LA RICOSTRUZIONE DEL PARTITO SOCIALISTA NEL DOPOGUERRA

La nascita del PSIUP

La prima sigla dell’organizzazione socialista nel dopoguerra fu quella del PSIUP (Partito socialista italiano di unità proletaria) che era sorto dalla fusione del Partito socialista italiano, sotto la direzione degli esuli rientrati in patria e dei socialisti rimasti in Italia durante il fascismo, e del Movimento di unità proletaria costituito dai due gruppi di Milano e di Roma (Fabbri, Basso, Bonfantini a Milano; Zagari, Vassalli, Corona a Roma).

I due gruppi di Milano e di Roma si erano organizzati unitariamente nel Movimento di unità proletaria nel novembre del 1942. La fusione tra il PSI e il MUP nel PSIUP avvenne al convegno dell’agosto del 1943 a Roma, subito dopo la caduta del fascismo.

Nel Partito socialista confluirono dunque vari gruppi politici, di diversa formazione ideologica ed umana. Un primo gruppo era formato dagli esuli antifascisti, che erano accorsi in Italia subito dopo il 25 luglio, o che erano rientrati in patria durante la guerra di Resistenza e dopo la Liberazione.

Tra essi sono i nomi più significativi del vecchio riformismo, come Modigliani, Faravelli, e del massimalismo. Un altro gruppo era costituito dalla generazione politica emersa nel primo dopoguerra e formatasi nelle polemiche e nelle lotte dell’esilio, i cui esponenti più qualificati ed indiscussi sono Nenni, Saragat e Pertini. Accanto ad essi sono alcuni ex dirigenti comunisti, tra i quali il nome più significativo è quello di Silone.

L’esperienza degli uomini di due generazioni del socialismo, per circa vent’anni lontani dalla patria, viene a integrarsi con quella degli antichi militanti socialisti che erano restati in Italia durante il ventennio, subendo l’oppressione del regime, affrontando la galera ed il confino, oppure espatriando per brevi periodi di tempo, e tornando sul territorio nazionale ad organizzarvi la lotta clandestina al fascismo. Sono i Morandi, i Basso, i Lizzadri, i Mondolfo, che rappresentano la continuità del socialismo nel periodo clandestino, per emergere alla luce piena della lotta politica libera dopo il crollo della tirannia.

A questi gruppi si affiancano gli uomini delle nuove generazioni, portati alla ribalta dalla lotta di Liberazione. Alcuni di essi come Bonfantini ed Andreoni hanno aderito all’antifascismo fin dal primo insorgere dei loro interessi politici e hanno conosciuto il carcere e la persecuzione. Altri, come Vecchietti, Zagari, Vassalli, Grimaldi hanno invece compiuto la loro prima esperienza politica e culturale nelle organizzazioni giovanili fasciste, per distaccarsi, negli ultimi anni del regime, dalla mitologia e dai falsi ideali rivoluzionari del fascismo, in una crisi individuale che si inquadra anche nel contesto di una crisi della loro generazione. Dalla fusione di questi gruppi nasce la classe dirigente del Partito socialista di unità proletaria. Essi rappresentavano l’esperienza di due diverse generazioni politiche: l’esperienza della lotta antifascista degli anni Trenta e della Resistenza; e l’esperienza corporativa delle giovani generazioni che dal fascismo erano passate nelle fila dell’antifascismo prima della guerra, o che, addirittura, nel fascismo avevano compiuto tutto il ciclo della loro esperienza sindacale e politica, per inserirsi solo a liberazione avvenuta nelle fila dei partiti di sinistra e nella rinata organizzazione sindacale unitaria.

Alle generazioni maturate politicamente nel ventennio, il fascismo aveva senza alcun dubbio lasciato una pesante eredità di conformismo, di carrierismo, di tatticismo, di cinismo politico, con quella predisposizione, insieme, alla accettazione acritica degli slogan, delle parole d’ordine, delle prospettive prefabbricate, che è predisposizione alla cultura politica intesa come mistica; al linguaggio politico inteso come fraseologia inconsistente e puramente strumentale; e alla riduzione della stessa ideologia a una somma di princìpi indiscutibili e immutabili. La predisposizione alla mitologia e alla liturgia politica.

In questa esperienza concreta dovette innervarsi la presenza politica di una classe dirigente antifascista, vissuta per oltre due decenni in esilio, in un clima culturale e politico profondamente diverso, caratterizzato da una esperienza aperta alle correnti europee ed internazionali della cultura politica, ma che di questa stessa cultura aveva dovuto assimilare anche gli aspetti più fallimentari e usuranti della crisi della coscienza europea di quegli anni; e che inoltre aveva dovuto subire i contraccolpi della evoluzione stalinista della Rivoluzione d’Ottobre che avevano appesantito con gli aspetti del bonapartismo, dell’internazionalismo a senso unico, della crisi della verità rivoluzionaria di fronte ai grandi processi di Mosca, la coscienza socialista dei dirigenti esiliati del movimento proletario italiano.

La stessa assenza ventennale dalla patria aveva finito, fatalmente, per oscurare in questi uomini, in questi gruppi, la visione dei problemi reali della nostra società; per creare incomprensioni e diffidenze tra essi e i rappresentanti delle nuove generazioni, la cui formazione era avvenuta in un clima totalmente diverso, non solo da quello dell’esilio, ma anche da quello dell’Italia prefascista, nella quale si era svolta la più intensa ed attiva esperienza politica della vecchia generazione socialista. L’esaltazione della vittoria antifascista fece passare in secondo piano questi problemi, di fronte ai quali poco valeva la fiducia nella forza risanatrice della riacquistata libertà, laddove sarebbe stata necessaria la più approfondita riflessione sulle questioni che nascevano dall’innesto di così divergenti esperienze umane e politiche per creare tra di esse un clima di più efficace coesione.

Ci si illuse, forse, che la vittoria della democrazia sulla dittatura, la ripresa della vita libera, delle discussioni e della lotta avrebbero operato il miracolo di una soluzione automatica di tutti i problemi.

Ci si illuse che nel crogiuolo della rifiorente attività pubblica, del rinato confronto fra le formazioni politiche antagoniste, ma tutte accomunate dall’impegno unitario della lotta antifascista, si sarebbero fuse, seppur gradualmente, tutte le contrastanti esigenze delle due generazioni, dei gruppi dirigenti di diversa provenienza, delle varie stratificazioni popolari.

La realtà era tutt’altra. I partiti che si costituivano erano forgiati sul modello dei partiti del prefascismo. L’unico tra di essi che si era strutturato fin dal suo sorgere quale partito di massa e non d’élite, come i partiti della borghesia risorgimentale, era il Partito socialista. Insieme ad esso il partito cattolico, risorgente sotto il nome della Democrazia cristiana, era stato, nella breve esperienza del Partito popolare degli anni dal ’19 al ’25, fondato con criteri e strutture sue proprie, condizionate dall’esperienza organizzativa delle formazioni confessionali. Per tali caratteristiche, la struttura del Partito socialista si presentava già nel prefascismo con caratteri tipici profondamente divergenti da quella del Partito comunista, il cui modello di sviluppo negli anni successivi alla Liberazione costituirà un inevitabile punto di raffronto per l’evoluzione di tutte le strutture organizzative del movimento operaio.

Unità d’azione e fusione fra PSIUP e PCI

Il Partito socialista si ricostruì sulla base di un complesso di norme sancite da uno statuto provvisorio formulato all’atto della sua organizzazione, insieme con una “dichiarazione politica del Partito socialista di unità proletaria” voluta a Roma il 25 agosto 1943, nella quale veniva dichiarato che “il PSI intende realizzare la fusione dei comunisti e dei socialisti in un unico partito sulla base di una chiara coscienza delle finalità rivoluzionarie del movimento proletario”.

A questo scopo, “per avviare l’unità verso la sua realizzazione e per coordinare le direttive e l’attività dei due partiti proletari e marxisti nel campo politico ed in quello sindacale, il Partito socialista italiano ha concluso con il Partito comunista italiano un trattato di Unità d’Azione”.

Il Partito socialista risorge dunque come un partito di professione “marxista” e con una struttura politica provvisoria, in attesa cioè della fusione con il Partito comunista in un partito unico della classe lavoratrice. Il patto d’unità d’azione assume dunque il significato di un avvio alla fusione tra i due partiti. Occorre peraltro inquadrare tale impostazione nella situazione politico-militare del tempo.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 e la divisione in due del paese costrinsero i socialisti a seguire obiettivi diversi al nord e al sud: mentre erano totalmente impegnati sul piano militare nella lotta di liberazione al nord, partecipavano nelle zone sotto amministrazione alleata alla ripresa della vita civile e politica.

Fu nell’azione clandestina che i socialisti, mettendo in moto una propria macchina organizzativa e militare, con la costituzione delle Brigate Matteotti, distinte e in molte zone contrapposte alle Brigate Garibaldi egemonizzate dai comunisti, e creando una rete di squadre composte di operai, popolani e borghesi antifascisti nelle città, nelle campagne, nelle fabbriche, con numerosi fogli clandestini, assunsero una autonoma fisionomia di partito. Il prestigio di capi militari, come Pertini e Bonfantini; il numero elevato di vittime – come Bruno Buozzi, leader del sindacalismo socialista; il vecchio deputato Recalcati, i dirigenti sindacali Fabbri, Bentivogli e Ogliano, i “veterani” della cospirazione antifascista Bertellini e Colorni, i dirigenti universitari Barbera, Fiorentini e Fogagnolo -concorsero alla formazione di una coscienza e di un patrimonio di valori etici e politici profondamente legati alla tradizione di lotta socialista e democratica del partito.

Sul piano politico, il PSIUP considerò necessaria una partecipazione delle masse popolari alla guerra di Liberazione, anche in accordo con le truppe alleate, in vista della conquista del potere politico da parte dei partiti che ne fossero emanazione. Dapprincipio la politica del partito si svolse in piena solidarietà con la politica del Partito comunista e del Partito d’Azione, e fu concordemente indirizzata a sostenere la costituzione del governo Badoglio con un governo che non fosse più emanazione della monarchia, ma diretta espressione dei partiti del CLN. Sicché, quando il maresciallo Badoglio, all’indomani della dichiarazione di guerra alla Germania, il 10 ottobre 1943, sollecitò la collaborazione di tutti i partiti antifascisti in nome della unità nazionale contro l’invasore tedesco, il PSIUP oppose un netto rifiuto, dichiarando che la monarchia che era stata complice del fascismo rappresentava un fattore di divisione e non di unità, e che, di conseguenza, non poteva intorno ad essa costituirsi nessuno schieramento unitario della nazione. Un governo che traesse autorità dall’istituto monarchico sarebbe stato – secondo il PSIUP – incapace di condurre una guerra antifascista con un largo consenso popolare.

Insieme con il Partito d’Azione, il PSIUP chiese invece che al Comitato di Liberazione Nazionale fosse affidato tutto il potere nell’ambito dell’amministrazione alleata, in quanto il CLN era espressione del paese in lotta contro il nazifascismo. Chiedeva che al governo del CLN fossero dati poteri eccezionali di salute pubblica, che la questione istituzionale venisse accantonata fino alla Costituente da indirsi subito dopo la liberazione di tutto il territorio nazionale.

In questa fase, dunque, il PSIUP svolge sul piano politico una funzione di guida politica delle sinistre e del CLN. Ma le sue tesi politiche si scontrano con la realtà del potere costituito dall’amministrazione militare alleata, e con la logica della politica di potenza sul piano internazionale, derivante dalla alleanza tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica. Questa logica presiede, invece, all’iniziativa assunta dal PCI nota come la svolta di Salerno e promossa da Palmiro Togliatti (Ercole Ercoli) che, con l’investitura dell’URSS, era rientrato in Italia ed aveva assunto la guida del Partito comunista. Egli si fece promotore di un compromesso tra le forze antifasciste e la monarchia, proponendo un indirizzo partecipazionista, basato, da un lato, sulla rinuncia dei partiti del CLN alla loro pregiudiziale contro il re e contro Badoglio; e, dall’altro, sull’accoglimento, da parte del re, della richiesta di una luogotenenza nella persona del figlio Umberto, differita, quanto all’esecuzione, a dopo la liberazione di Roma.

Questa proposta coincideva “realisticamente” con la logica della politica dei blocchi, che si renderà palese con la conclusione del conflitto, ma già operante allora, dopo gli incontri di Yalta.