ALITALIA, L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL GOVERNO

di Pierpaolo Pecchiari

Il mio allontanamento da una sinistra che si crede radicale ma mi pare solo confusa non potrebbe avere cartina di tornasole migliore della vicenda Alitalia.
Io mi ritengo un neo-colbertiano, e sono convinto che il ruolo dello Stato nell’economia sia ancora importante, vuoi perché in alcuni casi i privati si trovano davanti a progetti e questioni troppo grandi per le lor forze, risorse e interessi; vuoi perché in altri non hanno nessun interesse economico nell’erogare servizi che invece devono essere garantiti (penso al mantenimento di alcuni uffici postali in località remote, o al trasporto pubblico locale su gomma).
Da qui a sostenere che lo Stato debba nazionalizzare tutte le imprese in difficoltà, indipendentemente dal fatto che si tratti di compagnie aeree, di acciaierie o di aziende alimentari, ce ne corre.

La variabile da considerare in questi casi dovrebbe essere questa: se un’azienda fallisce, o se invece resta in piedi con i soldi pubblici, quali sono le conseguenze per la tenuta del sistema economico nazionale e per i cittadini-consumatori-contribuenti?
Nel caso dell’ILVA – che invece questo governicchio chiuderebbe, se potesse, senza pensarci due volte – le conseguenze sarebbero devastanti, perché l’Italia perderebbe in un colpo solo tutto il suo siderurgico, poco meno di settantamila posti di lavoro tra diretti e indiretti, più l’indotto; l’economia di Taranto ne uscirebbe devastata, senza alcuna possibilità di ripresa (altro che Ruhr o agriturismi!); e l’intero sistema industriale italiano si ritroverebbe a dipendere, per gli approvvigionamenti di acciaio, dall’estero.

Nel caso di Alitalia? Nel caso di Alitalia non succederebbe niente. Come è stato ampiamente dimostrato in passato, il personale di volo non avrebbe eccessivi problemi a ricollocarsi. Per gli indiretti, assunti in Alitalia in grazia di conoscenze in questo o quel giro romano, verrà buono il reddito di cittadinanza. Il sistema aeroportuale italiano reggerebbe, vuoi perché le compagnie principali farebbero a gara per acquisire gli slot a Fiumicino e Malpensa, vuoi perché le low cost servirebbero, come già fanno, gli aeroporti secondari, che hanno la fortuna di essere collocati in prossimità delle nostre città d’arte o delle più rinomate zone turistiche. Visto che il settore del trasporto aereo è fortemente concorrenziale, dubito che ci sarebbero conseguenze sul prezzo del servizio per i voli nazionali per i cittadini-consumatori (peraltro non è che Alitalia oggi sia proprio a buon mercato); quanto al lungo raggio, è ormai da decenni che andiamo a Heathrow, al Charles De Gaulle, a Schiphol o a Francoforte per prendere i voli verso le località più distanti, che Alitalia non serve più: non cambierebbe niente.

In sostanza, il salvataggio e la nazionalizzazione di Alitalia sono del tutto inutili, se non a spillare soldi dal contribuente, o, peggio, a impiegare i denari dei conti e dei libretti postali dei pensionati (perché lì li prende Cassa Depositi e Prestiti) per dare ulteriore ossigeno a un paziente verso il quale avremmo dovuto applicare, da tempo, misure di vera e propria eutanasia attiva.
Il salvataggio di Alitalia, al massimo, può essere funzionale agli interessi dei potentati e delle clientele leghiste nel varesotto e grilline a Roma, un tema su cui ci sarebbe molto da dire.
Soprattutto in una situazione in cui le risorse sono scarse – e se gli scenari dovessero peggiorare lo saranno ancora di più – avremmo invece bisogno di investire nell’ammodernamento della macchina dello Stato, nei porti, nell’AV ferroviaria, nel trasporto merci su ferro e pendolari da e verso le grandi città, nel potenziamento delle reti di telecomunicazioni e nelle politiche energetiche. E’ in questi campi che lo Stato deve assumere un ruolo di guida e fornire i capitali necessari per innescare una leva finanziaria insieme ai privati. Non nel salvataggio di aziende decotte e sostanzialmente inutili nella strategia economico-industriale del Paese.