IL PROBLEMA DELL’APPARATO

Abbiamo già visto come il problema dell’apparato sia stato affrontato solo in forma generica dai dirigenti del PSI, i quali, all’atto del passaggio dalla politica “unitaria” a quella “autonomista”, si sono trovati di fronte al problema politico dell’apparato, nel senso della necessità di orientare a favore della nuova politica la parte più consistente dei quadri funzionari ai quali nell’epoca morandiana erano stati attribuiti almeno di fatto poteri pressoché assoluti (in particolare modo ai membri degli esecutivi federali).

Risolto positivamente questo problema, soprattutto per lo spostamento degli apparati delle grandi città su posizioni autonomistiche, la discussione riguardo agli apparati, sul potere dei, funzionari-dirigenti, sulla loro qualificazione politico-sociologica è stata del tutto abbandonata.

L’apparato dei funzionari-dirigenti è considerato nel PSI – giustamente – come elemento indispensabile per l’esistenza del partito, per la sua espansione politica ed organizzativa, per la sua funzionalità di organizzazione di massa; è considerato, inoltre, come condizione stessa per una vita democratica che assicuri la partecipazione di base alle decisioni politiche ed all’attuazione di esse. Un partito senza apparato è addirittura inconcepibile in una moderna democrazia, che e appunto una democrazia di partiti. Ma il problema che si pone e quello innanzitutto del modo di formazione di selezione dell’apparato dei funzionari dirigenti, dei limiti al suo potere politico che non può essere naturalmente assoluto ed esclusivo, se non a pena di spegnere ogni possibilità di vita democratica del partito.

L’apparato dei dirigenti funzionari deve innanzitutto rinunciare alla pretesa di costituire il corpo di direzione esclusivo del partito: esso costituisce una componente fondamentale della esistenza e della funzionalità del partito. Accanto ad esso, altre zone del movimento socialista organizzato devono trovare la loro rappresentanza negli organi direzionali ed esecutivi del partito, a tutti i livelli. Il partito, cioè, non può essere diretto esclusivamente dall’apparato, o da membri dell’apparato che siano ascesi a posizioni di potere pubblico esterne al partito grazie all’appoggio determinante dell’apparato medesimo. Se così avvenisse, la tendenza oligarchica insita in ogni organizzazione politica si consoliderebbe a discapito della vita democratica, degli interessi di tutti gli iscritti all’organizzazione.

La democrazia interna di partito è assicurata dalla socializzazione del potere interno, che si proietta nel potere politico di decisione che il partito ha nel sistema politico generale.

E questa socializzazione del potere politico interno del partito può sorgere soltanto dalla garanzia della reale rappresentanza a livello decisionale di tutte le zone del movimento politico che il partito organizza.

Gli organi dirigenti locali e nazionali vanno pertanto considerati come il punto di incontro di tutte le componenti del movimento organizzato: l’apparato dei funzionari; gli attivisti volontari; i rappresentanti del partito nei pubblici poteri (Parlamento, Enti locali, aziende municipalizzate ecc.); i rappresentanti degli organismi collaterali, di natura sindacale, culturale, assistenziale. Il partito infatti, come termine intermedio tra la società civile organizzata nei suoi interessi economici, sociali e culturali ed i pubblici poteri, non può identificarsi, soprattutto nei suoi organi decisionali, con il movimento organizzato degli interessi di categoria (come vorrebbero certe tendenze anarco-sindacali); ne con le sue rappresentanze nel potere pubblico. Ma dev’essere il punto d’incontro delle une e delle altre; l’organismo di omogeneizzazione e di selezione degli interessi organizzati nella società civile, e di rappresentanza di questi interessi a livello dei pubblici poteri.

Un partito a struttura indiretta è un organismo largamente articolato nelle sue componenti e deve essere, quindi, altrettanto articolato nei suoi organi di decisione e di esecuzione. Un’organizzazione funzionale – qual è quella del partito a struttura indiretta – deve pertanto avere una direzione altrettanto funzionale, che non si può identificare con l’apparato, ma bensì rappresentare tutte le componenti: quella territoriale, e quella delle organizzazioni collaterali; quella delle rappresentanze dei pubblici poteri, e quella dell’attivismo volontario e del lavoro retribuito dei funzionari. L’adozione di questo criterio comporta una regola elastica, interpretata in forma sperimentale, naturalmente, che è quella della ripartizione dei posti negli organismi decisionali ed esecutivi tra le varie componenti della vita del partito.

Ad esempio, l’organo esecutivo di una federazione dovrebbe essere composto non più, come avveniva per il passato, ed avviene sovente anche per il presente, dai dirigenti funzionari e dai consiglieri comunali e provinciali o dal deputato locale. Esso verrebbe ad essere composto da un numero x di funzionari dirigenti; da un numero x di consiglieri comunali e provinciali; da uno dei deputati e senatori locali; da un numero x di iscritti al partito non funzionari; da un numero x di rappresentanti degli organismi collaterali. Questo esempio ha ovviamente un valore puramente indicativo. Ma una regola rigorosa dovrebbe ovviare alla tendenza ormai irresistibile ad attribuire ai membri della direzione nazionale del partito la qualifica parlamentare.

L’apparato parlamentarizzato

La pressoche totale “parlamentarizzazione” della direzione nazionale del partito, reca con sé il rischio di una identificazione del partito con la sua rappresentanza parlamentare, con gravi conseguenze sul piano del costume (la corsa alla funzione dirigente come trampolino di lancio per la carriera parlamentare e governativa) e, sul piano politico, nel senso di uno spostamento di tutto il potere di decisione nel giro degli interessi e delle esigenze del gioco parlamentare, facendo declinare l’organizzazione partitica a semplice macchina per la raccolta dei voti e per la propaganda di parte.

Noi consideriamo la parlamentarizzazione del gruppo dirigente del partito come il frutto più negativo del sistema del centralismo democratico, che postulava una organizzazione di partito chiusa, un potere politico e parlamentare, di decisioni interne ed esterne, concentrato in poche mani, controllato dall’apparato.

Il superamento del centralismo democratico pone perentoriamente l’esigenza di limitare il numero dei parlamentari ed anche, se vi fossero, dei ministri negli organi dirigenti nazionali. Ciò che non significa affatto creare le condizioni di una inconcepibile distinzione tra partito e gruppo parlamentare; ma significa il rispetto della rappresentatività degli interessi e delle forze che il partito organizza, fondamento di un equilibrio dinamico della vita del partito, e garanzia delle condizioni per la partecipazione democratica.

Il monopolio delle dirigenze

Lo stesso problema si pone per il comitato centrale del partito. Il numero ristretto dei suoi componenti ne fa un organo di monopolio verticale del potere di decisione politica, con un elevato grado di elettoralizzazione dei suoi membri. Una concezione gelosa, esclusiva delle prerogative del comitato centrale potrebbe, in linea teorica, giustificarne o almeno spiegarne la formazione così ristretta, il criterio del numerus clausus che impedisce, di fatto, un reale ricambio del gruppo dirigente nazionale del partito.

Nel XXXIV congresso nazionale fu avanzata dal vicesegretario del partito una proposta di modifica dello statuto, diretta ad allargare il numero dei componenti del comitato centrale. Tale riforma, ritenuta esatta in via di principio, era stata anch’essa rinviata sine die.

Prospettive di un partito nuovo

“Nel difficile cammino per creare nella nostra struttura interna una piena democrazia socialista, che superi ed avanzi quella dei partiti borghesi ed eviti i rischi del centralismo, propri dei partiti comunisti, alcuni passi sono stati compiuti ma molto rimane ancora da fare. Si tratta di fare degli organi dirigenti la guida morale e politica, non la gerarchia burocratica del partito, si tratta di rendere sempre più partecipi e protagonisti dell’elaborazione della linea del partito tutti i suoi militanti, si tratta di demolire false gerarchie del passato a cominciare da quella che distingueva tra compagni qualificati e non qualificati, nel che si contiene in germe la radice di quell’errore che conduce alla mitica esaltazione del capo, all’intrusione del Fúhrerprinzip nelle file del movimento socialista, non molto lontana da quella del pastore dei popoli; si tratta di restituire sempre di più il partito alla sua reale dimensione umana, alla sua natura di libera associazione di uomini, di combattenti per una idea, i quali recano al grande patrimonio comune ciascuno la propria soggettiva esperienza, i propri valori morali nati nel travaglio di una crisi di coscienza o nel fuoco di una lotta sociale o nell’ondata vittoriosa della liberazione antifascista, ciascuno il proprio contributo, l’operaio con il suo lavoro, il contadino con la sua saggezza ed il suo diffidente senso del collettivo e la diretta conoscenza dei problemi e la sua forte volontà di uguaglianza, l’intellettuale con la coscienza, propria degli autentici uomini di cultura, della modestia del loro sapere.

Si tratta di demolire la concezione sovrannaturale e fanatica del partito che ha sempre ragione verso i suoi componenti ed anche verso l’esterno, ravvisando in tutti la coscienza che il partito è ogni singolo militante e l’insieme di tutti i militanti, che esso non esercita alcuna dittatura sul singolo, come non consente alcuna prevaricazione del singolo ai suoi danni”.

Con queste parole il vicesegretario del PSI, Francesco De Martino, nella sua relazione su “Il Partito e i problemi attuali della democrazia” al comitato centrale del 9-10-11 gennaio 1962 definì nei suoi termini esatti 2 contenuto di quell’impegno di lotta al socialismo burocratico che Nenni aveva enunciato al congresso di Napoli.

Creare un partito nuovo dalle macerie del centralismo burocratico: “ecco un avvincente ed entusiasmante compito per la nuova generazione socialista”. Un partito che porti sul piano della piena democrazia interna la tradizione di impegno organizzativo che ha creato i presupposti dell’autonomia socialista, ma che i compiti nuovi dell’autonomia, lo sviluppo incessante della società italiana, la funzione decisiva assunta dal PSI nella politica della “svolta a sinistra” fanno ritenere inadeguata ad assicurare la partecipazione democratica dei militanti, l’efficienza operativa del partito ed un’adeguata selezione del suo gruppo dirigente.

Disse Nenni al XXXIV congresso: “Il tipo stesso della nostra organizzazione è invecchiato ed ha bisogno urgente di essere modificato”. Tuttavia non si può porre il problema del rinnovamento delle strutture socialiste in termini di funzionalità, quasi di tecnica organizzativa. Esso è problema politico, ed è problema ideologico.

La realtà è che la politica di autonomia ha indotto di per se medesima un processo di profonda revisione delle strutture organizzative del movimento socialista. Il cosiddetto “centralismo democratico”, ovverosia la concezione burocratica del socialismo, altro non era ed è che l’espressione organizzativa del frontismo. Più che evidente la sua derivazione dal modello del Partito comunista.

La politica di autonomia l’acquisizione dei valori pieni della democrazia quale dimensione reale della lotta socialista, il rifiuto del burocratismo comportano di conseguenza una rottura di fondo con gli schemi del centralismo.

Questa rottura avvenuta per sollecitazione politica della maggioranza autonomista formatasi intorno a Nenni, e per l’irrompere delle esigenze pressanti di ammodernamento, non giunse peraltro alle sue conseguenze più coerenti per il permanere di interessi cristallizzati, insorti nell’epoca del centralismo, che pesavano sul comportamento politico tanto della maggioranza come della minoranza. Forme gravi di “centralismo democratico” si proiettarono nella vita interna stessa delle due correnti.

Al XXXIV congresso (Milano 15-19 marzo 1961) la corrente di “autonomia” riconfermò la maggioranza con 269.576 voti, pari al 55,09%.

Le correnti di minoranza, unificate in sede congressuale, riportarono sulla loro mozione 205.148 voti, pari al 41,9%.

Una mozione presentata in forma di “lettera” da Sandro Pertini, ottenne 5404 voti, pari all’1,1%. Gli astenuti furono 9041, pari all’1,84%, e 108 i voti di mozioni locali non attribuiti a mozioni nazionali. Nel comitato centrale, la maggioranza ottenne 45 membri contro 21 alla “sinistra”, 6 ad “alternativa democratica”, ed 1 alla “lettera Pertini”.

Rispetto al XXXIII congresso, la corrente di “autonomia” perdette 3695 voti e 3,21 punti di percentuale; le correnti di minoranza unificate guadagnarono 5185 voti, con incremento percentuale dello 0,6; la “lettera Pertini” ottenne 1’1,1; aumentò notevolmente il numero degli astenuti (9041 contro 1497). Si può calcolare, almeno su un piano aritmetico, che la perdita in percentuale degli autonomisti sia stata assorbita dagli astenuti, dalla “lettera Pertini” e dalle minoranze unificate.

Se si valutano i risultati complessivi dei congressi provinciali, nei quali la “sinistra” e “alternativa democratica” votarono su mozioni separate, la “sinistra” aumentò, rispetto al precedente congresso, di 18.407 voti, e del 2,49 in percentuale, avendo ottenuto 171.467 voti, pari al 35,04%; “alternativa democratica”, invece, ottenne 33.678 voti, pari al 6,88 % con una perdita di 7.255 voti e 1,85 in percentuale.