L’ORGANIZZAZIONE REGIONALE. AUTONOMIA DELLE FEDERAZIONI

Nell’immagine di copertina: Giusto Tolloy

La funzione esecutiva delle decisioni centralizzate attribuite alle giunte regionali viene ribadita dalla testimonianza di Giusto Tolloy al convegno di organizzazione, dove e chiamato nella sua qualità di segretario della giunta regionale emiliana. Nel suo intervento Tolloy afferma: “… circa i risultati raggiunti dalla giunta regionale emiliana la loro positività è stata messa ampiamente in risalto dai segretari delle federazioni emiliane, intervenuti nel dibattito… Tengo ad aggiungere che l’efficienza della giunta regionale emiliana non è affatto, come qualcuno potrebbe credere superficialmente, un prodotto della spontaneità. Essa è invece la risultante del grado di maturità politica e di volontaria disciplina dei quadri emiliani ed in particolare dei segretari di federazioni. All’atto della costituzione della giunta e dell’elezione degli organi direttivi furono essi stessi infatti a stabilire il compito della giunta e della segreteria, forse non solo organizzativo, ma anche politico, di controllo e di guida delle federazioni nell’applicazione dei deliberati del congresso e della direzione con ciò annullando le remore attuali dello statuto al riguardo“.

Le federazioni emiliane erano, in maggioranza, fedeli alla politica “unitaria”; ben si spiega quindi il “profondo senso di disciplina” con cui esse avevano accolto l’impostazione morandiana per la formazione delle giunte regionali. Il fatto che tali giunte fu allora possibile costituirle in un numero ristretto di regioni, e che ebbero anche in queste (tranne che per la Sicilia e per la Sardegna) vita caduca, dimostra che i residui della concezione autonomistica delle federazioni costituivano un ostacolo insormontabile per il centralismo democratico; e che l’ufficio organizzazione dovette forzosamente accontentarsi di ottenere un grado approssimativo di esecutività (da parte degli organismi federali) delle decisioni prese dal centro. Di qui dunque la ricorrente polemica contro l’autonomismo delle federazioni e delle sezioni: “Ebbene le federazioni non si accorgono forse che certe velleità autonomistiche delle sezioni, oltre a costituire scompensi e sfasature inammissibili nell’ambito provinciale, rappresentano posizioni arretrate sul piano di classe?”.

E “perché proprio l’autonomia delle federazioni dovrebbe farsi vedere guarentigia della volontà della base? Forse che la si garantisce attraverso una frammentazione, forse che certi “cordoni sanitari” di cui si vorrebbe cingere il territorio della provincia, proteggono veramente la volontà di base?”.

In realtà dietro la polemica organizzativa, c’è una precisa polemica politica. La “sinistra” che ha vinto il congresso con poco più del 50% non controlla che una metà circa delle federazioni. Nelle altre gli “autonomisti”, pur dopo lo scioglimento della corrente deciso dai suoi vertici, si sono arroccati in posizioni di resistenza nei confronti delle decisioni direzionali. La direzione “unitaria” intende smantellare queste resistenze, stabilendo un sistema disciplinare di cui il centralismo democratico non rappresenta che l’alibi teorico. Tale situazione si ripresenta in tutte le altre istanze organizzative: i NAS e le organizzazioni di massa.

I NAS

Abbiamo visto come il centralismo morandiano lasci immutata sostanzialmente la struttura del partito nella sua divisione territoriale e funzionale, solo sostituendo il metodo dei rapporti autoritari tra centro e periferia, al sistema che lasciava un ampio margine di autonomia alle federazioni e alle sezioni. L’impostazione morandiana tende invece a dare una più ampia capillarità all’azione organizzativa, potenziando il NAS, cioè il nucleo di militanti nel luogo di lavoro e su base territoriale.

“La politica unitaria, le parole d’ordine ed ogni azione intrapresa dal partito possono esplicarsi e polarizzarsi fra i lavoratori solo attraverso i NAS e da ciò la necessità di un collegamento sempre più stretto cogli organismi territoriali: sezioni e federazioni.

“Nel campo sindacale, i NAS debbono sostenere l’opera dei sindacati, appoggiarla e spiegare ai meno attivi i motivi della lotta… Come ho già fatto al terzo convegno dei ferrovieri socialisti, credo di poter sintetizzare l’opera dei NAS nella formula: fare della politica senza sostituirsi al partito, fare del sindacalismo senza sostituirsi al sindacato”.

Questa formula puramente verbale usata da Lizzadri per sintetizzare la funzione del NAS può destare qualche meraviglia. Ma niente di più concreto è possibile rinvenire in tutte le lunghe dissertazioni sulla funzione del NAS, in particolar modo per quanto riguarda la funzione di questi organismi sui luoghi di lavoro. Qualche chiarimento si può ricavare invece dalle affermazioni sul problema della autonomia del NAS.

“Alla domanda se i NAS debbano godere di autonomia politica, rispondo personalmente: no. Potrei citare esempi su esempi di esperimenti negativi, mi basta ricordare quanto è accaduto subito dopo l’ultimo congresso. I NAS di Torino non sentendo altra voce all’infuori di quella dei loro dirigenti politici, che spesso erano anche loro superiori, si sbandarono con facilità, e ci volle non poca fatica per dimostrare l’errore…“.

Il segretario della federazione di Ferrara, parlando dell’esperienza della sua federazione ribadiva: “Nella nostra provincia ci siamo trovati in una situazione particolarmente disagiata, poiché i vecchi dirigenti della destra avevano potuto giocare con maggiore successo in mezzo ad un proletariato industriale debole… Essi si erano impadroniti dei NAS e ne hanno fatto in buona parte i nuclei dei sindacati autonomi nelle fabbriche. Tuttavia, anche in province più fortunate e con preminenza di classe operaia industriale, alla luce di esperienze negative di molte federazioni, ci pare necessario stabilire che ai NAS non vada lasciata nessuna autonomia politica“.

Si può rilevare, dunque, che l’articolazione organizzativa periferica dei NAS ha una sola funzione: quella di permettere il controllo e l’orientamento, sui luoghi di lavoro, dei militanti operai, che manifestavano il loro dissenso dalla linea politica della direzione. Ciò può avvenire allargando il numero dei NAS, ma mantenendoli sotto il diretto controllo politico della sezione territoriale, o dell’ufficio sindacale della federazione, perché “le stesse sezioni di partito, in questo caso, e in specie se si tratti di grandi centri industriali, non hanno in genere l’autorità necessaria per esercitare un vero controllo sui NAS“.

La struttura dei NAS non può ripetere pertanto neppure la struttura cellulare di tipo comunista. Osservava ancora il segretario della federazione di Ferrara: “Per l’autonomia politica ed organizzativa della cellula occorre una saldezza ideologica che il nostro partito non ha ancora raggiunto, e che è stata il presupposto sul quale il Partito comunista ha creato l’organizzazione di cellula. Se è vero che la riconquistata unità del partito costituisce un grande successo, e indubbio che per alcuni a tale unità si è addivenuti non tanto per avanzamento ideologico, quanto per pigrizia“.

Anche Tolloy nel suo intervento fa cenno alla carente unità ideologica dei quadri intermedi e di base. In un partito che ha dato alle forze frontiste solo una maggioranza di stretta misura, le resistenze alla linea politica di direzione, al dogmatismo “unitario” della maggioranza si manifestano con rilevanze a livello delle sezioni, delle federazioni, dei quadri intermedi e nazionali, ma soprattutto nei NAS (come abbiamo visto) e nella organizzazione sindacale.

Il partito ed il sindacato

Alla conferenza d’organizzazione, il responsabile dell’ufficio sindacale del partito, dopo il XXVIII congresso, Elio Capodaglio, nel suo intervento, rilevava che “in linea generale si può affermare che o per la natura del settore di lavoro loro affidato oppure per la loro particolare mentalità o per la loro educazione politica, i nostri compagni si mostrano propensi alle vecchie forme del sindacalismo tradizionale; manifestano una esagerata fiducia nel tecnicismo; talora una scarsa combattività; tendenza e difetti, cioè, non più sufficienti o tollerabili rispetto alle caratteristiche odierne del nostro movimento sindacale”.

La “scarsa combattività” non è altro che l’insofferenza dei quadri e dei militanti sindacali socialisti per l’impostazione di lotta della CGIL nel periodo della sua massima politicizzazione e strumentalizzazione al PCI. I sindacalisti socialisti sono accusati di restare propensi alle “forme tradizionali della lotta sindacale”, di predilezione verso il “tecnicismo”, cioè di contrapporre un’azione sindacale autonoma all’azione agitatoria della direzione stalinista della confederazione del lavoro.

Infatti, osserva sempre il responsabile dell’ufficio sindacale del partito, “va rilevata la contraddizione tra la politica unitaria che il partito vuol perseguire e l’impostazione non unitaria che talvolta viene data alle lotte elettorali, specie nell’interno delle fabbriche. Ecco perché non ci meraviglia che a Torino… gli operai socialisti del complesso FIAT con una certa riluttanza abbiano accettato la formazione di liste confederali. Le impostazioni politiche hanno una loro logica che non consente cambiamenti di fronte troppo subitanei… ed anche se ci fa piacere che i compagni di Milano si dimostrino tanto attivi e diligenti da stampare un’edizione straordinaria dell’Avanti per l’elezione della commissione interna dell O.M. ci domandiamo tuttora che risultati politici può dare, nel fine ultimo la divisione delle liste, mentre la lotta che si sviluppa sotto i nostri occhi è diventata ormai da un pezzo una lotta di popolo“.

Ed inoltre so bene per diretta esperienza che è proprio nel lavoro sindacale che 14 coscienza unitaria, per un complesso di ragioni che non è ora il caso di esaminare, viene messa a dura prova” per cui “una correzione graduale di questo indirizzo s’impone, dunque, se noi vogliamo che l’organizzazione marci di pari passo con la lotta politica“.

Ed Oreste Lizzadri, segretario della CGIL, nell’intervento già citato, affermava: “Si sono verificati alcuni casi nei quali, di fronte ad una lista di tutte le correnti scissionistiche, le correnti socialista e comunista si sono presentate separate. Cosa debbono pensare i lavoratori in tal caso? Come si può parlare un linguaggio unitario se questa unità non si è raggiunta prima fra le correnti più vicine e conseguenti?”.

Nelle elezioni per i sindacati e nelle C.d.L. il problema è più complesso. Debbo intanto premettere che le notizie dei contrasti che ci pervengono fra socialisti e comunisti sono per l’80% di carattere sindacale“.

Qualche compagno ha affermato che non questioni superficiali, ma ragioni di principio dividono nel sindacato socialisti e comunisti”. Partendo da queste considerazioni, Lizzadri sviluppa il suo attacco a fondo contro la corrente socialista della CGIL, la stragrande maggioranza della quale, nei quadri di base ed intermedi, avversa la politica della direzione“.

Che vi siano lavoratori socialisti e comunisti contrari ad una agitazione propugnata da altri lavoratori socialisti e comunisti, che l’impostazione di una lotta venga giudicata in maniera differente, questo può accadere, ed è bene che sia cosi. Ma che tutta una corrente pregiudizialmente si opponga ad una data azione, o la valuti in modo differente, questo non lo comprendo. Una tale opposizione è 99 volte su 100 frutto di un contrasto voluto ed artificioso… Come credere che tutta una corrente prenda una posizione in contrasto con tutta un’altra corrente su una questione di questo genere senza ammettere l’esistenza di interessi determinati che vogliono il contrasto?”. La conclusione che Lizzadri trae è quella della necessità della liquidazione della corrente socialista della CGIL: “L’eliminazione delle correnti è un passo avanti sulla via dell’unità. Favorisce o danneggia gli interessi dei lavoratori? Queste sono le domande che dobbiamo porci. Se la risposta è positiva, andiamo avanti, compagni, con coraggio, senza titubanza e senza timori“.