sono richieste, ripeto ancora, a monte di una ipotesi socialista o democratica, connaturate alle necessità stesse di un circuito economico che deve essere mantenuto, sia in un sistema da riformare sia in un sistema da mantenere, se non si vuole che tutta la macchina si arresti e si sfasci.

La mancanza di questo elemento di analisi conseguente del sistema ha fatto sì che alcuni errori sono stati commessi: si tratta ora di riprendere in mano una posizione fortemente progressiva, che il partito socialista non avrebbe mai dovuto perdere, ma che io credo sia ancora in condizione di poter recuperare.

La prima condizione è la seguente. Da parte comunista è stata fatta al piano una critica che, pur contenendo elementi giusti, è fondamentalmente sbagliata. Si dice: il piano è assolutamente improduttivo di trasformazioni sociali perché assume come scopo prioritario l’aumento del reddito nazionale nella misura del 5% all’anno nei cinque anni.

Con questo, dicono i comunisti, voi fate una questione puramente quantitativa, cioè ponete un elemento di pura acquisizione del reddito senza trasformazioni sociali.

Bisogna valutare quanto ci sia di vero in questa accusa per vedere quanto ci sia di correggibile.

Io sono persuaso che la scelta del 5% come variabile, per così dire esogena, sia stata una buona scelta, a un patto naturalmente (e c’è nel piano), che questo non sia considerato come una condizione, ma come un obiettivo da raggiungere. Raggiungere il 5% di aumento di reddito all’anno come scopo del piano non è cosa così semplice e così automatica, come molti dicono, tanto è vero che fino all’anno scorso tutti gli esperti finanziari rilevavano che il 5% è un forte tasso di sviluppo, uno dei maggiori, se mantenuto per cinque anni di seguito, che si siano verificati di questi tempi nei paesi più sviluppati.

Si tratta dunque di un obiettivo importante, ma il punto qualitativo del piano è un altro, ed è questo a mio giudizio il fianco più scoperto della pianificazione come oggi è impostata.

Badate bene, quando io dico questo, dico che impostarla diversamente sarebbe stato possibile, ma difficile. Difficile per il carattere delle forze politiche che l’avevano promossa, ma difficile anche per la mancanza di alcuni elementi di analisi conoscitiva, che potevano essere predisposti, ma che predisposti non sono stati negli anni scorsi; vale a dire, sta bene il 5% assunto come incremento del reddito nazionale per tutti i cinque anni, ma come questo 5% si realizza? È qui il punto, il punto difettoso, quello in cui dobbiamo fare uno sforzo per passare avanti, perché dovremo dare un forte contenuto politico a queste analisi che dobbiamo finalmente fare in modo disaggregato. Non basta fissare un 5% comunque raggiungibile, ma un 5% raggiungibile in certi modi, sviluppando certi settori a detrimento di altri, dando prevalenza all’industria rispetto all’agricoltura o viceversa, a certe forme di agricoltura rispetto ad altre, o all’industria rispetto al terziario o che so io: non mi interessa ora l’esemplificazione, ma far notare che l’importante in una pianificazione che voglia trasformare una società, non è l’aumento del reddito, ma è il modo in cui si arriva a questo aumento, perché se no, paradossalmente, potrebbe verificarsi questo, che si fissasse il 5% e poi si ottenga questo aumento del 5% attraverso una compressione dei salari; potrebbe aversi una pianificazione la quale desse il massimo incremento all’investimento, stabilendo un blocco, o addirittura una riduzione dei salari; la macchina produttiva con forti investimenti si mette in moto, si raggiunge il 5%, si potrebbe raggiungere anche il 6 o 7%, e i giapponesi lo stanno realizzando in questo modo.

Si potrebbe obiettare: ma allora chi compra i prodotti? E a ciò si potrebbe rispondere: aumentando la quota di esportazione, facendo la concorrenza sui mercati di esportazione.

Ho fatto questa ipotesi per sottolineare che il 5% o un tasso qualsiasi di incremento fissato come obiettivo del piano può raggiungersi in diversi modi, e che non basta fissare l’elemento quantitativo, bisogna vedere in che modo si raggiunge, ed è qui che nasce la scelta. Ed è qui che nasce il problema per noi, altrimenti il piano potrebbe incrementare il massimo reddito attraverso la produzione, lasciando la direzione della produzione ai capitalisti, e quando parlo di capitalisti intendo sia i capitalisti privati che quelli statali, poiché è la stessa cosa da questo punto di vista. Cioè da questo punto di vista la produzione diviene affare degli imprenditori, non affare della collettività.

Quando poi l’aumento del reddito è stato realizzato, lo stato interviene per distribuirlo meglio, con una quota più importante in opere sociali, come la scuola, l’ospedalità o altro. Badate bene, vorrei mettervi in guardia: questa non è la politica socialista, questa è la vecchia politica riformista, non riformatrice. La politica riformista, che si qualificava scientificamente proprio come quella che voleva lasciare immutato il sistema produttivo, considerando la produzione come affare dei capitalisti pubblici o privati, e si preoccupava esclusivamente della ripartizione del reddito.

Ma noi siamo andati alla programmazione con un diverso criterio, con un criterio tendenzialmente socialista, quello di non lasciare l’attività produttiva alla responsabilità esclusiva degli imprenditori, ma di intervenire con delle scelte coscienti, senza le quali non c’è programmazione né democratica né socialista. E allora un’analisi disaggregata che avesse fatto valere le scelte collettive dirette a stabilire quali sono i settori da muovere, quali i settori da reprimere, avrebbe significato l’inizio di una scelta qualitativa, di una programmazione democratica e socialista.

Compagni, non facciamoci illusioni: nessuno oggi nel campo operaio può credere che il problema del benessere sia solo un problema di ripartizione.

I socialisti vogliono la società più ricca perché diversamente ricca: è il tipo di benessere, il tipo cioè di consumi che noi vogliamo cambiare, sono veramente le basi delle aspirazioni e delle preferenze e delle soddisfazioni da dare a queste preferenze che noi vogliamo cambiare, perché il socialismo è un progetto dell’uomo, soprattutto, è un progetto dell’uomo diverso, che abbia diversi bisogni e trovi il modo di soddisfare questi bisogni.

Una programmazione che voglia andare alle sue conclusioni in uno spazio di tempo necessariamente lungo, deve attaccare il sistema dalla testa e dalla coda, deve attaccarlo dalla testa, produzione, e deve attaccarlo dalla coda, i consumi, deve cioè attraverso un’azione graduale modificare i consumi e la produzione connessa.

La scelta dei consumi non è più di pertinenza del consumatore, poiché la società moderna, la società neocapitalistica è dominata dal produttore; lo schema di Einaudi, di una democrazia di consumatori che tutti i giorni coi loro acquisti depongono un bollettino di voto e dicono alla società che cosa essa deve produrre, se deve produrre più profumi e più cosmetici, o deve produrre più scuole attraverso la scheda data dall’acquisto, non è vero: oggi i tre quarti dei nostri consumi sono indotti dalla necessità della produzione. Sono i produttori che stabiliscono quello che noi dobbiamo desiderare e quello che noi dobbiamo consumare, e badate bene, compagni, questo è un problema che sta diventando endemico non soltanto nella società di capitalisti, ma nella società socialista.

Recentemente in Ungheria vedevo le réclame per i cosmetici, perché se ne acquistassero di più, e mi sentivo dire che ci sono delle fabbriche che hanno superato le cifre del piano per i cosmetici e venivano lodate per questo: dispersione delle risorse, per correre all’imitazione del modello di sviluppo americano, pur cercando di afferrarlo per la coda. Piccoli segni, ma segni interessanti che il problema non esiste soltanto per noi, che dobbiamo ancora varcare il limite attraverso cui si rende possibile una direzione dell’economia, ma anche in paesi dove la direzione è possibile, perché tutta l’economia, tutta la produzione è collettivizzata: anche qui è già in corso questo processo degenerativo che porta veramente a una riedizione psicologica, e poi necessariamente anche politica, del capitalismo nei suoi elementi essenziali, a un capitalismo fatto benissimo dallo stato.

Non è affatto vero che la collettivizzazione integrale dei mezzi di produzione sia il socialismo, poiché può benissimo essere compatibile con un tipo di società analoga a quella americana, non dominato dal profitto individuale, ma impostato sullo schema di consumi e di prodotti necessari per soddisfare questi consumi, schema che viene mantenuto integralmente, cosicché i risultati sono gli stessi o possono diventare gli stessi. Al contrario, il problema essenziale, importante per tutta la sinistra, è quello di cambiare le cose, e questo io chiamo “la sinistra”: non è avere una tessera, è voler cambiare le cose, è il credere che sia possibile cambiarle.

Quando alcuni anni fa la rivista di Sartre fece una grande inchiesta internazionale per domandare a intellettuali e politici la definizione di quello che sia “la sinistra” una risposta mi persuase: a sinistra è chi crede che sia possibile cambiare il mondo; la destra è quella che non crede che sia possibile cambiare il mondo o che ne valga la pena. Noi siamo socialisti, perché crediamo possibile cambiare il mondo.

Agli amici cattolici ricordo che c’è tutta una scuola loro, quella che fa capo ad alcuni economisti quali il Perroux, che si fonda proprio su questo, su un progetto dell’uomo; un’economia che sia al livello di una riforma dell’uomo, questo è veramente un terreno morale prima che politico, su cui ci si può largamente incontrare.

Ma ritorniamo al problema della scelta qualitativa, che è un problema essenziale.

Ed è qui che la nostra impostazione è ancora fresca e non pregiudicata. Compagni, ed ecco perché io vorrei dare un senso non deprecatorio e lamentoso alle mie parole, ma di speranza e anche di fiducia.

Quando in sede di discussione parlamentare sul piano i compagni comunisti e, con maggiore attenzione teorica, i compagni del PSIUP, presentarono due progetti di contro-piano, in definitiva, che cosa domandavano? Domandavano un piano più avanzato, che appunto implicasse un intervento nell’attività produttiva diretto a cambiare il tipo di consumi e il tipo di produzione. Questo obiettivo, e lo hanno riconosciuto del resto, è il risultato di una collaborazione che in questi anni abbiamo fatto tutti insieme, si può dire che è l’elaborazione di tutta la sinistra italiana, dalla parte comunista alla parte socialista alla parte cattolica nelle sue correnti più avanzate.

Come concepiamo noi quella società più ricca perché diversamente ricca, che preconizziamo come risultato di una pianificazione socialista? Donde andiamo a ricavare gli elementi per soddisfare meglio bisogni più elevati?

Li andiamo a prelevare in primo luogo dall’eliminazione delle rendite, in secondo, dalla limitazione dei consumi voluttuari e affluenti: la nostra lotta è contro la società affluente e il benessere, non già perché non vogliamo il benessere, ma perché vogliamo un certo tipo di benessere, non quello che domanda tremila tipi di cosmetici o una dispersione immensa di risorse, ma quello che domanda più cultura, che domanda più soddisfazione ai bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante o di apprezzare Picasso, perché questa, che preconizziamo, è una società in cui l’uomo diventa diverso a poco a poco e diventa uguale; diventa uguale all’industriale o all’imprenditore non perché ha l’automobile, ma perché è capace di studiare, di apprezzare i beni essenziali della vita.

Ecco, questo schema è quello che noi ci dobbiamo proporre come progetto di modificazione certamente graduale, ma non dobbiamo sottovalutare la sua difficoltà, ed è qui l’errore dei comunisti, ed è stata questa la materia della nostra polemica durante il dibattito sul piano. Infatti noi possiamo concordare con i comunisti quando dicono, giustamente: diamo la priorità agli elementi produttivi di redditività più differita, perché le cose più importanti che noi vogliamo fare sono a redditività differita; così, ad esempio, se vogliamo fare una università per tutti è chiaro che dobbiamo preparare i professori e le scuole e che ci vorranno dieci anni almeno; così se realizziamo la pianificazione della rendita urbana non possiamo pensare che dall’oggi all’indomani nascano a basso prezzo le case per i lavoratori; dobbiamo tenere presente non solo che siffatti investimenti cominceranno a produrre risultati apprezzabili fra un certo numero di anni, ma che bisogna adattare appunto la produzione a un dato livello di consumi.

Quindi il punto essenziale dell’argomento qual è? È proprio nel rendersi conto che fra un modello di sviluppo col quale dobbiamo fare i conti perché esiste, che non è quello nostro, ma è quello capitalistico, c’è tutta una zona intermedia, che è la zona del passaggio; qui è la difficoltà.

Ora proponendo la reinsorgenza di un sindacalismo rivoluzionario o dicendo che vogliamo cambiare tutto e sostituire la vecchia con una nuova società facciamo gli estremisti a buon mercato, poiché questo non è possibile.

La scelta che abbiamo fatto noi socialisti e che, devo dire, abbiamo finito di imporre a tutti, è quella della modifica, della rivoluzione attraverso le riforme di struttura e io vorrei essere ben chiaro su questo punto che è essenziale.

Alcuni anni fa noi socialisti, che talvolta abbiamo un ingiustificato complesso d’inferiorità, abbiamo posto per primi in Italia il problema della riforma di struttura come strategia essenziale del passaggio al socialismo moderno, in mezzo all’ostilità generale. Ricorderò che nel ’56, quando ponemmo questi problemi, un volumetto, proprio del compagno Giolitti, Riforma e rivoluzione, che preconizzava queste cose, destò tanto scandalo che il compagno Longo sentì il bisogno di scrivere un altro libro, Revisionismo nuovo e antico, per controbatterlo riproponendo la tesi della priorità della conquista del potere politico.

Noi oggi abbiamo fatto una scelta ed è una scelta essenziale: non è la scelta di una contestazione della società capitalistica dall’esterno; noi non siamo estranei a quello che avviene nel mondo capitalista, ma ci inseriamo in questo mondo per trasformarlo. Quindi, riforme graduali, ma tutte tese su una linea di sviluppo coerente, la quale esige gradualità, ma costanza nel mantenere gli obiettivi.

Altra volta ho detto in forma paradossale che noi socialisti, e con noi tutto il movimento operaio nell’epoca moderna, abbiamo un compito difficilissimo, che è quello di guidare un’automobile, di modificarla mantenendola in corsa, senza arrestarla. In Russia avevano una società industriale talmente esigua che potevano distruggerla e sostituirla, ricostruendola con facilità; qui no. La macchina produttiva è talmente complessa nei paesi di capitalismo avanzato che noi non possiamo immaginare di fermarla, neanche per un momento, per farne una diversa. Dobbiamo per forza modificarla, mantenendola in vita.

E mantenere in vita un meccanismo produttivo, cercando di modificarlo, è una cosa difficile, ma non impossibile.

Non impossibile a quali condizioni? Facevo osservare al compagno Barca che illustrava la tesi comunista al parlamento, che se avesse svolto un’analisi quantitativa in rapporto a tutte le modificazioni che richiedeva per il piano, tutte a favore di investimenti a scadenza differita, chiedendosi quali settori avrebbero dovuto sopportare il costo, si sarebbe trovato in un gran imbarazzo, dato che il problema esiste, il costo della trasformazione è un costo reale. E in una società organizzata gerarchicamente come la nostra i costi delle trasformazioni li sopporta sempre la povera gente, non facciamoci illusioni.

Intanto noi possiamo indurla a sopportarli, in quanto ci sia la certezza di conseguire dei risultati a scadenza apprezzabile, perché altrimenti i sacrifici sono fatti per altri. Il sostituire alla soddisfazione privatistica dei bisogni, caratteristica della civiltà capitalistica (il successo individuale e il consumo individuale), il sostituire i consumi collettivi, che è una grande opera di civiltà, esige un tempo, esige uno sforzo, esige un costo.

Ed è qui, compagni, che io guardo alla necessità, connessa a una programmazione realmente democratica, di una unità a sinistra, e ciò non per una resipiscenza frontista; i compagni che (come il compagno Paonesi) hanno combattuto con me molte battaglie contro il frontismo (congresso di Genova, congresso di Firenze) sanno che io ripudio il frontismo non soltanto perché si era costituito sotto l’egida di necessità internazionali in cui il movimento operaio veniva considerato come un fattore subalterno di una strategia generale della politica sovietica, con elementi giusti e con altri non giusti, ma perché necessariamente il frontismo, dovunque si sia manifestato, in Francia, come in Spagna, come in Italia, finiva per essere uno schieramento riformista allineato sull’elemento meno progressivo della coalizione.

Così in Spagna la riforma agraria non si fece non perché i socialisti o gli anarchici non la volessero, ma perché gli elementi del partito radicale di allora, che appartenevano al fronte popolare, su questo punto non marciavano, marciavano sulla legge, ma non sull’applicazione. E la guerra civile derivò anche da questo.

La mia non è una resipiscenza frontista, dunque, ma è una necessità moderna e nuova per l’avvenire; è impossibile, in una opera così difficile e con costi così elevati e che esige un’attenzione e una fiducia larghissima da parte della popolazione lavoratrice, è impossibile pensare, compagni, che non ci sia una omogeneità nella richiesta e nella conduzione di una politica di questo genere, omogeneità che oggi non c’è, ma che ci si deve sforzare di realizzare.

Il reperimento delle forze vitalmente interessate alla trasformazione, che non necessariamente coincide con le esigenze dei partiti, è un’opera che dobbiamo cominciare a fare, un’opera di chiarificazione all’interno di ciascun partito, compreso il partito comunista, dove ci sono riformatori e ci sono riformisti, quanti ce ne sono fra di noi, almeno; all’interno del movimento cattolico; all’interno di tutte le correnti reali che esprimono i bisogni dei lavoratori. È un’operazione che si può non fare, questa, ma allora bisogna sapere qual’è il prezzo che si paga.

Il prezzo che si paga è quello di consolidare in Italia una politica conservatrice, moderata, riformista, che soddisfi alcuni bisogni, ma che non cambi sostanzialmente la natura del sistema.

Ora si può fare questo, questa è anche una politica, è una politica che fanno altri, ma noi ci chiamiamo socialisti e non credo che sia per capriccio, compagni; se siamo socialisti vogliamo una società socialista, non la vogliamo dall’oggi al domani, però ogni giorno vogliamo fare un passo avanti, un piccolo passo, magari, ma un passo avanti, non un passo indietro.

Se vogliamo una società socialista, dobbiamo sapere chi vuole una società socialista, e riconoscerlo, e coalizzare le forze e gli sforzi necessari per intraprendere finalmente l’opera nuova di riforma considerando quello che di giusto si è fatto e quello che si è fatto di sbagliato, come una premessa, come una propedeutica all’azione di domani.

L’acquiescenza a una politica moderata alla lunga non risolve i problemi della società italiana, o, se li risolve, li risolve in un modo non accettabile per dei socialisti. Io credo che il neocapitalismo possa dar soluzione ad alcuni problemi, però a un livello che perpetua la degradazione dei lavoratori e la loro mancanza di potere e di dignità.

Il neocapitalismo può fare moltissimo dal punto di vista produttivo, però non può fare nulla, anzi può fare soltanto qualche cosa di negativo, dal punto di vista della costruzione di una società nuova e di un uomo diverso, con diversi bisogni e poteri e con diversa dignità, compagni. Su questo terreno sappiamo che deve essere indirizzato lo sforzo, e non lo sforzo utopistico, ma uno sforzo realistico, con risultati acquisibili, anche se difficili.

Io da questo punto di vista devo dire che, pur essendo stato uno dei fautori del centrosinistra, credo che questa sia una politica superata e che sia da abbandonare; non penso affatto che sia stato uno sbaglio averla fatta, anche coi suoi errori; noi abbiamo pagato uno scotto perché abbiamo dimostrato, a nostro scapito, purtroppo anche con una scissione, le difficoltà dei problemi della trasformazione italiana, le difficoltà delle riforme.

La sinistra italiana era abituata a una certa faciloneria, eredità dell’opposizione sistematica del frontismo, cosicché si pensava che obbiettivo fondamentale fosse fare una coalizione di governo, entrare nella maggioranza. Invece si è constatato che non basta avere le redini della società politica per avere il potere, perché le leve reali della società sono resistenti e sono difficili da manovrare e da contestare. Se anche non avesse avuto altro risultato, il centrosinistra avrebbe svolto la funzione positiva di rendere edotta l’enorme maggioranza degli italiani della natura reale dei problemi, che non sono soltanto di governo o di maggioranza parlamentare, ma sono problemi ben più costosi, che esigono una compattezza e un’omogeneità e uno sforzo molto superiori a quelli richiesti per una qualsiasi coalizione di governo.

Ecco perché bisognava fare questo tentativo, ma quando la tendenza si è invertita, bisognava arrestarlo per reimmergersi nella lotta politica dall’esterno, per suscitare le forze necessarie, per potere riprendere la marcia in avanti, partendo appunto da questa esperienza che ci dava il diritto (che in parte stiamo perdendo, compagni) di parlare oggi, nel momento in cui tutte le sinistre sono incerte sull’avvenire e sul proprio atteggiamento, in cui le crisi e le critiche sono crescenti e reali e in cui proprio il nostro partito dovrebbe avere la possibilità si essere l’elemento coagulatore, grazie anche al disinteresse dimostrato nel passato e nel presente rispetto ai condizionamenti internazionali. Al contrario, il partito socialista, da questo punto di vista, ha la voce indebolita in questo momento, e ciò perché siamo in una posizione a mio giudizio sbagliata, perché parliamo da una cattedra troppo contestata per essere autorevoli; io accenno a questa situazione incidentalmente come a un elemento del problema, non come alla sintesi del problema, poiché il punto capitale è quello di renderci conto delle dimensioni in cui deve operare un nuovo partito socialista: il partito socialista deve essere effettivamente un partito nuovo, non una somma di sue vecchi partiti, cioè una somma dei loro difetti, ma un partito che dica qualche cosa ai giovani, alla nuova generazione, la quale, infine, è destinata a realizzare la società di domani.

A questi giovani noi abbiamo un ideale concreto da proporre ed esso ruota attorno alla programmazione, ma non come un fatto esclusivamente economico ma come un grande fatto politico e morale nello stesso tempo. Su questo terreno io credo che noi non abbiamo il diritto di sciupare delle posizioni ideali e politiche che ci siamo conquistati con una lotta così dura.

E io ho fiducia, ho fiducia che il partito sappia superare questo punto di flessione e che sappia ricuperare le energie sufficienti per parlare ancora una volta con voce autorevole all’intero paese.

Materiale tratto da l’Ossimoro