TURATI EBBE RAGIONE NEL ’19 E NEL ’21 PERCHE’ INIZIO’ AD AVERLA A GENOVA

di Gaetano Arfè

Credo di essere rimasto il solo ancora in attività di servizio del folto gruppo di allora giovani compagni che trent’anni or sono fu impegnato nelle celebrazioni del sessantesimo anniversario del partito. Parecchi si sono dispersi, alcuni sono scomparsi nel pieno di una maturità ancora verde non senza aver lasciato segno nella storia del socialismo italiano: Gianni Bosio Bosio, Raniero Panzieri, Giovanni Pirelli. “Eravamo nel 1952, uno degli anni grevi del frontismo.

Nel partito militavano ancora dei superstiti del congresso di Genova del 1892. Molti erano quelli che avevano iniziato la loro attività negli anni prefascisti. La maggioranza, era composta da compagni entrati nelle file socialiste nella scia della Resistenza o subito dopo.

Quello che si sapeva della storia del socialismo italiano era allora assai poco. Nel modus operandi, come dicono i criminologi, dello squadrismo era pratica costante quella di assaltare, previo disarmo, spesso, gli occupanti, da parte della forza pubblica, le sedi delle organizzazioni politiche, sindacali e cooperative, di devastarle e di erigere roghi con quanto vi era contenuto. E’ la sorte che toccò anche all’Avanti! nella civilissima Milano, che toccò, non molto lontano di qui, a Ravenna, alla sede delle cooperative di Nulla Baldini, sottratto alle fiamme, a forza, dagli stessi squadristi di Balbo. Un patrimonio documentario insostituibile andò così irrimediabilmente perduto. Negli anni successivi non furono pochi i compagni più noti e più esposti che dovettero disfarsi del materiale — carte, opuscoli, giornali cimeli — di cui erano in possesso e la cui scoperta in casa poteva significare, significava, via libera al carcere o al confino. La storia del movimento operaio —ma anche di tutti gli altri partiti e movimenti che non fossero quello fascista — era di fatto vietata. Il solo libro di rilievo, ancora oggi in circolazione, e non sulla storia, ma sulla preistoria del movimento socialista italiano era stato l’opera di uno storico, Nello Rosselli, destinato a cadere sotto il pugnale dei fascisti francesi, su mandato del governo fascista italiano.

Un periodo rimasto a lungo ignorato

Tutto quello che si sapeva del mezzo secolo trascorso dal congresso di Genova alla caduta del fascismo era fatto di notizie frammentarie, tratte da libri che non erano di storia, ma di cronaca o di una pubblicistica dove presenti se non dominanti erano gli echi di antiche polemiche, e anche quei libri erano di difficile reperimento. Si potrebbe addirittura dire che per la più gran parte dei militanti la maggior fonte era costituita dalla viva voce dei vecchi compagni, da scritti che apparivano nella stampa di partito, dai richiami alla storia, non ispirati a rigore scientifico dei dirigenti del parti-to. Né aveva contribuito a chiarirci le idee un non contestato «Quaderno di Rinascita, curato personalmente da Togliatti, che aveva anche redatti i testi di collegamento interpretativo dei vari saggi, nel quale la preistoria del socialismo italiano si prolungava fino al 1921, e nel quale la storia del partito socialista, tutta subalterna, in oscillazione permanente tra opportunismo e massimalismo, rimaneva un intreccio di errori e di colpe fino all’anno di grazia 1934, quando la sigla del primo patto d’unità d’azione apriva ai socialisti italiani la via della redenzione. Era questa la situazione nella quale cominciammo a muoverci senza altra guida che quella di attenerci alle regole della serietà e dell’onestà.

Non avevamo una interpretazione da proporre e da convalidare. Volevamo soltanto, per la parte che competeva raccogliere quanto potesse servire alla ricerca storica e al tempo stesso contribuire a mobilitare il partito in uno sforzo collettivo rivolto a una presa di possesso della propria storia, a risvegliare e a rendere consapevole, si direbbe oggi, la propria memoria storica. Il piano di lavoro comprendeva il reperimento del materiale conservato presso i compagni; una raccolta di testimonianze e interviste dalla viva voce dei protagonisti, di canti popolari e di lotta; i registi degli atti ufficiali, della direzione del partito e dei congressi, nonché delle organizzazioni sindacali nazionali; una cronistoria del partito dal congresso di Genova al referendum repubblicano del 2 giugno sulla base di schede tratte dai giornali, e in primo luogo dell’Avanti! da pubblicare divise per periodi, ciascuna parte preceduta da un saggio introduttivo, la compilazione di monografie locali dove fosse possibile. Quel programma, coordinatore. Bosio, fu in gran parte realizzato, non senza incidenti e inconvenienti di varia natura. La mobilitazione del partito ci fu e fu imponente. Manifestazioni dí massa si svolsero in ogni parte d’Italia, culminate in quella, grandiosa di Genova. Da più parti vecchi compagni si riunirono per mettere insieme le loro memorie, e ne venne una fioritura di opuscoli, purtroppo non raccolti, commoventi spesso nella loro ingenuità, ricchi di notizie preziose, pregevoli alcune, opera di giovani studiosi che avevano saputo valersi della collaborazione dei vecchi militanti. Non fu portata a termine la compilazione dei regesti degli atti ufficiali, anche se la più gran parte del lavoro era stata compiuta: ne restano le tracce in un volume che raccoglie i documenti relativi alla CGL, nei volumetti delle Edizioni Avanti! sui congressi del partito in una mia storia del primo periodo di vita della Federazione Giovanile Socialista.

La svolta autonomistica del congresso di Venezia del 1957 ha tra le sue premesse anche questa prima presa di coscienza collettiva da parte del partito della ricchezza antica e della nobiltà della propria tradizione che in tale occasione ebbe a realizzarsi. E non si tratta, io credo, di una interpretazione forzata. La riprova la si può trovare, a me pare, nei tentativi compiuti da parte di alcuni compagni del gruppo dirigente di allora di contenere le manifestazioni del sessantesimo del congresso di Genova dentro i limiti della ortodossia frontista.

Una iniziativa non andata in porto

La cronologia non fu varata, nonostante che con uno sforzo miracoloso organizzato e diretto da Bosio, si fossero raccolte circa quarantamila schede, perché il dirigente incaricato di tenere i rapporti con noi, pretendeva che i saggi introduttivi fossero tutti composti da membri della Direzione, posto che l’interpretazione della storia — Zdanov insegnava — era cosa troppo delicata perché fosse affidata a degli studiosi quand’anche militanti. Il compromesso raggiunto faticosamente per il quale avremmo valutato caso per caso quale fosse il dirigente più idoneo si ruppe subito di fronte al rifiuto intransigente di affidare a Lelio Basso la redazione del saggio relativo al primo decennio di vita al partito. C’è un motivo particolare per cui c’è da lamentare che questa iniziativa sia mancata ed è che da quelle schede veniva documentato l’altissimo contributo di sangue dato dai socialisti alla prima resistenza contro il fascismo, quella che si svolse dal 1921 al 1926.

Non meno significativo, e più clamoroso, fu un secondo episodio. Avevamo pensato a un manifesto celebrativo che portasse insieme le immagini di Andrea Costa e di Filippo Turati, una associazione che aveva il conforto della verità storica e che al tempo stesso rispondeva alla preoccupazione diffusa che a solo padre del partito apparisse il riformista Turati. Il manifesto fu fatto e lanciato, ma in esso campeggiava soltanto la testa leonina di Costa. Turati era caduto. Era un tributo, probabilmente non richiesto, pagato ai comunisti, la figura di Turati era comunque stata riscoperta. Ne vennero in quegli anni da due studiosi comunisti, Luigi Cortesi e Gastone Manacorda, due libri che documentavano la parte preminente e dominante avuta da Turati nella preparazione e nella condotta del congresso di Genova. Il dibattito che vi si accompagnò e che ne segui finì però con lo spostarsi dal piano storico a quello ideologico e con l’incentrarsi intorno ai contrapposti meriti di Turati e di Antonio Labriola quali interpreti del marxismo. Tra le altre, la tesi più ardita fu quella formulata da Giuseppe Berti — un dirigente comunista di stretta osservanza stalinista che doveva poi diventare il primo dei comunisti italiani ad accorgersi che il messaggio della rivoluzione di ottobre si era spento e a scrivere sul tema pregevolissime cose — il quale, bollando come teoricamente povero e politicamente opportunistico il marxismo lombardo simboleggiato da Turati, proponeva che Labriola fosse sottratto a un contesto storico troppo arretrato per lui e considerato nella sua vera luce di precursore del partito comunista d’Italia.

In realtà, se c’è criterio interpretativo inapplicabile al complesso fenomeno della nascita non di una setta religiosa, ma di un partito politico destinato a incidere durevolmente nella storia, esso è quello del riferimento alla fedeltà a una presunta ortodossia — basterebbe domandarsi quale sarebbe l’autorità legittimata a definirne i dogmi — della dottrina professata. Turati fu marxista, laicamente, serenamente, ma profondamente marxista, dal marxismo trae i suoi criteri di interpretazione della realtà. Ed è comunque impossibile scindere il fenomeno della formazione in Europa dei partiti socialisti e della loro Internazionale dal diffondersi, dal radicarsi; dal saldarsi con le più avanzate esperienze filosofiche, culturali, scientifiche del tempo delle idee di Marx e di Engels.

Ma l’importanza storica del congresso di Genova non sta nel fatto che esso codifica una dottrina, ma che la cala, senza preoccupazioni di ortodossia, nella realtà sociale, politica, culturale del nostro paese, originalmente e creativamente. Le dichiarazioni di principio, le ipotesi, le direttive di massima lanciate a Genova nel 1892, per tanti aspetti caduche in quanto espressione di una situazione storica incomparabilmente diversa da quella attuale, nella loro sostanza hanno retto all’usura del tempo, sono passate senza smentite clamorose attraverso le prove più dure e più drammatiche, sono uscite vittoriose dal confronto con altri principii, con altre ipotesi, con altre direttive, baldanzosamente presentatesi come d’avanguardia e costrette ora a registrare sotto la spinta dei fatti il loro fallimento. A Genova Turati ha una parte di primo piano, è il protagonista del congresso, è il padre del partito.

Umberto Terracini, l’enfant terrible del 1921, il giovane rivoluzionario che Lenin taccio di estremista, con la onestà della quale è maestro riconosce oggi che Turati «aveva ragione». Turati «ebbe ragione» nel ’19 e nel ’21 perché aveva cominciato ad «aver ragione a Genova, e questo perché a ispirarlo in tutte le fasi della sua lunga vita è una concezione del socialismo dove i criteri di interpretazione della realtà tratti dalla dottrina e le indicazioni politiche realistiche che ne conseguono non si dissociano mai dai principii etici e dai motivi ideali che quella dottrina lo avevano indotto ad abbracciare.

La separazione degli anarchici

Il tratto caratterizzante del congresso di Genova, l’elemento che consente la nascita in Italia di un partito socialista che si collega al socialismo europeo è la separazione dagli anarchici. A proporla, a promuoverla è Turati, senza settarismo, senza rancore. Insieme si paralizzerebbero a vicenda; divisi, ognuno tesserà la tela che saprà tessere. La società della quale Turati auspica l’avvento non è diversa da quella che gli anarchici vagheggiano: una società di liberi e di uguali, e anche per Turati la socializzazione integrale dei mezzi di produzione e di scambio è la condizione pregiudiziale per arrivarci.

La sua opposizione all’anarchismo nasce da una repulsione profonda della violenza — quello che ci divide da voi è il ribrezzo — dirà Turati alla Camera denunciando le forche erette in Libia. E’ una repulsione nella quale i motivi di ordine etico, si fondano con quelli dottrinali e politici. Il socialismo non può essere costruito a colpi di decreti emessi da un potere politico comunque conquistato. Il socialismo va costruito in tempi lunghi esige maturità di condizioni oggettive e tra esse quella che la borghesia abbia esaurita la propria funzione storica, che i suoi interessi siano entrati in conflitto con quelli generali della società, e che al tempo stesso il proletariato sia in grado di succederle. Al partito socialista tocca in questa fase indirizzare il processo di maturazione del movimento operaio e contadino, risvegliandone ed esaltandone il potenziale di autonomia della quale è carico, avviandolo a creare all’interno del vecchio involucro le cellule dell’ordine nuovo, le sue libere istituzioni di classe che diventeranno domani le istituzioni della società socialista: le leghe, le cooperative, le case del popolo e a coronamento la conquista dei comuni dove i proletari si abiliteranno a dirigere la cosa pubblica nell’interesse collettivo.

Il gruppo parlamentare si batterà perché si creino, si conservino si estendano le condizioni più idonee a che quest’opera si svolga. Il ripudio della violenza si fonda anche su una valutazione realistica dei rapporti di forza: un assalto frontale allo stato borghese si risolverebbe in un massacro e in un incrudimento del regime che farebbe tornare indietro di decenni il movimento operaio. Sono implicite in questa scelta pregiudiziale e vengono via via rese esplicite indicazioni destinate a lunga vita. L’accettazione del metodo legalitario e del gioco democratico e la concezione del socialismo quale accumulo di conquiste gradualmente effettuate comporta il superamento dell’indifferenza rispetto al regime politico nel quale si opera: allargare la sfera della libertà, aprire a democrazia le istituzioni create dalle oligarchie liberali diventano obiettivi vitali per il movimento operaio.

La convinzione che il superamento del capitalismo non possa avvenire fino a quando la borghesia non abbia sviluppato tutto il potenziale progressivo di cui ancora è gravida autorizza a ipotizzare convergenze, quand’anche transitorie di interessi tra essa e il movimento operaio, al fine di eliminare dalla società, dalla economia dal costume residuati semi-feudali, di ammodernizzare I’apparato produttivo, di sviluppare l’economia.

Perciò Turati continuerà ad avere ragione. L’avrà quando contrapporrà a Labriola le ragioni della storia e quelle della dottrina. Il partito va costruito lì e subito sulla base delle forze sociali, culturali, politiche che l’Italia è in grado di esprimere. L’avrà quando nella lunga crisi di fine secolo culminata nelle cannonate di Bava Beccaris indurrà il, partito a uscire dagli steccati della intransigenza e a stringere alleanze in difesa della libertà borghese e dello Statuto albertino; l’avrà quando proporrà e promuoverà il sostegno alla svolta liberale del nuovo secolo. Avrà ragione quando definirà la guerra libica una guerra contro l’Italia e quando denuncerà nella capitolazione di una maggioranza parlamentare dl fronte alla piazza agitata da una minoranza facinorosa che fa dell’interventismo l’equivalente del patriottismo il segno di un pericolo per le istituzioni parlamentari.

Avrà ragione quando proporrà nella crisi del dopoguerra una sorta di compromesso storico tra una borghesia non più in grado di governare e un movimento operaio che non lo è ancora e l’avrà quando pressoché isolato al congresso di Bologna preconizzerà un esito reazionario della crisi se si continuerà a predicare una violenza che non si è per altro in grado di praticare. Avrà ragione quando profetizzerà un esito bonapartitsta della rivoluzione russa mancando in quel paese le condizioni idonee e necessarie perché la rivoluzione antizarista con la quale egli era stato solidale senza riserve si trasformasse in rivoluzione socialista. Turati avrà ancora una volta ragione quando lancerà il suo monito al socialismo e alla democrazia d’Europa circa la natura del fenomeno fascista dal quale nessun popolo può dirsi immune, perché connesso alla natura stessa del capitalismo.

Ma il partito nato a Genova non è tutto e solo il partito di Turati. Turati può dirsene il fondatore, né rimarrà l’uomo più autorevole e più rispettato mai ne diventerà. Giuseppe Faravelli che lo amò come padre e lo venerò come maestro diceva che Turati non sapeva e non voleva né obbedire, né comandare, soltanto convincere. Nella sua Milano egli fu messo in minoranza nel 1902 dalla pattuglia avventurosa dei sindacalisti rivoluzionari e relegato ai margini del partito. Nel 1912 la sua corrente si spaccò, la destra Fu espulsa, la sinistra conquistò durevolmente la maggioranza. Nel congresso di Bologna egli ha con sé soltanto una sparuta pattuglia che può soltanto limitarsi a lanciar inascoltati moniti. Nel 1922, alla vigilia della marcia su Roma c’è contro di lui una proposta di espulsione che provocherà una nuova scissione con la nascita del Partito Socialista Unitario.

Sono tutti elementi anche questi che debbono rientrare nel giudizio storico, proprio nel momento in cui ci propone di svolgere tutto il filo della tradizione turatiana. C’è stato in questi anni aperto un problema di natura dottrinale e politica oltre che storiografica ed era quello di rivalutare la tradizione riformista del socialismo italiano. Personalmente posso dire, fuor di presunzione di aver dedicato a questo scopo del tempo e della fatica quando ad opporvisi non erano i comunisti soltanto, ma larga parte della cultura democratica e liberale dove pesavano i giudizi, per far due nomi soli, di Salvemini e di Croce. Oggi questa rivalutazione c’è stata, tra gli studiosi, nella cultura politica, nella coscienza dei lavoratori. Oggi, a novant’anni dal congresso di Genova si tratta di non allentare su questo terreno la presa, di mantenere l’iniziativa, ma di andare anche oltre. Non c’è bisogno di essere hegeliani per credere che comprendere e assimilare una esperienza ideale equivale a superarla storicamente.

Per comprendere e assimilare in tutte le sue implicazioni l’esperienza teorica e pratica del riformismo c’è in sede storica da comprendere perché uomini che furono socialisti e democratici, come Salvemini, come Rosselli, furono nei confronti del riformismo quale nella realtà si era venuto configurando fortemente polemici, perché la giovane generazione dei Gramsci e dei Togliatti, ma anche dei Silone e dei Tasca si collocò in opposizione frontale nei suoi confronti. E a ognuno di questi nomi può collegarsi un tema teorico o politico: la questione meridionale, il determinismo mutuato dal marxismo, la mancanza di una presenza originale e attiva nel dibattito delle idee, la scarsa attenzione dedicata al rapporto tra lotta sociale e lotta Politica, la sottovalutazione del momento della direzione politica univoca e consapevole nella guida del movimento delle masse.

Nel 1952 noi ci proponemmo — e lo sforzo allora avviato non ha avuto soste — di recuperare la tradizione socialista, di restituire al partito la sua memoria storica. Oggi l’obiettivo può essere più ambizioso: recuperare tutto quanto c’è di vivo e di progressivo nella tradizione democratica e socialista del nostro paese, ivi compresa la componente nazionale, figlia della nostra stessa cultura del comunismo italiano, entrato oggi sul terreno ideale prima ancora che su quello politico, in irrimediabile crisi: una operazione culturale che io definirei culturalmente egemonica. Questo è possibile, senza cadere in un ibrido e infecondo sincretismo ideologico perché il punto di riferimento c’è ed è integralmente nostro: è quello della tradizione che da Genova novant’anni fa prese le mosse, attraverso vicende irte di tragiche contraddizioni, ne ha risentiti tutti colpi e contraccolpi, che si presenta oggi come la sola nella quale trovano vitalità rinnovata gli antichi valori, carichi di contenuti aderenti alla realtà del nostro tempo: quei valori che Turati levò ad articolo di fede, la pace, la libertà, la giustizia, quella fede che è anche la nostra e che noi chiamiamo socialismo.

Tratto dall’Avanti! del 1° Aprile 1982

Relazione storica alla Conferenza Programmatica di Rimini 1982GOVERNARE IL CAMBIAMENTO