IL DECRETO DIGNITA’ FARA’ PERDERE 8.000 RAPPORTI DI LAVORO? MAGARI..! PURTROPPO SARANNO MOLTI DI PIU’

di Claudio Negro – Fondazione Anna Kuliscioff

Non è vero che andranno persi 8.000 posti di lavoro all’anno a causa del Decreto Dignità: saranno molti di più. Il perchè è semplice: la stima di 8.000 elaborata dall’INPS riguarda i contratti che non potranno superare i 24 mesi, sia come primo contratto che come somma di rinnovi. Ma l’83,3% dei contratti a termine non dura più di 12 mesi: parliamo di 1.850.000 rapporti di lavoro. Durano meno di tre mesi 463.000 contratti, che mediamente vengono rinnovati una volta nei 12 mesi.

Tutti questi contratti per essere rinnovati dovranno venire giustificati con le “causali” che, come tutti i giuslavoristi seri e gli operatori del Mercato del Lavoro hanno fatto osservare, saranno fonte di contenziosi e liti giudiziarie. Per evitare le quali le aziende potrebbero preferire non rinnovare il contratto a termine con il lavoratore, e assumerne invece un altro con un nuovo contratto a termine, o magari ricorrere al nero. Non certo  passare il lavoratore a tempo indeterminato (anche perchè è meno conveniente, adesso che il Decreto Dignità ha aumentato l’indennità di licenziamento).

Risultato: quanti di quei 1.850.000 contratti non verranno rinnovati? Certo moltissimo più di 8.000.

Verranno almeno in parte rimpiazzati da nuovi contratti con nuovi lavoratori? E’ possibile. Determinando così un circuito in cui un certo numero di lavoratori continueranno a girare tra un’azienda e l’altra con contratti a termine che non saranno mai abbastanza lunghi da consentire che si creino le condizioni per un salto all’assunzione  definitiva.

E’ misteriosa la ragione per la quale gli estensori del Decreto sono convinti che le imprese a fronte delle difficoltà a rinnovare i contratti a termine stabilizzeranno le assunzioni: le prospettive di crescita si fanno più insicure (e a ciò non è estranea la politica degli annunci del Governo,  che promette spese senza indicarne le coperture, aumentando la diffidenza degli investitori nei confronti dei nostri conti pubblici) e questo  non spinge certo le imprese ad impegnarsi in  assunzioni stabili,  tanto più se queste sono scoraggiate da un’evidente voglia del Governo di tornare ai vincoli dell’art.18. Solo chi pensa che la domanda di lavoro sia incomprimibile può pensare che una politica dirigista possa imporre alle aziende quantità e modalità dei rapporti di lavoro.

Ma in questa vicenda, oltre alla faciloneria con cui il Governo ritiene di affrontare problemi complicati, colpisce l’irritazione e il fastidio di Di Maio nei confronti  della pubblicazione di dati: dalla ridicola ipotesi di un Fantomas in calzamaglia nera che nottetempo si insinua nelle stanze ministeriali per taroccare la relazione di accompagno al Decreto, alla ben più grave insofferenza per dati oggettivi, che chiunque peraltro potrebbe ricavare da sé, ma che evidentemente sono intollerabili per chi è convinto che la credenza popolare valga più dell’analisi della realtà, e che l’opinione di chiunque valga tanto quanto quella di una persona competente.