Tratto da un’opera di Giovanni Artero: APOSTOLI DEL SOCIALISMO
Nell’Italia nord-occidentale: Giovanni Lerda, Oddino Morgari, Costantino Lazzari, Dino Rondani
1. Da Cremona a Milano
2. Il lavoro e l’inchiesta sociale. Anna Maria Mozzoni
3. Il Circolo operaio. Eliseo Reclus
4. Il primo arresto. Il Fascio operaio e la Lega Figli del lavoro
5. L’incontro con Bertani e l’inchiesta agraria
6. La Federazione Regionale dell’Alta Italia del Partito Operaio Italiano
7. Dalla costituzione del POI ai Congressi di Milano e Mantova (1885).
8. Turati scrive l’Inno dei lavoratori per il Partito Operaio
9. Le elezioni del 1886 e la polemica con Felice Cavallotti
10. La ripresa dell’attività del POI. Il congresso di Pavia (1887)
11. Parentesi di vita privata
12. I Congressi di Bologna (1889) e Milano (1890)
13. La fondazione del Partito socialista a Genova (1892)
14. Trasferimento a Busto Arsizio
15. Nascita della Camera del lavoro e della Società Umanitaria
16. Amministratore della Lotta di classe
17. L’adesione di De Amicis al PSI
18. Il Congresso di Reggio Emilia e quello clandestino di Parma
19. Polemiche sulla tattica
20. Il domicilio coatto a Borgotaro
21. Il giurì per la gestione della Lotta di classe
22.Commesso viaggiatore del socialismo
23. Dimostrazioni per il pane
24. Il “novantotto”
25. Finalborgo
26. Propagandista e canditato
27. Enunciazione della linea politica
28. Intransigentismo e sindacalismo rivoluzionario
29. “I principi e i metodi del Partito Socialista”
30. Segretario tra “settimana rossa” e intervento. “Né sabotare né aderire”
31. Nuova carcerazione
32. Nel dopoguerra; La terza Internazionale
33. Gli ultimi anni
Conclusione
Amministratore della “Lotta di classe”
Col concorso di così favorevoli circostanze i socialisti di Milano, allo scopo di orientare lo sviluppo del movimento proletario, avevano iniziato nel luglio 1892 la pubblicazione di un settimanale col titolo Lotta di classe, mediante la formazione di una società di azionisti, i quali si impegnavano al pagamento di almeno un’azione di L. 250. A dirigere il giornale era stato chiamato da Torino il giovane avvocato Claudio Treves, abile e coraggioso polemista, al quale era affidato l’incarico anche della compilazione e redazione.Si trattava dunque di un organo squisitamente politico destinato a dare e mantenere alla organizzazione una rigorosa unità di indirizzo, consolidandovi le aspirazioni socialiste Il successo fu rapidissimo, tanto che si rese presto necessario il lavoro continuo e quotidiano di un impiegato amministrativo e contabile per secondare lo sviluppo dell’azienda. “Si misero gli occhi sopra di me e l’ing. De Franceschi cominciò a farmene la proposta mostrandomi i diversi aspetti convenienti materialmente o moralmente per me. Mi schermii per qualche tempo … ma la sua insistenza fu tanta, l’impegno scritto che egli si prese di farmi assegnare uno stipendio di almeno 200 lire al mese era cosi serio, che io finii per arrendermi ed in principio del 1893 ritornai a Milano, andando ad abitare colla moglie e coi figli di Viscardi”
Col suo lavoro regolare e continuo l’azienda giornalistica acquistò subito un carattere di serietà e di solidità fino allora sconosciuto. Però il Consiglio d’Amministrazione, viste le forti passività del primo bilancio, trovò opportuno ridurre il suo stipendio a sole 150 lire mensili e “questa fu una mia prima delusione. Protestai tanto che in seguito il mio povero stipendio venne portato a 175 lire mensili”.
L’adesione di De Amicis al Partito socialista
Fu in questo frattempo che ebbe occasione di entrare in rapporti personali con Edmondo De Amicis, “le cui simpatie per le idealità socialiste io riuscii a convertire in una vera e propria adesione politica.” Già attratto e sedotto dallo stile e dallo spirito degli articoli di Filippo Turati che comparivano sulla “Critica sociale”, De Amicis aveva domandato di sottoscrivere una azione della Cooperativa “Lotta di classe”. Come amministratore Lazzari gli mandò il titolo da firmare e cominciò così un’amichevole corrispondenza in seguito alla quale, avendo avuto occasione di andare a Torino lo andò a trovare a casa.
“Egli mi raccontava come le sue prime impressioni di carattere sociale si fossero formate assistendo dalle finestre della sua abitazione alla brutale repressione poliziesca di uno dei primi cortei del 1° Maggio… ammirava lo spettacolo grandioso di quella folta schiera ordinata e pacifica di uomini e di donne del ceto operaio che sfilava lenta e solenne cantando non più gli inni dei vecchi ideali, ma le aspirazioni nuove. Ad un tratto un gruppo di poliziotti, di questurini e di delegati colle insegne della patria si gettava contro quel corteo e lo scompigliava atterrando uomini e donne, mentre compariva sulla piazza uno squadrone di cavalleria colle sciabole sguainate..”
Questo attacco al pacifico diritto di riunione, che era stata la gloriosa rivendicazione statutaria della vecchia generazione, lo aveva colpito e da allora si era messo a riflettere profondamente, a osservare e studiare il mondo dei proletari e quella questione sociale che sollevava i furori della legge e dell’ordine. “Egli mi diceva che pensava di scrivere un libro per glorificare gli stenti e i diritti della folla povera ed innumerevole, io gli mostravo che c’era qualcosa di più direttamente utile da fare, dal momento che la lotta era dichiarata: mettersi di qua o di là. E questo era il mio ritornello favorito sul quale io picchiavo sempre, fin quando egli mi annunciò di essersi deciso per la vita e per la morte, iscrivendosi nella Sezione di Torino. E mantenne la parola fino alla fine” Le sue opere letterarie dopo d’allora hanno tutte la sua nuova ispirazione; il suo discorso del 1895 alla Associazione Universitaria di Torino è un invito alla gioventù a partecipare alla lotta socialista e dietro insistenza di Lazzari scrisse due articoli pubblicati poi sulla “Lotta di classe”.
Il Congresso di Reggio Emilia e quello clandestino di Parma
Nel settembre 1893 ebbe luogo a Reggio Emilia il secondo Congresso Nazionale, alla presenza di 300 delegati: qui prese il nome di Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, il programma fu completato e confermato, il Gruppo parlamentare vi ebbe il suo primo riconoscimento e la sua disciplina (fu questa un’innovazione, imitata poi dagli altri partiti quandi si formarono), il giornale Lotta di classe diventò l’organo centrale della organizzazione, la quale raggiungeva così la sua unificazione. Lazzari prese parte attivissima alla discussione ed ai lavori del Congresso.
Però, mentre nell’Italia centro-settentrionale gli effetti di questa rinnovata vitalità del Partito si traducevano in un intenso ed ordinato lavoro di educazione e di organizzazione proletaria con lo sviluppo delle Camere del Lavoro, la formazione di leghe e di federazioni operaie e contadine, la partecipazione a tutte le manifestazioni di attività legislativa e sociale (Lazzari rappresentò la Camera del Lavoro al Congresso Internazionale sugli Infortuni e Assicurazioni Sociali che ebbe luogo a Milano dal 1° al 6 ottobre 1894), in Sicilia a migliaia accorrevano ad iscriversi nei Fasci dei Lavoratori che sorgevano in ogni paese, manifestando il malessere generale e il malcontento del popolo con dimostrazioni che il governo fronteggiava schierando poliziotti, soldati e carabinieri.
Ne nacquero conflitti cruenti; le notizie di queste sanguinose repressioni provocarono altre dimostrazioni ugualmente represse colle violenze militari. Come epilogo il governo di Francesco Crispi decretò lo stato d’assedio in Sicilia e in Lunigiana; gli arresti avvennero a centinaia e i tribunali militari condannarono ad enormi pene i capi e i gregari del movimento proletario di quelle provincie. Per meglio fronteggiare la situazione, fu convocato il terzo Congresso Nazionale ad Imola per i giorni 7, 8 e 9 settembre 1894, ma il governo lo proibì, finché il 22 ottobre emanò un decreto di scioglimento di qualsiasi organizzazione del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Il giornale, che aveva pubblicato un suo articolo col titolo La commedia è finita, venne sequestrato e in seguito ritornò alla luce intestandosi soltanto come organo dei socialisti italiani.
Nonostante queste difficoltà, continuò il lavoro di propaganda e di proselitismo, approfittando di tutte le occasioni che si presentavano: Lazzari ebbe un contradditorio col neo-repubblicano Dario Papa; andò candidato nel collegio di Porto Maurizio; in un comizio elettorale tenuto nel ridotto del Teatro alla Scala presentò la candidatura del socialista siciliano Nicola Barbato; fu candidato provinciale a Busto Arsizio, tenendo varie e contrastate conferenze nei paesi del mandamento
Un intenso e continuo lavoro per il quale fu processato una volta insieme a tutti gli altri membri del Comitato Centrale, perché colpevoli di solidarietà col movimento dei lavoratori siciliani e poi, isolatamente, perché colpevole di aver fatto «l’apologia del delitto nel delinquente», presentando e sostenendo la candidatura di Nicola Barbato. Nel primo grande processo furono tutti condannati alla pena del confino, scontata durante l’anno seguente; nel secondo fu condannato lui solo a tre mesi di reclusione. In mezzo a questa febbrile attività persuase i compagni del Comitato Centrale a rifare le basi della organizzazione del Partito, prima di andare dispersi nei vari paesi dove erano stati confinati e infatti, a questo scopo, fu convocato il terzo Congresso Nazionale (quello che non si era potuto svolgere a Imola) a Bologna per il 13 gennaio 1895.
La polizia bolognese si mobilitò per impedire l’annunciata riunione, ma i rappresentanti, debitamente avvisati, si riunirono segretamente a Parma in una saletta privata. Erano in 64 delegati provenienti da ogni parte d’Italia: “restammo chiusi tutto il giorno, in piedi, al freddo, intorno ad un modesto tavolo dove avevano potuto sedere soltanto i dirigenti della discussione, mentre di fuori nevicava disperatamente”. Lazzari fece una sommaria relazione della situazione in cui si trovava l’organizzazione del Partito in seguito al suo scioglimento, espose i risultati che l’esperienza aveva forniti e a nome del Comitato Centrale presentò la proposta di confermare l’antico programma, scegliendo per titolo il nome semplice e comprensivo di Partito Socialista Italiano e sostituendo al sistema delle adesioni collettive quello delle singole adesioni personali raccolte in sezioni di almeno 10 iscritti. “La discussione avvenne rapida e cordiale: ci trovammo presto tutti d’accordo e alla sera ci separammo coi migliori propositi di portare ognuno nella sua regione la buona novella dell’avvenuta nostra ricostituzione”.
In effetti il criterio dell’adesione individuale, sul modello della socialdemocrazia tedesca (mentre il sistema delle adesioni collettive era caratteristico del laburismo britannico), fu motivata come prova dell’avvenuta maturazione nei singoli militanti di una consapevole coscienza di classe ma nacque da considerazioni di opportunità, come espediente per sottrarsi alla repressione crispina: separare dalle sezioni di partito le organizzazioni di classe significava consentire a queste un almeno formale agnosticismo politico che le collocava nelle retrovie della battaglia preservandone l’esistenza per tempi migliori. Turati, tra gli altri, era riluttante ad accogliere la formula per timore dell’irruzione nel partito di piccoli borghesi famelici e demagoghi, specialmente nelle sezioni dell’Italia meridionale
Polemiche sulla tattica
La repressione del governo Crispi provocò per contraccolpo la convergenza di tutta l’estrema (repubblicani, radicali, socialisti). La Lega per la difesa della libertà sorta a Milano nel novembre 1894 , di cui fu tra i promotori, fu il prodotto della rinnovata alleanza dei tre gruppi: radicali, repubblicani e socialisti. Durante il 1895 furono celebrati i processi contro le sezioni del Partito dei Lavoratori Italiani, e ad alcuni di questi fu chiamato come testimone: “ricordo quello che si svolse nella Pretura di Revere mantovano. I poveri nostri compagni si difendevano come potevano dalla minaccia di essere mandati a domicilio coatto: non facevano certo gli eroi, ma non sconfessavano le loro idee.” Fu in una di quelle circostanze che la Crìtica sociale pubblicò un articolo di aspro commento “Io mi credetti in dovere di scrivere una risposta nella quale facevo anche una pungente polemica contro le teorie dell’opportunismo politico e parlamentare che cominciavano a far capolino fra gli scrittori della suddetta rivista e lo portai a Filippo Turati” che si rifiutò di pubblicare il suo articolo. In effetti nel PSI iniziarono a delinearsi le “tendenze” come allora venivano chiamate le correnti, con il prevalere di quella riformista che varò in un consiglio nazionale del marzo 1895 il “programma minimo” e iniziò un lungo periodo di egemonia, che vide Lazzari in minoranza e all’opposizione fino al 1912.
Fu in quel tempo che la Lotta di classe ebbe bisogno di qualche aiuto finanziario straordinario e Lazzari, che altre volte ero ricorso per prestiti a Turati e Treves ma non voleva più farlo a causa dei dissensi, si fece prestare da Bertini, cassiere del disciolto Partito, una somma di 500 lire la quale, dato il decreto di soppressione, non doveva figurare nei registri che annualmente si dovevano presentare al Tribunale per la vidimazione. Dovendo presentare in Tribunale il bilancio annuale della Cooperativa editrice e volendo nascondere quell’operazione finanziaria compiuta colla non più esistente cassa del Partito, utilizzò un espediente contabile “mai più pensando che col progredire del tempo si sarebbe fatta di quell’innocuo incidente una spregevole accusa contro la mia reputazione.”
Il domicilio coatto a Borgataro
Venuta la fine del 1895 ricevette intimazione di partire per scontare a Borgotaro la pena dei cinque mesi di confino a cui era stato condannato un anno prima. Doveva partire il 24 dicembre e domandò invano una proroga. “Alla mattina del 24 un questurino mi condusse in stazione, mi diede un biglietto di terza classe e partii con un freddo cane mentre la neve cadeva a larghe falde”. Borgotaro era un antico grosso borgo dell’Alto Appennino parmense sede di Sottoprefettura. La popolazione del centro urbano si componeva, oltre che dei funzionari governativi e comunali, di pochi artigiani e commercianti, di alcuni professionisti, medici, avvocati, ingegneri e di molti contadini piccoli proprietari dei terreni e dei boschi circostanti, nonché di braccianti di campagna. La vita del borgo si svolgeva calma ed inerte senza preoccupazioni né passioni politiche o sociali: soltanto nei periodi elettorali saltavano fuori due partiti, uno monarchico-conservatore e l’altro repubblicaneggiante. “ A mezzo di un simpatico e sgangherato faccendone del paese che era chiamato col soprannome di Bombarda, trovai da affittare a 25 lire mensili una modesta cameretta e cominciai la mia vita di confinato…. i ferrovieri che avevano saputo del mio arrivo mi accoglievano fraternamente nella stazione. L’amico Bombarda mi aveva fatto conoscere, fra altri, un giovane curato di una lontana parrocchia di montanari e con lui, che era intelligente, istruito, spregiudicato e generoso, entrammo subito in grande amicizia.”
Nella tipografia del paese stampò l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Procuratore del Re guadagnando 25 lire; trovò da insegnare a tre o quattro giovinetti un po’ di lingua francese dietro compenso di 10 lire mensili e in questo modo fu in grado di lasciare alla moglie rimasta a Milano almeno la metà dello stipendio che l’amministrazione della “Lotta di classe” continuava a mandargli, considerandolo trasformato da amministratore in collaboratore e corrispondente. Cominciò un po’ di propaganda: affittata per poche lire una cameraccia abbastanza centrale nel paese, vi fece portare un tavolino e mezza dozzina di panche noleggiate e mandò ad una cinquantina di capi famiglia un invito per una conferenza privata sul tema: La questione sociale e i lavoratori.
“Vennero una ventina di persone che entravano ravvolte nei tabarri, silenziosi e diffidenti come congiurati. A metà del mio discorso cinque o sei se ne andarono annoiati e sonnolenti, ma vidi che i rimasti erano favorevolmente impressionati. Dopo alcuni giorni mandai un secondo invito col tema: I partiti politici e la rivoluzione sociale, la sala si riempi di un uditorio vivace ed animato che mi ascoltò con grande simpatia ed interesse e gli intervenuti se ne andarono commentando il mio discorso con quelle significanti invettive del dialetto parmigiano che significavano approvazione e consenso. Questo mi incoraggiò a mandare un terzo invito annunciando per tema: La classe operaia e il socialismo. La saletta, la scala e la strada si riempirono di gente impaziente ed eccitata che mi accolse plaudendo e mi salutò alla fine con grandi acclamazioni e colla promessa che si sarebbe iniziato subito il lavoro di organizzazione”
All’indomani, mentre ingenuamente pensava di gettare le basi di una sezione del Partito, venne il maresciallo dei carabinieri per notificargli un decreto della Procura che, vista la propaganda con cui continuava i reati per cui era stato condannato, convertiva la pena del confino in cinque mesi di carcere, comprendendovi anche la condanna per apologia compiuta durante le elezioni di Nicola Barbato a Milano, essendo quella sentenza diventata esecutiva. Al termine della condanna, scontata nel carcere locale, in una riunione di dieci amici fu costituita la sezione socialista e da allora in poi anche Borgotaro ebbe il suo piccolo nucleo di militanti
Il giurì per la gestione della “Lotta di classe”
Nel marzo 1896, quando era ancora detenuto, ricevette dal Consiglio d’Amministrazione della Lotta di classe una comunicazione che gli notificava il licenziamento dal posto che occupava come amministratore. “Fu per me un fulmine a ciel sereno: conoscevo le obbiezioni e le osservazioni a cui aveva dato luogo l’artificiosa scritturazione delle 500 lire prestate dalla cassa del Partito per chiudere alla meglio il bilancio da presentare al Tribunale, ma non avrei mai pensato che a quella questione si sarebbe data una simile soluzione, tanto più mentre stavo carcerato per un interesse di partito. Fu tanta l’amarezza di vedermi cosi bistrattato che per qualche giorno credetti di impazzirne: ne perdetti il sonno e l’appetito (…) Ritornai a Milano stanco ed avvilito senza risorse e senza occupazione. Mia sorella, a cui all’ospedale avevano mutilato una gamba, era venuta a morire in casa mia; mia moglie stentava a far fronte ai bisogni quotidiani; io mi trovavo mezzo ammalato per una sinovite che mi aveva fatto gonfiare le gambe e scoppiare un tumore in un piede e camminavo appoggiato ad un bastone” ma gli amici del V Collegio, dove era candidato per la prima volta Filippo Turati, in sostituzione di Nicola Barbato la cui elezione era stata annullata, lo trascinarono nella lotta elettorale e gli fecero tenere parecchi discorsi di propaganda.
Per guadagnare da vivere accettò di andare come segretario alla Camera del Lavoro di Monza che si stava allora costituendo e cosi abbandonò ancora Milano. A Monza guadagnava tre lire al giorno che divideva con la moglie rimasta a Milano per compiere gli studi da levatrice al fine di cercare un’altra occupazione visto che per rappresaglia politica gli industriali non le davano più lavoro.
In quelle condizioni, un giorno che era venuto a Milano per incarico degli operai monzesi, trovò in strada l’amico avvocato Luigi Majno il quale si mostrò indignato per il modo con cui era stato trattato da “Lotta di classe” e propose, per esaminare e risolvere la questione in modo onorevole, di nominare un giurì composto da lui, da Gnocchi-Viani per Lazzari e dal ragionier Castiglioni per il Consiglio della Cooperativa Lotta di classe.
Commesso viaggiatore del socialismo
Intanto era andato come rappresentante al Congresso Nazionale, che si teneva a Firenze nei giorni 11-12-13 luglio 1896. Era quello il primo congresso del ricostituito Partito Socialista Italiano (quarto nell’ordine dei congressi socialisti italiani) nel quale l’organizzazione del Partito aveva già potuto presentarsi con 442 sezioni, 19.000 iscritti e 27 settimanali. L’incoraggiante risultato del Congresso di Firenze aveva impegnato la Direzione del Partito ad affrettare i preparativi per la fondazione di un giornale quotidiano e Lazzari fu chiamato a far parte di una commissione composta dai compagni Cabianca, Della Torre, Ferri, Lollini, Morgari, Soldi.
“Incaricato di indicare chi poteva essere designato come direttore, dopo aver accennato alle ragioni che sconsigliavano la scelta di Turati e di Ferri, tanto favorevolmente noti nel giornalismo socialista ma già impegnati personalmente colla pubblicazione di proprie riviste, consigliai di scegliere Leonida Bissolati il quale, colla prefazione ad una edizione italiana del Capitale di Marx, aveva dimostrato quanto amore e quanto attaccamento egli avesse per la precisa interpretazione della dottrina rivoluzionaria e della politica antiborghese”.
Abbiamo qui una manifestazione dei limiti ideologici e dell’ingenuità politica che portarono Lazzari, avversario del riformismo, a proporre per la direzione dell’organo di indirizzo politico e di formazione dell’opinione del Partito il più conseguente e limpido dei riformisti, così come nel 1912 a indicare, sempre per la direzione dell’ “Avanti!”, prima Salvemini che era uscito dal Partito a destra e poi Mussolini che aveva già allora una collocazione autonoma più vicina ai sindacalisti rivoluzionari che agli “intransigenti”.
Bissolati accettò e si trasferi a Roma dove unitamente a Morgari si gettarono le basi del giornale “Avanti!” che vide la luce il 25 dicembre 1896 appoggiato da 3.000 abbonati e con una prima tiratura di 50.000 copie.
“In quanto al giurì, ogni tanto Gnocchi-Viani mi avvisava che c’erano in aria delle grandi ostilità contro dì me contro le quali egli lottava sempre, ma che si stavano esaminando i libri commerciali della Cooperativa ed a suo tempo si sarebbe pubblicato il lodo definitivo.”
Besana gli propose di entrare nella sua azienda come viaggiatore per il suo commercio di tessuti, con una provvigione del 3% e il rimborso delle spese. Accettò e così sul finire dell’estate 1896 partì col suo campionario, cominciando il giro del Bolognese, del Ferrarese, della Romagna, ecc. “Combinavo dei piccoli affari coi vecchi clienti della ditta, ma intanto facevo delle preziose conoscenze e alla sera ero pienamente libero coi pochi socialisti residenti nelle città e nei villaggi coi quali passavo cosi alcune ore felici di propaganda e di fraternità.(…) vita nomade, così contraria alle mie abitudini casalinghe — ho sempre odiato l’ambiente venale e trascurato degli alberghi e delle osterie — aveva pure le sue soddisfazioni. I viaggi duravano perfino quattro o cinque mesi perché io li avevo estesi fino alla Toscana, al Lazio e nell’Umbria e si ripetevano per ogni stagione estiva ed invernale: essi mi permettevano di percorrere tante zone e tante provincie che altrimenti non avrei mai veduto e di conoscere tanti preziosi elementi della vita politica italiana.”
Certo anche questa attività non era senza inconvenienti a causa della ostilità delle autorità: nel Mantovano e nel Polesine i contadini quando lo vedevano arrivare combinavano delle piccole riunioni di propaganda che avvenivano fuori dai centri, in località lontane e disperse, lungo gli argini; “a Sassuolo, per essere riuscito a tenere una riunione privata, fummo assaliti dai carabinieri; a Lugo fui processato e condannato per una conferenza tenuta in pubblico senza permesso, ma ciò non toglieva nulla alle attrattive di quella vita” perché dovunque passava sorgevano nuclei di aderenti o simpatizzanti e si formavano sezioni del Partito.
In generale ciò non era di ostacolo al lavoro commerciale che doveva fare, anzi in molti luoghi lo favoriva per l’interesse e la simpatia che la sua presenza destava nelle popolazioni, come avvenne a Comacchio, dove fu il primo a portare sulla pubblica piazza la parola e l’azione della propaganda socialista. Agli affari commerciali dell’amico Besana riuscì ad aggiungere quelli dell’amico Castiglioni di Busto Arsizio mediante un’amichevole combinazione che gli assicurava la possibilità di un guadagno maggiore. “Ero così riuscito ad assicurare un po’ di benessere alla mia vita domestica della quale però godevo così poco”.
Ricevette finalmente il testo del lodo emesso dal giurì sulla questione del licenziamento dall’amministrazione della Lotta di classe. Erano diverse pagine scritte da Filippo Turati e concludeva con l’approvazione e la ratifica dell’avvenuto licenziamento “mi colse un tale turbamento che credetti di morire e, col senso di essere costretto a sopportare una crudele ingiustizia, rifiutai di partecipare in qual siasi modo al Congresso annuale del Partito, che si teneva in Bologna dal 18 al 20 settembre 1897.”
In quel Congresso il Partito si presentava con 623 Sezioni e 27.381 iscritti: era un bel progresso che faceva giustamente inorgoglire i dirigenti. Nel 1897 era morto suo padre, colpito nel sonno da un violento colpo apoplettico, e prima che l’anno finisse era morta anche la madre.
Dimostrazioni per il pane
Era cominciato in quel tempo un periodo critico per la vita economica: l’annata agricola era stata scarsa, i grani e le farine mancavano sui mercati od erano monopolizzati dagli speculatori, il pane rincarava ogni giorno. Una sorda agitazione fermentava nelle città e nelle campagne e scoppiava in dimostrazioni.
Mentre la vita pubblica era cosi eccitata “arrivai a Camerino nelle Marche alla fine d’aprile 1898, e vi ero aspettato da diversi buoni clienti del commercio locale. Stavo appunto in una di quelle botteghe mostrando i miei campionari per la stagione estiva, quando vennero a chiamarmi per correre a vedere una dimostrazione per la farina. Per uno stradale saliva lentamente una strana processione che mi fece una impressione indimenticabile. Quattro grandi carri di farina, trascinati da quei magnifici grossi buoi bianchi infiocchettati di rosso che sono una mirabile specialità della agricoltura marchigiana, erano circondati da una immensa turba di uomini, di donne, di ragazzi armati di grandi bastoni e scortati da carabinieri a piedi e a cavallo: salvo i costumi pareva di assistere ad una scena dei vecchi tempi biblici. La popolazione cittadina guardava dall’alto quella scena grandiosa e all’arrivo del corteo prorompeva in grandi applausi e in rumorose acclamazioni.”
Col fermo di quel grosso carico di farina si era provveduto momentaneamente al bisogno del pane quotidiano e tutti erano esultanti. Si era saputo che uno dei grossi speculatori del luogo aveva venduto una importante partita di farina e la faceva condurre alla stazione ferroviaria. La povera gente era corsa in massa a fermare i carri per ricondurli in città: il sindaco aveva aderito a fare l’acquisto della farina per distribuirla poi ai cittadini bisognosi e tutti ritornavano gloriosi e trionfanti come se avessero vinto una grande battaglia: “Fui pregato dagli amici di dire due parole per l’occasione: tentai invano di schermirmi per non pregiudicare gli affari della ditta che rappresentavo, Delegato e questurini mi circondavano, mi si portò un tavolino sul quale venni fatto salire (…) feci una suggestiva e sommaria dimostrazione delle cause sociali e politiche per le quali si rende tanto tribolata la vita per la maggioranza dei cittadini, e conclusi affermando la necessità di dedicarsi a realizzare le conquiste e gli ideali del socialismo. Compiuta la mia giornata, mi recai a dormire nel solito albergo. Dormivo profondamente il sonno del giusto quando dei replicati colpi picchiati all’uscio della camera mi risvegliarono di soprassalto. Entrarono due Delegati di P.S. che mi invitarono ad alzarmi perché dovevo subito partire da Camerino. (…) Dall’uscio aperto entrarono quattro carabinieri col fucile in mano e circondarono il mio letto. Dovetti dunque alzarmi e vestirmi rapidamente.” Condotto ammnettato a Fabriano, venne accompagnato nelle carceri mandamentali. Si trattava di un arresto vero e proprio fatto senza regolare mandato dell’autorità giudiziaria.
Il Novantotto
Dopo essere transitato per il carcere di Ancona, fu condotto a Bologna e rinchiuso nel carcere di S. Giovanni in Monte “nessuno sapeva darmi qualche notizia dall’esterno. Soltanto una volta capitò di passaggio un giovinetto socialista di Bertinoro: da lui ebbi confuse notizie di ciò che succedeva per l’Italia, gli stati di assedio, i tribunali di guerra, e allora cominciai a capire che una qualche grossa burrasca si andava preparando anche contro di me.”
Una mattina venne condotto in stazione con la solita catena di prigionieri e arrivato a Milano portato al carcere di S. Vittore “osservato l’ambiente del raggio dove io ero rinchiuso vidi che dirimpetto a me vi era in una cella Filippo Turati, in un’altra Morgari, in un’altra ancora Bissolati, tutti tre deputati e allora cominciai a temere di essere coinvolto in un processo di natura essenzialmente politica”
Per effetto dello stato d’assedio si trovava in balia del Tribunale di guerra. Venne il giorno del dibattimento: in una grande sala del Castello era stata impiantata l’aula delle udienze e c’erano una ventina di imputati fra cui l’ex-deputato facchino Pietro Zavattari, il prete giornalista don Davide Albertario, la Kuliscioff, alcuni anarchici, alcuni democratici e repubblicani e parecchi socialisti
Le udienze furono parecchie e piene di incidenti e di sorprese: in generale gli accusati confermavano le proprie opinioni e i propri propositi con naturalezza e fermezza
Lazzari cominciò a contestare la validità dell’ interrogatorio facendo appello alle condizioni di fatto e di diritto in cui si trovava perché per la sua età, avendo raggiunto i 40 anni, e per la sua professione civile, non essendo mai stato soldato, non credeva di dover essere sottoposto alla giurisdizione militare ed invocava, come prescrive la legge, l’esame dei suoi giudici naturali. Allora il Presidente lesse i decreti dell’8 maggio che istituivano i tribunali di guerra. Prima della sentenza fu invitato a parlare se aveva qualcosa da dire in sua difesa “mi alzai facendo questa dichiarazione: «ho da dire che visto il mio alibi materiale perchè da cinque mesi assente da Milano, e visto il mio alibi morale perché per raggiungere l’emancipazione dei lavoratori io non ho mai detto di far le barricate, io mi considero estraneo ai recenti fatti avvenuti a Milano e siccome nemmeno i decreti dello stato d’assedio possono aver soppresso lo Statuto, io continuerò sempre a sostenere anche per i lavoratori il pieno esercizio del loro diritto di riunione, di associazione e di voto».
Il 23 giugno 1898 venne condannato a un anno di detenzione per aver istigato a delinquere i milanesi, mentre Zavattari e alcuni anarchici venivano assolti e su don Davide Albertario si scaricarono i furori dell’avvocato fiscale che aveva domandato per lui il massimo della pena, cioè tre anni di reclusione.
A Finalborgo
Vennero autorizzate le famiglie a venirli a salutare prima di partire, perché erano destinati al penitenziario di Finalborgo. “Mi ricorderò sempre la scena che avvenne quando fui condotto in presenza di mia moglie: cogli occhi pieni di lacrime ed ardenti per la febbre essa venne a baciarmi ed abbracciarmi, raccontandomi brevemente le gravi peripezie che aveva dovuto attraversare in quel burrascoso periodo di tempo.”
Alla sera vennero a prenderli, lo incatenarono con don Davide, e furono condotti alla stazione e immagazzinati nel vagone cellulare “ogni tanto si sentiva la voce di Valera che diceva: Ciao Romussi, o ciao Chiesi, o ciao Federici, o come state don Davide? “
Il penitenziario di Finalborgo era l’antico convento dei domenicani i quali, avendo in quel territorio una specie di giurisdizione, ne avevano fatto una sede feudale con spesse muraglie di pietra, grandi scaloni, una grossa torre quadrata.
Dopo tre giorni di detenzione cubicolare furono condotti nella quinta camerata: Chiesi, Romussi, Federici, don Albertario, Valera, Lazzari, Ghiglionca
Ben presto Romussi venne trasferito al penitenziario di Alessandria e a sostituirlo venne Giovanni Suzzani, un giovane di Lodi che curava l’edizione del giornale Sorgete “questo Suzzani era un mio grande amico ed ammiratore, tanto che ci chiamavamo zio e nipote ed ottenni di metterlo vicino a me.”
La Cassazione rigettò il ricorso e quindi dovettero subire le disposizioni del regolamento: furono rasati completamente, vestiti colla casacca dei reclusi, individuati non più col nome ma col numero di matricola. Lazzari incominciò allora a soffrire quegli strazianti mali di stomaco che dovevano poi sviluppare l’ulcera gastrica e portarlo all’operazione della gastroctomia, prima all’Ospedale Maggiore di Milano nel 1911, poi al Policlinico di Roma nel 1913.
La quinta camerata era chiamata la camerata dei giornalisti “e un giorno il direttore venne a dirci che, non sapendo a quale occupazione adibirci, come prescrive il regolamento, aveva chiesto ed ottenuto dal Ministero la facoltà di darci carta, penna e calamaio, onde occupare le nostre inerti ed oziose giornate. Fu una vera festa per tutti. Chiesi cominciò il suo interminabile lavoro dei romanzi d’appendice, don Davide scriveva i suoi quaresimali, Federici riprendeva i suoi studi della lingua inglese, Valera impiantava i suoi indiavolati romanzi popolari ed io, avendo ottenuto il materiale di disegno, passavo il mio tempo a utilizzare gli studi fatti all’Accademia di Belle Arti a Milano e ritraendo a colori e in bianco e nero l’ambiente, le persone, le cose da cui eravamo circondati”
Vennero le feste di Natale, e per la fine dell’anno comparve il primo indulto per coloro che avevano una condanna non superiore ai due anni. Cinque uscirono, ma rimasero in tre, cioè, Chiesi, don Davide e Lazzari, perché recidivo.
In seguito ai rapporti del direttore il Ministero decise di migliorare la condizione dei detenuti che potevano provvedere al vitto all’esterno: cosi cominciò un nuovo tenore di vita “Alla mattina Chiesi faceva la nota del pranzo e della cena consultando don Davide che, come prete, doveva essere il più competente e la consegnava al sottocapo: a mezzogiorno veniva dal ristorante un gran cesto (…) in quanto a me il male di stomaco che faceva continui progressi mi impediva di godere la fraterna liberalità degli altri due.
La voce della sua abilità nel ritrarre e disegnare le persone e le cose pare che fosse arrivata come un scandalo all’orecchio del direttore, perché un giorno venne un sottocapo, raccolse le carte, le matite, i colori e se li portò via. Dopo tre giorni gli vennero restituite ma non i lavori, i ritratti, le prospettive.
In febbraio venne citato davanti al Tribunale di Ancona, per render conto di quanto aveva fatto a Camerino un anno prima e fu condotto in vagone cellulare prima a Genova, poi a Voghera, Piacenza, Bologna sempre ammanettato e incatenato in compagnia dei reclusi e dei forzati che viaggiavano da un penitenziario all’altro.
Arrivato ad Ancona reclamò anche là le concessioni di passeggio, di vitto, di lavoro di cui godeva a Finalborgo. “Mi misero in una bellissima cella posta nella parte più alta di quell’enorme edificio carcerario: vi erano due finestre, una sul mare venne lasciata aperta e potevo ammirare cinquanta chilometri di spiaggia fino a Sinigaglia, fino a Pesaro. Fra i socialisti del luogo si era sparsa la voce del mio processo e perciò mi arrivavano cibi, libri e lettere in abbondanza.”
In prima istanza fu condannato a tre mesi di detenzione, ricorse in appello e, mentre era in attesa della udienza, venne accompagnato nella sua cella perché condannato a 75 giorni per offese al re il giornalista repubblicano Domenico Barillari. “Era un brav’uomo, all’antica, che seguiva la sua politica in modo un po’ superficiale e si copriva sempre il capo con un imponente cappello a cilindro, come se ciò lo dovesse rendere più rispettabile e più venerabile. Per le feste di Pasqua, fu una gara fra socialisti e repubblicani per mandarmi in dono quelle famose pizze marchigiane per le quali bisogna avere uno stomaco di ferro”.
Venne il giorno dell’appello e il deputato Berenini[1] venne da Parma a difenderlo; però lui fece un discorso per dimostrare che nell’azione svolta a Camerino non vi era alcun reato. “Ricordo che parlai con tanta eloquenza e passione che i giudici, i carabinieri, il pubblico mi guardavano con ammirazione e infatti faceva un grande effetto la vista di un recluso che perorava in tal modo la propria causa. Venni assolto e quando mi ricondussero in carcere, ammanettato e incatenato, i carabinieri che stavano cenando si alzarono in piedi e mi obbligarono a bere con loro facendo un brindisi al mio discorso che dicevano migliore di quello dell’avvocato”
Per scontare la restante pena nel carcere di Finalborgo ottenne di viaggiare in traduzione ordinaria e passando per le stazioni di Romagna, potè salutare degli amici che salirono sul treno per tenergli compagnia.
Rivide con piacere i due compagni di pena Gustavo Chiesi e don Davide Albertario coi quali aveva trascorso un anno e da cui a malincuore si separò arrivato alla fine della condanna.
Prima di essere rilasciato venne chiamato nell’ufficio del segretario “Era costui un napoletano il quale mi disse che aveva studiato all’Università e sapeva cosa è la balorda dottrina del socialismo, per cui mi consigliava di abbandonare simili malsane teorie … io gli risposi seccamente che non saremo noi Milanesi ignoranti che andremo a prendere lezione di socialismo dai Napoletani sapienti, perché noi nella vita sociale facciamo già la pratica militante della politica socialista”
“Erano le 11 del 29 aprile 1899, il portone si aprì completamente ed io uscii finalmente all’aria libera. Davanti al portone si stendeva un piazzaletto da villaggio: in fondo, lungo una fila di alberi, vi erano delle donne e dei bambini che stendevano e raccoglievano della biancheria e ridevano e cantavano… Io rimasi a bocca aperta e alla vista di quelle voci e di quello spettacolo di dolcezza e di innocenza, dopo tanto tempo … «Andate via, non si può fermarsi qui», mi gridò la sentinella, picchiando sui sassi il calcio del fucile. Mi allontanai sbalordito”.
Propagandista e candidato
Uscito di prigione, fu eletto membro della commissione centrale del PSI e si pronunciò «per necessità» a favore dell’alleanza con democratici, radicali e repubblicani nelle elezioni amministrative di Milano, che si tennero sul finire del 1899. L’appoggio e l’attivissima opera di propaganda da lui svolta a favore dei candidati «popolari» contribuirono alla loro vittoria
Dopo che non si era presentato al congresso di Bologna del settembre 1897 per i motivi che abbiamo visto (il lodo sul licenziamento da “La lotta di classe”) non fu eletto nella Direzione neppure ai successivi congressi di Roma e di Imola (rispettivamente settembre 1900 e 1902) che videro la prevalenza dei riformisti, e non rientrò in gioco a livello nazionale che al Congresso di Bologna dell’aprile 1904, quando prevalse la corrente “integralista” di Enrico Ferri e Oddino Morgari.
Nel gennaio 1900 costituì il circolo elettorale socialista per il sesto collegio di Milano, considerato “sicuro”, con l’evidente intenzione di presentarsi come candidato per le imminenti elezioni politiche, ma fu invece presentato – pare su pressioni di Turati e di Anna Kuliscioff – lo storico dell’antichità Ettore Ciccotti, che infatti venne eletto. Fu candidato invece a Voghera e a Varallo Sesia, collegi “difficili”, e non risultò eletto.
Enrico Ferri, già in polemica con Treves e Turati sui metodi di lotta e di propaganda, colse l’occasione per prendere le difese di Lazzari sulle colonne dell’‘Avanti!. Turati rispose con una lettera, pubblicata sull’ “Avanti!” del 13 novembre 1900 in cui riesumava le accuse per gli ammanchi nell’amministrazione della “Lotta di classe”.
In seguito a ciò Lazzari presentò le sue dimissioni, accettate dopo lunghe discussioni dalla commissione esecutiva della federazione socialista milanese. Nonostante ciò, tenne numerose conferenze di propaganda in diverse città italiane, fra cui Grosseto, Massa Marittima, Città di Castello, Macerata e Cesena, conferenze di cui venne data notizia con un certo rilievo anche dai giornali socialisti. Né certamente Lazzari perse in credibilità nei confronti della base operaia del partito: ne è conferma il fatto che pochi mesi dopo, il 2 giugno 1901, venne eletto presidente del comizio promosso dalla CdL di Milano a favore dei muratori in sciopero. E il 7 luglio, a Milano, in un comizio di protesta contro l’eccidio di Berra manifestò pubblicamente e con linguaggio violento il suo dissenso dalla linea turatiana, denunciando i pericoli dell’«affinismo», del parlamentarismo e del «ministerialismo».
Enunciazione della linea politica
Nell’imminenza del congresso di Imola, nel 1902, pubblicò un opuscolo, La necessità della politica socialista in Italia, in cui chiariva la propria linea politica all’interno del partito e criticava più o meno duramente le posizioni di Turati, Arturo Labriola, Francesco Saverio Merlino e Ferri. Quest’opuscolo rimase la base, per tutti gli anni successivi, della politica del vecchio operaista e la giustificazione teorica della sua “intransigenza” .
Per Lazzari infatti si poteva giungere al socialismo solo attraverso una «rivoluzione meditata e cosciente, da non confondersi con i colpi di mano o i colpi di testa del rivoluzionarismo empirico convenzionale», che implicava necessariamente una «battaglia profonda e continua sorretta da una inflessibile politica di guerra» nei confronti della borghesia. Da ciò derivava la necessità della lotta di classe ad oltranza e il rifiuto della «lentezza e gradualità» del metodo riformista; il non coinvolgimento programmatico nel processo di formazione di una legislazione favorevole al proletariato, poiché essa allontanerebbe la politica dei socialisti dalla sua vera e specifica azione di guerra antiborghese; l’intransigenza assoluta nei confronti delle alleanze con i partiti borghesi, ad eccezione di quelle sul piano parlamentare occasionalmente utili; l’esclusione della possibilità di votare bilanci o mozioni di fiducia a ministeri della borghesia. In conclusione la politica socialista non doveva essere «una specie di olio dato alla macchina governativa dello Stato borghese per il suo migliore funzionamento, ma una specie di sasso introdotto nei suoi congegni per rendere evidente e necessario l’intervento del fabbro che la può spezzare e ricostruire». L’opuscolo, dopo queste critiche, terminava con un appello, profondamente sincero, all’unità del partito.
Intransigentismo e sindacalismo rivoluzionario
Dopo il congresso di Imola, conclusosi con la vittoria dei riformisti, a Milano si ebbe un avvicinamento tra Lazzari e Arturo Labriola, che vi si era trasferito da Napoli per dar battaglia per la conquista della segreteria del partito e a tal fine aveva fondato il periodico “Avanguardia socialista” cui Lazzari collaborava e di cui divenne amministratore nel 1903.
Frutto di questo avvicinamento fu anche la costituzione, nel settembre 1903, del Comitato d’azione socialista economica, fondato dal gruppo «operaista» milanese (Lazzari, Suzzani, ecc.); ne erano esclusi i sindacalisti rivoluzionari di “Avanguardia socialista”, che pure ne erano in parte gli ispiratori. Essenzialmente lo scopo del comitato era di stimolare una maggior fusione tra movimento rivendicativo e istanza politica e promuovere una maggiore compenetrazione tra l’azione del sindacato e l’azione del partito.
Nel 1903 entrò a far parte, come delegato dell’Unione impiegati, del consiglio generale della Camera del Lavoro, a maggioranza riformista. Sempre nel 1903, in seguito al fallimento dello sciopero dei ferrovieri delle linee Nord di Milano, biasimò a nome del Comitato d’azione socialista economica, l’operato della Camera del Lavoro ribadendo che era necessario «ritornare ai princìpi della lotta di classe e non dei vieti opportunismi e dei piccoli miglioramenti immediati» e trascinando con sé gran parte della base operaia milanese.
Nel febbraio 1904 al congresso regionale lombardo di Brescia diede il suo appoggio alle posizioni sindacaliste rivoluzionarie di Walter Mocchi che prevalsero, e al congresso nazionale di Bologna dell’aprile dello stesso anno, criticò l’operato dei riformisti, si pronunciò contro ogni tipo di collaborazione governativa e diede il suo appoggio alla mozione Ferri.
Nel discorso tenuto all’Arena durante lo sciopero generale del settembre 1904 lanciò la parola d’ordine della continuazione dello sciopero sino alla caduta del ministero. Sempre nel 1904 si presentò candidato alle elezioni politiche nel 1. collegio di Milano, ad Affori, a Crema e a Novara senza riuscire eletto, essendo sempre presentato in collegi non “sicuri”.
Negli anni successivi continuò nell’opera d’organizzazione della base ed a tener conferenze in varie località d’Italia. In questi anni venne sempre rieletto membro della commissione esecutiva della federazione socialista milanese.
Si possono citare alcuni avvenimenti quali la nomina a membro del Segretariato nazionale della resistenza nel marzo 1906 (che fu l’embrione della CGdL); l’ennesima sconfitta subita nelle elezioni politiche suppletive del 1906, quando si presentò come candidato di parte sindacalista, insieme a Labriola, contro le candidature Treves e Turati; la nuova sconfitta alle elezioni politiche del 1909 come candidato nel collegio di Novara; la fondazione a Milano nel giugno 1907 insieme a Filippo Corridoni del circolo anticlericale Giordano Bruno; il breve periodo di corrispondente da Milano dell’ “Avanti!” (novembre 1906-agosto 1907). Nel congresso nazionale del 1906 a Roma fece confluire tatticamente il proprio voto sulle mozioni dei sindacalisti rivoluzionari, senza condividerne la linea politica.
Usciti i sindacalisti rivoluzionari dal Partito, al congresso di Firenze del 1908 fu relatore con Oddino Morgari e Giuseppe Emanuele Modigliani sul tema Tattica e programma per le prossime elezioni politiche; a quello di Milano del 1910 fu relatore con Pompeo Ciotti sul tema dei rapporti fra gruppo parlamentare e partito. Ribadì costantemente la condanna del ministerialismo e della politica delle alleanze con i partiti democratici; ritornò ripetutamente sul concetto che la politica del partito, pur esplicando un’azione generale di difesa degli interessi immediati dei lavoratori, doveva essere volta a «combattere il funzionamento e l’incremento delle istituzioni politiche ed economiche ».
Diede allora il suo contributo alla formazione della frazione “intransigente”, di cui si è già trattato in un paragrafo della biografia di Giovanni Lerda.
“I princìpi e i metodi del Partito socialista italiano” (1911)
Nell’opuscolo illustrò e rivendicò le tesi del programma costitutivo del partito al Congresso di Genova del 1892, il cui cardine era la visione della società in classi: “Da un lato la borghesia dominante per mezzo delle sue istituzioni, in nome del suo diritto privato di proprietà, e dall’altro i lavoratori sfruttati e sacrificati a beneficio della formazione e dell’accumulazione capitalistica”[2]
Proprio l’enunciazione chiara e decisa di quella tesi aveva permesso al Partito fino al 1900 di rafforzarsi e di svolgere una funzione egemonica nei confronti delle altre tendenze presenti nel movimento operaio, dagli anarchici ai repubblicani e perfino ai democratici, impegnati sia pure confusamente a contrastare il rafforzamento del blocco monarchico-cattolico.
Dopo il Congresso di Roma del 1900 la politica delle alleanze varata dai riformisti e l’appoggio fornito a indirizzi di governo avevano portato alla ripresa d’iniziativa delle altre formazioni di sinistra e alla nascita del sindacalismo rivoluzionario con la scissione del 1907.
Contro la tendenza ad attribuire allo Stato il carattere di rappresentante degli interessi della collettività e della nazione ricordava la definizione classista delle istituzioni basate sul regime della proprietà privata e quindi dello Stato, che sanciva il riconoscimento giuridico del predominio di classe, lo conservava e garantiva con la forza.
Il programma del 1892, propugnando una lotta contro gli interessi e le istituzioni della classe dominante, aveva escluso ogni concezione educativa, filantropica e umanitaria del socialismo. L’azione socialista non poteva limitarsi a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori – obiettivo comune anche ad altre forze politiche -ma doveva mirare ad abbattere tutti gli ostacoli che si frapponevano all’emancipazione del proletariato:
I lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione, se non mercé la socializzazione dei mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione. Il riformismo parla soltanto di elevamento del proletariato, sostituendo così un concetto empirico ed occasionale al principio ideale e continuo della nostra storia..
L’opuscolo consente di individuare le idee fondamentali della frazione intransigente, che, al di là della loro capacità di aggregazione in senso antiriformista, non giunsero mai a uno sviluppo teorico completo. Almeno una parte di essa abbandonò la rivendicazione del ritorno al programma del 1892, fino a chiederne il definitivo abbandono al Congresso di Bologna del 1919.
Se l’interpretazione lazzariana del programma originario del partito come di un «piano completo ed organico di azione saldamente ancorato alla dottrina socialista» era destinata a non reggere a lungo, ebbe tuttavia influenza oltre quella fase l’idea di impostare la critica del riformismo tornando alle basi del socialismo, intendendo la fedeltà ai postulati programmatici generali come condizione irrinunciabile di omogeneità e forza politica, in quanto da essi discendevano chiare indicazioni di metodo, distintive dell’azione socialista rispetto a quella di ogni altra forza politica, e l’intransigente applicazione di tali indicazioni avrebbe permesso al partito di riscoprire la propria ragion d’essere.
Un postulato essenziale era l’organizzazione del proletariato in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti. Nel momento stesso in cui sacrificava questa prerogativa il Partito socialista «cessa[va] di rappresentare la classe proletaria e diventa[va] un qualunque partito di borghesia per il quale non vale[va] la pena di sacrificarsi o appassionarsi».
Di qui la critica ai blocchi elettorali coi partiti “popolari” e, soprattutto, alla condotta del gruppo parlamentare, che sistematicamente aveva confuso la propria azione con quella dell’estrema sinistra della Camera e non si era reso conto che gli uomini di questa – egli citava Crispi, Cairoli, Nicotera, Fortis, Zanardelli, Sacchi e Marcora – una volta saliti al potere, diventavano i più accaniti difensori dell’ordine costituito.
In questo modo il gruppo parlamentare socialista ha talmente perduto ogni suo carattere ed ogni sua funzione distinta, da non avere più nemmeno la forza di reggersi come organismo speciale in mezzo al parlamento della borghesia. I singoli deputati votano discordi fra di loro e la loro azione in Parlamento è senza alcun effetto di propaganda per l’orientamento e la formazione di una buona opinione socialista.
Il programma del partito, compendiato nella formula della «conquista dei poteri pubblici», non doveva far perdere di vista il fine dell’azione socialista “chiaramente indicato dal compito di espropriazione economica e politica che noi dobbiamo esercitare per mezzo di essa contro la classe dominante, mediante un’opera di trasformazione dei poteri pubblici per togliere ad essi il carattere che hanno di mezzi di oppressione e di sfruttamento”.
Venendo poi alla distinzione del potere statale in due grandi categorie, quelle del governo centrale e dell’amministrazione locale (Province, Comuni ed enti pubblici), secondo Lazzari il partito doveva conservare intatta (senza subire l’influenza dell’ambiente parlamentare) la funzione di rappresentante dei diritti sociali dei lavoratori, non potendosi permettere nessuna rilassatezza nei confronti dei poteri esecutivi del regime borghese e meno che mai partecipando all’esercizio di quei poteri, fatto che lo avrebbe reso corresponsabile di misure inevitabilmente volte alla conservazione dello stato di cose esistente. La conclusione di Lazzari tuttavia non era così chiara come potrebbe sembrare: “Non vuol dire con ciò che la quistione della partecipazione al potere non rimanga una pura e semplice questione di metodo, perché verificandosi il processo storico della dissoluzione politica, possono determinarsi anche nella vita della borghesia dei momenti rivoluzionari, nei quali potrà interessare al partito socialista di aiutare i vari strati borghesi più avanzati nei loro sforzi diretti a demolire gli avanzi del passato dominio.
Egli ammetteva l’assunzione di responsabilità da parte dei socialisti nelle amministrazioni locali: “È questa la sola concessione che noi possiamo fare verso le istituzioni del potere borghese, perché la trasformazione dei poteri amministrativi dipende più dallo spirito che li può animare, che non dal modo del suo funzionamento come è invece proprio del potere governativo”.
Quanto all’azione economica, Lazzari, una volta prese le distanze dal sindacalismo rivoluzionario, richiamava il dovere del partito di appoggiare tutte le lotte dei lavoratori, sconfessando l’atteggiamento della direzione riformista, che aveva contrastato vari scioperi e varie proteste, privilegiando essenzialmente il movimento cooperativo e le riforme dell’assistenza e della previdenza sociale.
Le cooperative di consumo, di lavoro, di credito, non rappresentavano una forma specifica di lotta proletaria e potevano svilupparsi anche al di fuori della lotta di classe anzi partecipavano per lo più a quello spirito di conciliazione e pacificazione che distingueva la politica dei moderni partiti borghesi: Più noi ci terremo lontani da queste insidiose forme di azione, più saremo fedeli ai principii ed ai metodi del nostro programma, e più avremo aperte le vie dell’avvenire socialista.
Urgeva quindi ritornare alla lotta per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, campo specifico di azione e aggregazione dei proletari, in quanto solo nel vivo dello scontro tra le componenti economiche della società la classe sfruttata avrebbe potuto prendere coscienza dell’abisso che la divideva dalle altre, della natura del regime borghese e delle sue istituzioni e della necessità di trasformarlo. A fianco dei risultati che la lotta sul terreno economico portava inevitabilmente con sé, si producevano «incalcolabili effetti morali favorevoli a diffondere nel mondo quei principii di fratellanza e di solidarietà» che il regime della proprietà privata contrastava «nel fatto, pure in mezzo alle teoriche ed astratte proclamazioni della filosofia borghese». La causa ultima della crisi socialista doveva essere individuata nell’involuzione delle teste pensanti del partito. Si trattava di uomini giunti al socialismo più per l’impotenza degli altri partiti che per la formazione di una convinzione indipendente e spregiudicata:”lentamente essi ritornavano nella prima illusione, nella speranza di affrettare un successo che solo le forze nuove ed i nuovi metodi avevano la capacità e la volontà di realizzare cominciarono a inventare la mancanza nel nostro paese di quegli elementi di materialismo economico che sono la base e la forza di un vero movimento socialista e scesi di gradino in gradino per la via delle transazioni politiche, vennero fino al punto di dichiarare sfatate, morte e sepolte le formule dottrinarie che Carlo Marx aveva con tanta sapienza elaborate come la base incrollabile dell’azione socialista. Questi uomini, approfittando della loro posizione eccezionale e valendosi di ogni mezzo, hanno continuato per la loro via, senza curarsi dello stato di disgregazione, di malcontento e di decadenza che lasciavano dietro di sé: trionfavano le loro persone ma svaniva lo spirito collettivo che aveva destato tanta ammirazione e tante speranze. Le azioni del partito non sono più determinate dalla interpretazione del nostro programma e delle regolari discussioni delle assemblee, bensì della imposizione delle persone e dei gruppi per via di sorprese, di violenze e sopraffazioni”.
Segretario tra “settimana rossa” e intervento. “Né sabotare né aderire”
Dopo il congresso di Reggio Emilia del 1912 vinto dalla corrente intransigente rivoluzionaria, fu nominato segretario del partito (carica che terrà per sette anni, fino 1919). A quel punto sciolse gli impegni professionali in qualità di commesso viaggiatore con la ditta Enrico Besana e si stabì definitivamente a Roma.
Si fecero evidenti, con l’assunzione della più importante carica del partito – tra l’alto in un periodo storico critico come quello tra l’impresa libica e l’intervento nella Grande guerra – i suoi limiti personali, culturali, politici.
Uno dei suoi primi atti fu quello di offrire la direzione dell’Avanti!, che era lo strumento di indirizzo politico e di formazione dell’opinione del partito, a un uomo ormai fuori dalle sue fila e che si autodefiniva «più riformista dei riformisti», Gaetano Salvemini, con una ingenuità evidente. Nella ricerca dell’uomo nuovo, che avrebbe dovuto dare maggiore slancio alla corrente, da insediare alla direzione del giornale la scelta cadde, dopo un breve periodo di direzione di Giovanni Bacci, su Benito Mussolini.
Di fronte alla guerra libica l’opposizione fu netta; egli svolse, unitamente al suo gruppo, un’azione di stimolo e di coordinamento delle manifestazioni di protesta antimilitarista espresse dalla base. Ma dell’opposizione alla guerra libica più che uno strumento di lotta contro il capitalismo borghese e il nazionalismo imperialista, farà un’arma contro i riformisti coinvolgendo nella responsabilità per la guerra «quella politica socialista che da dieci anni, invece di compiere la sua funzione di corrosione e di lotta contro tutto il meccanismo delle istituzioni borghesi, aveva favorito e secondato tutte le combinazioni e le trasformazioni ministeriali».
Lazzari affrontò il pesante compito della direzione del partito basandosi pressoché esclusivamente sul dogma dell’intransigenza e sull’appoggio alle lotte economiche della base. Vi fu in lui un’attesa quasi fatalistica dell’inevitabile disgregazione del regime politico della borghesia e una fede messianica nell’altrettanto inevitabile avvento del socialismo. Gli fu dunque sostanzialmente estraneo il problema di come influire sugli avvenimenti, di come agire nel momento della dissoluzione dello Stato borghese.
Allo scoppio della guerra mondiale il Partito, che sotto la sua direzione, nonostante l’immobilismo, aveva avuto un grosso incremento numerico, si trovò isolato, impossibilitato a manovrare con le altre due forze nautraliste, i giolittiani e i cattolici, mentre le tradizionali alleanze con le altre forze di sinistra, repubblicani e radicali, venivano meno e la borghesia intellettuale si orientava verso la guerra.
Il governo agiva pesatemente per impedire le manifestazioni pacifiste e per scioglierne i cortei, lasciando agli interventisti le piazze: un trauma per chi era abituato ad averne il controllo, tanto più per un Partito che restava vincolato a metodi legalitari di lotta, ad una concezione pacifista e non rivoluzionaria dell’antimilitarismo, incontrando perciò sempre maggiori difficoltà nell’arginare l’offensiva degli interventisti
Il suo atteggiamento fu di netta opposizione a ogni partecipazione alla guerra e quindi di durissima condanna di ogni interventismo. Nell’ottobre 1914 sostituì, insieme a Bacci e Serrati, Mussolini alla direzione dell’Avanti!. Nel novembre pronunciò l’atto di accusa contro Mussolini, espulso per indegnità politica e morale.
Sull’Avanti! delineò l’atteggiamento in caso di mobilitazione militare: neutralità e tranquillità del partito per una guerra difensiva; opposizione e resistenza per una guerra offensiva. Nel corso di una conferenza a Osimo, a chi gli chiedeva cosa avrebbero fatto i socialisti in caso di intervento, rispose che avrebbero dovuto “assoggettarsi agli eventi , sicuri che a suo tempo si verificherà quello che avvenne tra i pagani e i cristiani, e cioè che dopo tante lotte cruente seguì la pacificazione degli animi” . La rassegnazione assume quì dimensioni cosmiche, sul terreno politico è la passività eretta a comandamento supremo.
Nel maggio 1915 a Bologna, nella riunione congiunta della direzione del partito, del gruppo parlamentare e dei responsabili della CGdL, Lazzari coniò la formula del «né aderire, né sabotare», in polemica con Serrati propenso ad un atteggiamento più deciso e combattivo, che aveva lanciato l’appello per contrapporre “dimostrazione a dimostrazione, comizio a comizio…non attendere il corso degli eventi in musulmana remissività”. Il 29 agosto diramò un comunicato invitando le organizzazioni a “fare argine e impedire che le esaltazioni sentimentali degli altri partiti potessero traviare e travolgere la chiara coscienza internazionalista del proletariato italiano”. Nel corso della guerra si adoperò per l’unità del partito e per l’equilibrio delle tendenze, pronunciandosi contro l’ «insurrezionalismo» e condannando i cedimenti patriottici dei riformisti, da Turati a Rigola.
In campo internazionale partecipò ai convegni di Zimmerwald e di Kienthal. Il 21 settembre 1916 in un comunicato invitò le federazoni e le sezioni a fare oggetto di approfondito dibattito le decisioni del convegno di Zimmerwald.
Nel corso del 1917 si andò organizzando all’interno dell’intransigentismo una frazione “massimalista” che censurava la sua linea del “nè aderire nè sabotare”, cui rispose che “tenuto conto della nostra dottrina ripugnante ai metodi di sabotaggio, che sono per loro natura individuali e non potrebbero essere diversamente, data la condizione di minoranza in cui si trova il movimento nostro anche nel nostro Paese, io vi domando se e come voi possiate sentire il coraggio di sostenere e di fare un’azione diversa da quella formulata nella tesi che voi ripudiate. Il Partito socialista ha una tradizione di miglioramento sociale e di bontà e non può mettere a suo carico la responsabilità di aumentare i danni e i dolori.[3]
Il 12 settembre 1917, inviò una circolare riservata e personale ai sindaci socialisti perchè contribuissero “con concorde atto di protesta ” ad imporre al governo il punto di vista del gruppo parlamentare socialista contro “un terzo inverno di guerra”. Due le ipotesi avanzate: “rassegnare le dimissioni ad un ordine della Direzione” oppure “provocare le dimissioni in massa” con una dichiarazione comune. Il 18-19 novembre 1917 partecipò alla riunione della frazione intransigente a Firenze, presenti Serrati, Bordiga, Gramsci, Terracini.
Nuova carcerazione
La circolare “riservata e personale” venne naturalmente conosciuta dalle autorità e, in base al decreto Sacchi[4], fu arrestato e condannato per propaganda disfattista. Rimase nel carcere prima di Regina Coeli e poi di Velletri dal febbraio al novembre 1918; durante la detenzione scrisse alcuni appunti di cui riportiamo due brevi brani: “ho meditato lungamente sulla dura sentenza che mi ha colpito e mi sono convinto che essa non è un giudizio, ma una rappresaglia politica contro il partito. Infatti il P.M. si è espresso così: «Erano mezzi di pressione che i dirigenti del partito volevano esercitare su coloro che dopo Caporetto erano rimasti turbati se continuare o no nel contegno di rigida intransigenza in rapporto alla guerra. E questo completa la figura del reato che si è convenuto chiamare disfattismo”. Come se la disfatta fosse nelle intenzioni e nei propositi del partito! Noi sappiamo che la disfatta vorrebbe dire un aggravamento dei mali del popolo italiano, e nemmeno ci potrebbe illudere come un mezzo adatto allo scoppiare di una rivoluzione perché noi vogliamo veramente la morte del dominio borghese, ma deve essere una morte naturale e non una morte violenta, per assicurare il successo e la introduzione del regime socialista. Forse in ciò sta il danno e l’errore, non volontario del resto, di Lenin”[5]”II governo socialista di Pietrogrado ha firmato la pace colla Germania. Io non l’avrei firmata, ma fin dal primo momento delle trattative avrei decretato lo scioglimento dell’esercito. Dichiarando la cessazione dello stato di guerra avrei lasciato avanzare l’esercito tedesco e l’avrei aspettato di piede fermo a Pietrogrado protestando contro la violenza dell’occupazione che nessun motivo poteva giustificare. Queste note evidenziano l’incomprensione della realtà profondamente mutata dalla guerra e dalla rivoluzione russa, l’incapacità di dare alla formula «né aderire, né sabotare la guerra» un contenuto concreto che orientasse il movimento operaio italiano nella sua condotta di fronte alla guerra. Tra la posizione più duttile di Turati e quella insurrezionale di Bordiga, Lazzari ha l’unico merito di coagulare le masse socialiste in una fedeltà morale ai principi dell’internazionalismo proletario ma non riesce a prospettare uno sbocco politico. I giudizi che formula sugli avvenimenti russi denunciano i limiti di una solidarietà puramente morale che non si prospetta il ruolo concreto che il proletariato italiano potrebbe assumere in difesa della rivoluzione russa. Né la rivoluzione bolscevica suscita in lui alcuno stimolo all’analisi delle possibilità nuove che essa offre alla lotta rivoluzionaria del proletariato italiano ed alle quali commisurare la validità della propria linea politica tradizionale.
Nel dopoguerra; la Terza Internazionale
Nelle elezioni del 1919 fu eletto deputato nei collegi di Milano e Cremona; nel 1921 fu rieletto a Milano, Pavia e Cremona e mantenne tale carica sino al 1926; nel 1920 nelle elezioni amministrative di Roma fu eletto consigliere comunale. Al congresso di Bologna dell’ottobre 1919 si espresse a favore della rivoluzione, ma da realizzare colla sola arma dell’intransigenza con l’esclusione della violenza pregiudizialmente premeditata e programmata; sulla mozione di Lazzari confluirono i voti dei riformisti. L’esperienza della rivoluzione bolscevica non modificò le sue precedenti convinzioni e non lo indusse ad una revisione critica della validità della sua precedente linea politica. Al congresso di Livorno del gennaio 1921 confluì nella mozione massimalista e rimproverò gli oratori dell’Ordine nuovo di intellettualismo e di aridità del sentimento. Dopo il viaggio a Mosca del giugno 1921 per perorare l’accettazione dell’adesione del PSI alla III Internazionale e i colloqui avuti con Lenin, Lazzari si convinse della necessità dell’espulsione dei riformisti dal partito, ma non dell’avvicinamento alla linea dei comunisti e tanto meno della fusione col PCI. Nel congresso di Milano dell’ottobre 1921 la mozione di Lazzari per l’accettazione delle condizioni di adesione alla III Internazionale rimane in schiacciante minoranza. Avvenuta infine l’espulsione dei riformisti nel congresso di Roma dell’ottobre 1922, al congresso di Milano delll’aprile del 1923 si dimostrò incerto e tentennante sulla questione della fusione col PCI, per non abbandonare il vecchio e glorioso nome di socialista. Nel 1924, in occasione della fusione dei “terzinternazionalisti” di Serrati e Maffi col PCI, rimase definitivamente nel campo massimalista, pur non cessando di perorare l’adesione del PSI all’Internazionale comunista.
Gli ultimi anni
Era stato estromesso nel 1926 dalla carica come tutti i deputati “aventiniani” e quindi privato, alle soglie dei settan’anni, dell’indennità che gli permetteva di mantenere[6] la sua piccola famiglia composta dalla moglie Eleonora Vitali e da Caterina, l’orfana adottata nel 1915. “II padrone di casa – scriveva il 10 giugno 1926 ad Alessandro Schiavi, che gli forniva per conto della “Fondazione Matteotti” un compenso per scrivere le memorie di cui siamo valsi per questa biografia – mi ha aumentato di altre 100 lire mensili l’affitto del modesto appartamento che occupo qui (a Roma) e così per il solo alloggio devo spendere 15 lire al giorno: capisci dunque come succede che alla metà del mese, io mi trovo assolutamente senza soldi e quindi costretto a ricorrere a ripieghi umilianti e scoraggianti – il Monte di Pietà si è già ingoiato le mie medaglie parlamentari – che io ho bisogno di evitare anche per conservare la volontà e la energia del lavoro“. Il 9 novembre subiva un’ennesima aggressione negli stessi locali di Montecitorio, e così racconta la vicenda in un’altra lettera a Schiavi del gennaio 1927 «recatomi a Roma e presentato alla presidenza della Camera un ordine del giorno contro la pena di morte, venni un’ora prima della seduta assalito sullo scalone interno di Montecitorio da tre deputati fascisti. Mentre due mi tenevano per le braccia, il deputato Starace, atterrandomi e massacrandomi a furia di pugni e calci, mi fece trascinare sanguinolento e tramortito fino sulla soglia del palazzo, dove venni preso dagli agenti e trasportato in vettura al Commissariato dove venni trattenuto fino alle 10 di notte.(…) quando ci penso mi sento tuttora mortificato ed avvilito per la defezione di tutti gli altri fra i quali vi erano uomini validi e giovani ben altrimenti adatti a sostenere la nostra bandiera. Eppure nemmeno uno si era presentato: non dico dei vari e molti aventiniani democratici, popolari, repubblicani, riformisti, ma i massimalisti? Io ne sono e ne rimango vergognato e disgustato… Ora sto facendo le pratiche per vedere di trovare posto in qualche ricovero dei vecchi — tale è la sorte di noi proletari — per non lasciarmi vincere dalla disperazione, ma vi riuscirò? A Milano Veratti mi ha scritto che ho perduti i diritti di cittadinanza; qui a Roma non li ho tutti e la fine è vicina». Il 23 settembre 1927 «Carissimo Alessandro, da appena un mese sono uscito da una violenta burrasca che si è scatenata contro di me, perché, andato a Milano per raccogliere i dati e i documenti necessari a continuare la storia che sto scrivendo, anche per quell’editore straniero che mi ha già pagato qualche anticipo fui dopo un ritrovo coi miei due fratelli a Brusinpiano, arrestato brutalmente a Luino e carcerato per un mese colà, a Busto Arsizio, a Varese imputato davanti al famoso Tribunale speciale. Ora mi trovo in libertà provvisoria, deferito al tribunale ordinario di Busto Arsizio per un preteso tentato espatrio (che non mi sono mai sognato di fare) e per resistenza ai carabinieri perché essendomi rifiutato di entrare pacificamente in carcere vi fui trascinato a forza e con violenza. Ne sono ancora tutto sbalordito, perché non ti so dire tutti i brutali incidenti che ho dovuto subire in questo periodo in cui ho dovuto attraversare la Lombardia in mezzo ai carabinieri, coperto di ferri e di catene come un malfattore! «Oggi il ministero detta P.I. a cui ho fatto conoscere le disgraziate condizioni in cui mi trovo, mi ha annunciato che pagherà esso la tassa annuale per la inscrizione al 3° corso magistrale della mia povera e cara bambina, la quale avrebbe dovuto altrimenti abbandonare la scuola… Quindi un raggio di gioia illumina la mia vita” Il 20 dicembre 1927, la moglie Eleonora Vitali, annunciava che Costantino era a letto con una polmonite e pleurite. Poco di poi si spegneva.
Conclusione
L’influenza che Lazzari esercitò nel movimento operaio e socialista nel ventennio dal 1880 al 1990, che coincide forse non casualmente con il periodo trattato nell’autobiografia, è stata decisiva. Quando rientò in gioco ai massimi livelli dopo la lunga egemonia riformista, con la vittoria del massimalismo al congresso di Reggio Emilia del 1912, si fecero evidenti i suoi limiti personali, culturali, politici, tra l’alto dovendo esercitare la sua segreteria in un periodo storico decisamente critico come quello tra l’impresa libica, l’intervento nella Grande guerra e il dopoguerra.
Riportiamo a questo proposito un vecchio giudizio ancora sostanzialmente giusto: “Malgrado le apparenze si deve concludere che non è mai stato un capo, che gliene sono mancate le qualità più indispensabili. Un capo esprime da un lato i bisogni, le tendenze del movimento a cui è legato, e dall’altro li precorre, segnando la strada. La prima di queste cose si è realizzata in Lazzari compiutamente, ed è appunto perciò che egli è così “rappresentativo”: il movimento operaio si rispecchia in lui coi suoi lati positivi e negativi, con grande fedeltà. Diciamo: con eccessiva fedeltà. Perché in Lazzari è mancato appunto il secondo elemento, quello pel quale il partito politico adempie, conservando i suoi legami con le masse, alla sua funzione di avanguardia»[7] giudizio sostanzialmente ribadito dall’Arfè [8]: “Il dogma dell’intransigenza è quello alla cui luce affronta i pesanti compiti nel momento in cui viene a trovarsi a capo della nuova maggioranza.(…) Intransigenza per lui significa rifiuto di ogni compromesso e di ogni patteggiamento, addirittura di ogni contatto con gli istituti della borghesia, con le forze politiche e con le organizzazioni che non abbiano la duplice qualifica di proletarie e di socialiste nell’attesa che i «diversi avvenimenti portino, alla disgregazione del «regime politico della borghesia». Il problema di come influire sugli avvenimenti, di come agire nel momento in cui tale disgregazione si verifichi, gli è pressoché estraneo.Il nesso tra il corso delle cose e l’opera degli uomini, che nei riformisti era apparso viziato da determinismo, viene concepito da Lazzari in forme di puro fatalismo. È Lazzari che di fronte alla guerra lancerà la formula del «né aderire né sabotare», la quale può anche esser considerata come un felice compromesso tra le esigenze dell’ideale e le necessità delle circostanze, ma che cristallizza l’atteggiamento del partito, bloccandolo su una posizione entro la quale non troveranno postò nei momenti decisivi né il discorso del Grappa di Turati – il tentativo cioè di gettare un ponte tra il proletariato e la coscienza patriottica del paese -, né la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra rivoluzionaria. Sarà anche Lazzari che nell’immediato dopoguerra accetterà la rivoluzione ma si opporrà all’abbandono del programma di Genova e avverserà il pregiudiziale richiamo alla violenza, accettando su tale piattaforma la scomoda confluenza dei voti riformisti(…) Ed è lui che nel congresso di Livorno, ai giovani oratori dell’« Ordine Nuovo », a Gramsci e a Terracini, rimprovera l’intellettualismo e l’aridità di sentimento che li fanno estranei alla tradizione socialista del buon ceppo antico (…) Gli anni del primo fascismo lo vedranno impavido e immobile in atteggiamento da profeta”.
Un sentito ringraziamento a Giovanni Artero per averci offerto la possibilità di pubblicare on line la sua opera.
[1] Agostino Berenini e la societa fidentina tra ottocento e novecento Fidenza , 1992
[2] C.Lazzari I principii e i metodi del Partito socialista italiano: esposizione del programma e commenti, Milano, 1911
[3] Risposta sequestrata dalla censura al programma inviatogli dal gruppo torinese (Rabezzana, Boero, Terrini), in ACS, Guerra, 1915-18 fascicolo «Torino, agitazione contro la guerra», busta 31: “Cari compagni, ho letto attentamente il programma di frazione che mi avete mandato. Voi affermate: i) non essere conforme all’assoluta intransigenza la teoria di non favorire né sabotare la guerra; z) essere necessario per tale intransigenza smentire la mia frase contraria alla indifferenza tra un padrone italiano e un padrone austriaco, perché cosi viene ad essere negata la continuità e l’internazionalità dello sfruttamento capitalistico e si valorizza il concetto di nazionalità, che dovrebbe essere bandito per sempre dalla coscienza del lavoratore. Le vostre osservazioni sono giuste in astratto. Ma se voi giudicate la mia posizione come vuole la ragione e l’esperienza, attraverso il tempo e lo spazio, voi non potete fare a meno di ricordare che essa dovette es sere subordinata a quella dolorosa constatazione di fatto rilevata dalla riunione generale di Bologna del 16 maggio 1915 nella quale la mancata compattezza nazionale e ancora più quella internazionale delle organizzazioni e del partito ci rese impossibile di impedire con un generale movimento di resistenza lo effettuarsi della minacciata dichiarazione di guerra, come noi volevamo e come io appunto sostenevo. Partendo da questo fatto, tenuto conto della nostra dottrina ripugnante ai metodi di sabotaggio, che sono per loro natura individuali e non potrebbero essere diversamente, data la condizione di minoranza in cui si trova il movimento nostro anche nel nostro Paese, io vi domando se e come voi possiate sentire il coraggio di sostenere e di fare un’azione diversa da quella formulata nella tesi che voi ripudiate. Il Partito socialista ha una tradizione di miglioramento sociale e di bontà e non può mettere a suo carico la responsabilità di aumentare i danni e i dolori. Voi come frazione potete benissimo spregiare questo dovere morale ma come partito, chi ha la responsabilità di condurre incolume il nostro movimento attraverso le presenti difficoltà non può non tenerne conto. In quanto alla vostra seconda proposizione voi non potete a me no di riconoscere che in un regime di dominio straniero tutte le forze politiche sono naturalmente rivolte a impedire che nei territori dominati le forze economiche indigene possano liberamente e indipendentemente svilupparsi in concorrenza alle forze economiche straniere, e quindi come tale compressione esercitata anche soltanto coi mezzi della tecnica capitalistica impedisca quello stato di progresso e di civiltà che è dato dalla formazione delle classi le quali sono la forza e la ragione del nostro movimento. Noi abbiamo sempre riconosciuto come un bene per la causa del progresso e dell’umanità il raggiungimento della unità e indipendenza delle nazioni, cominciando dalla nostra. Però, in quarant’anni di azione di propaganda, io non ho mancato mai ai doveri della dottrina internazionalista la quale non ha affatto bisogno di sacrificare il naturale sentimento di preferenza e di amore per il paese nativo, considerato non per le sue istituzioni politiche ed economiche ma per il fatto della convivenza in esso di tanti lavoratori simili a noi nello spirito, nelle condizioni, nei costumi. Non possiamo senza danno per il progresso del partito che amiamo sopra ogni cosa metterci in contrasto con simile sentimento naturale il cui riconoscimento può essere sfruttato dai nostri nemici, ma non da noi che sopra di esso mettiamo la necessità e la possibilità di agire per l’emancipazione del proletariato internazionale. La fine inonorata delle fantasie antipatriottiche dei vari sindacalisti di Francia e d’Italia dovrebbero pure ammonirci tutti della sterilità e dell’assurdità di questi propositi di fronte al programma socialista; essi verrebbero sanzionati con la nostra indifferenza per la nazionalità dei padroni del lavoro italiano. Ciò non vuoi dire che il nostro partito, nel terzo anno di guerra, non possa ritenere necessario accentuare maggiormente la sua protesta e la sua resistenza ai vari artefici con cui lo stato in guerra tenta di trascinare nell’orbita dei suoi interessi anche quelli sacrosanti dei proletariato ad essa avversa. E questo potrà essere lo scopo utile del nostro congresso nazionale. Da esso io mi auguro come voi che possano uscire deliberazioni atte ad affrettare il moto innovatore che tronchi la carneficina e, se esso esprimerà dal suo seno uomini più idonei di noi al grave compito che incombe sul partito in quest’ora tremenda, io mi auguro che essi siano almeno quanto noi animati da quello spirito di sincera devozione e amore alla causa che abbiamo abbracciato e al partito che la rappresenta, da noi conservato unito e saldo nel comune e unitario programma d’azione ancora possibile colle forze che in 25 anni di resistenza esso ha saputo raccogliere intorno alla propria bandiera. Questa è la mia dichiarazione che raccomando alla vostra attenzione.”
[4] Emanato il 4 ottobre, puniva chi “commetteva o istigava a commettere un qualsiasi fatto capace di deprimere lo spirito pubblico”
[5] 27 febbraio e 6 marzo 1918; pubblicati da Alceo Riosa in “Studi Politici”, 1989
[6] “Trovandosi in serie difficoltà economiche, artatamente aggravate dalla stessa POLPOL, il vecchio capo socialista, al quale in un primo momento era stata promessa la nomina a Commissario della liquidata «Casa del Popolo», e che, come scrisse Bocchini, appariva dominato dal «terrore del domani senza pane», agli inizi del luglio 1927, in un incontro con Bocchini, dopo aver supplicato per l’ennesima volta la nomina, accettò di collaborare con la polizia fascista. […] Ma il cedimento del vecchio socialista fu di breve durata, poiché già a metà luglio scriveva una lettera a Pallottino con la quale in definitiva si sottraeva all’incarico fiduciario. Questa volta la POLPOL passava all’offensiva, dando indicazioni ai suoi fiduciari all’estero, infiltrati nelle organizzazioni antifasciste, di «diffondere abilmente negli ambienti dei fuorusciti la notizia che Costantino Lazzari il vecchio leader del socialismo italiano ha fatto il confidente alla Polizia Italiana mediante compensi in denaro». […] La manovra venne avviata e, crediamo, non fu del tutto estranea alla morte, sopravvenuta di lì a poco, nel dicembre 1927, di Costantino Lazzari.”
[7] Costantino Lazzari. 1851-1927 “Lo Stato Operaio”, genn.-febbr., 1928
[8] G.Arfè “Storia del socialismo italiano (1892-1926)”, Torino, 1965
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