MARIA GIUDICE SOCIALISTA PER FEDE

Nella foto Maria Giudice in carcere con Umberto Terracini

La socialista rivoluzionaria Maria Giudice (1880-1953) sarà in futuro nota per essere stata la madre dell’autrice di “L’arte della gioia”, in Francia già un best seller. Ma ancora non è così, e mentre Goliarda Sapienza è conosciuta più all’estero che in Italia, il nome di sua madre appare nei testi storiografici sul socialismo italiano precedente al fascismo, ed è una voce sia nel Dizionario Biografico degli Italiani che in “Le donne Italiane… del ‘900”, curato da Miriam Mafai. In quest’ultimo, nonostante imbarazzino le lacune (non è detto che fu la prima donna a dirigere la Camera del lavoro di Torino né si accenna al lungo periodo siciliano), Maria Giudice viene giustamente alla luce per il suo antimilitarismo e antifascismo, e non solo come “figura minore” del socialismo del tempo.

Ancora giovanissima, maestra a Voghera, cura “La Donna che piange” in appendice alla rivista socialista “L’uomo che ride”, e tra il 1902 e il 1924 scrive su varie riviste socialiste. Nel 1904 nasce il primo dei suoi otto figli, i cui primi sette nati dalla libera unione con Carlo Civardi: al momento del parto si trova esiliata in Svizzera, dove fonda, insieme ad Angelica Balabanoff, il giornale “Su compagne!”. Rientrata in Italia, dopo 15 mesi, cura la rubrica “la posta di Magda” in “La difesa delle lavoratrici”. Nel 1916 la sua “carriera” politica ha un’incredibile impennata dovuta al fatto che gli uomini sono richiamati alle armi e le donne li devono sostituire in tutte le professioni, persino quelle direttive! Cosi la troviamo a capo della sezione socialista provinciale e della Camera del lavoro di Torino, e a dirigere, subito prima di Gramsci, il giornale “Il Grido del popolo”. Il breve periodo di questa sua direzione sembra caratterizzato dal “ritorno alle masse” e da una decisa opposizione alla guerra. Ai comizi in piazza invita le donne a manifestare per la pace e a rifiutarsi di svolgere lavori di ausilio alla guerra (trasporti, industrie belliche, etc).

Nel 1917 verrà condannata per propaganda disfattista a 3 anni di carcere, che diventeranno 1 grazie all’amnistia del 1918. Quello che più colpisce a proposito di Maria Giudice, donna non carismatica ma caparbia, è la sua capacità di farsi capire dalle donne e uomini del proletariato, ai quali Maria sapeva parlare, con un linguaggio semplice e rivolto ai reali interessi di chi l’ascoltava. Nella monografia a lei dedicata Vittorio Poma scrive: “dovunque si rechi la Giudice raccoglie consensi e suscita entusiasmi. Colpisce il tono suadente e famigliare dell’argomentare, il linguaggio semplice ma vibrante, la fermezza e il vigore nell’affermare i principi. Chi corre ad ascoltarla rimane colpito dalla tempra di questa donna che, affascinata e rapita, parla del socialismo come di una religione, gli occhi lucidi di gioia se di fronte a lei gli operai e le operaie sfiancati dal lavoro chiedono una parola di aiuto e di speranza. Quando le domandano ingenuamente: ‘Cos’è il socialismo?’ risponde sorridente: ‘È una dottrina, una idea; è soprattutto una fede.

Maria Giudice è stata una personalità complessa, ricca di luci ed ombre: una idealista che per trent’anni si è dedicata interamente alla politica attiva; una pensatrice politica dai toni talvolta manichei, tesa a “leggere più nel libro della vita che in quello della teoria”; e soprattutto una donna persuasa che fosse possibile che il mondo cambiasse grazie all’impegno di persone come lei.
Maria non si aspettava che una forza miracolosa si levasse e spazzasse tutte le ingiustizie bensì lavorava seriamente affinché questa forza divenisse coscienza prima individuale e poi collettiva. Nella rubrica “piccola, breve, umile, ma libera e consapevole” che teneva in “La difesa delle lavoratrici” il 3 marzo 1912 scriveva: “Così s’intesserà davvero fra di noi, quella ideale catena che, ora fragile e breve, andrà man mano rafforzandosi e prolungandosi in una raccolta e modesta ma costante e cosciente preparazione del futuro nucleo di coloro che – educati seriamente alla palestra del socialismo – l’avranno prima fatto trionfare in loro stessi, per poi imporlo al mondo tutto”. E ancora: “non si fanno le rivoluzioni se non vi sono le masse pronte e coscienti”.

Nel 1920 si trasferisce in Sicilia in cui la lotta socialista era fermata a colpi di lupara mafiosa che proprio nel 1919 uccidevano il sindacalista Giuseppe Rumore e subito dopo il capolega Nicolò Alongi. Ma a Maria non mancavano entusiasmo e temerarietà e così, investita del compito ufficiale di “sanare il profondo divario fra i gruppi dirigenti del sindacato da una parte e la classe lavoratrice dall’altra”, si trasferisce a Catania, con cinque dei suoi sette figli, nella casa di Peppino Sapienza, un avvocato socialista, fondatore di “Unione” e direttore di “L’idea”.

Dopo quattro anni di intensa e non facile attività politica (di cui otto mesi trascorsi in carcere in seguito alla rivolta di Lentini del 1922) Maria dà alla luce la futura autrice di ‘L’arte della gioia’. Nei testi di Goliarda, Maria Giudice appare sia come madre sia come personaggio storico: una socialista importante, un’antifascista che ha portato avanti la sua resistenza dai margini, contrapponendosi fin dagli inizi alle leggi antilibertarie e alla politica e cultura rappresentate da Mussolini; una donna dalla esasperata fede politica alla quale sacrifica se stessa e i figli.
Durante il Ventennio il nome di Maria Giudice è iscritto nel casellario politico giudiziario, ma per via dei molti figli (“di cui due in tenerissima età”) le viene concesso di rimanere nella casa di Catania, da cui però non può spostarsi. Relegata in casa si dedica a ciò che negli anni della militanza giovanile non aveva avuto tempo di fare: studiare letteratura, latino e storia. Ma non rinuncia a lasciare tracce e testimonianza della sua “fede” insegnando ai molti giovani che bazzicavano casa Sapienza, tra figli e amici, a perorare la “causa degli umili” e ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti dei mali sociali. A non rincorrere la felicità personale.

Scriveva nel 1924: “Oh, io mi vergogno di essere una madre felice. Oh, io mi adiro con tutte le madri felici. E dico che è una maternità sorda e cieca, questa, che pensa s’affanna e provvede soltanto alla propria creatura. Non siamo tutti, forse, una carne sola, un sol sangue, una unica umanità? …E torno a casa e bacio la mia piccola bambina, e tremo d’angoscia perché penso che non ho il diritto di essere una madre felice”.
A parere di Maria Giudice, le ‘rovine’della società non sono da attribuire al Mussolini ed Hitler del momento, bensì alla responsabilità politica di ogni singolo individuo che ratifica “la cattiva, pericolosa, pazzesca, attuale organizzazione sociale”. Non basta che cadano nazismo e fascismo per mettere in crisi un tale sistema perverso: bisogna “scardinare e rifare, dalle basi, l’organizzazione sociale …e buttare subito le fondamenta di quella unica che – poste le premesse e seguita la prassi della fratellanza umana e della solidarietà universale – porrà fine, per la sua stessa struttura ed essenza, alla guerra, per sempre ed aprirà un’era di sicura [pace] e di civiltà verace”.

Queste cose Maria le scriveva nel 1945. E per lei non vi sarà stato posto tra i “vincitori”, neanche tra i compagni dell’amato partito. Lo si capisce già quando la nuova redazione di “Avanti” censura un suo articolo dal titolo “Siamo tutti responsabili”, in cui veniva raccontata la storia di una donna disperata, e infine suicidatasi, per non potere nutrire i suoi figli.
Gli ultimi anni della vita di Maria Giudice trascorreranno in parte a Roma e in parte a Catania, spesso in preda a terribili collassi nervosi. Muore a Roma il 5 febbraio 1953 e il giorno dopo, nella sorpresa di tutto il vicinato, molte delle personalità politiche più eminenti, tra cui Umberto Terracini, Saragat e Pertini, vanno a porgerle onore. In breve tempo una folla sempre più numerosa si raccoglie davanti al portone e centinaia di bandiere rosse seguono il suo carro funebre.

(Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Febbraio 2007)