L’ORDINE SOVIETICO REGNA A PRAGA

di Antonio Gambino – Agosto 1968 Inviato de L’espresso

Le truppe di Mosca e del Patto di Varsavia sono entrate nel paese da varie direzioni e lo hanno occupato. Il mondo trattiene il fiato.

A trent’anni esatti dai giorni di Monaco la vita nazionale della Cecoslovacchia è stata ancora una volta violata, la sua sovranità manomessa e calpestata. Le truppe russe, polacche, tedesco-orientali, ungheresi e perfino bulgare, sono penetrate, da varie direzioni, nel suo territorio, hanno occupato Praga e le altre città più importanti, si sono schierate al confine con il mondo occidentale. Le notizie della prime ore della mattina di mercoledì 21 agosto (quelle in cui scriviamo) non dicono di più. Ma esse contengono l’essenziale della situazione, mostrano che ancora una volta il piccolo popolo cecoslovacco è vittima di un’aggressione brutale e ingiustificata, è al centro di avvenimenti tragici, certamente destinati ad avere ripercussioni mondiali di portata incalcolabile.

Che la tensione tra Praga e Mosca non fosse finita con le formule di compromesso di Cierna e di Bratislava era apparso chiaro fin da principio: evidentemente, quello che si era chiuso all’inizio di agosto era solo il primo round di una partita complessa e lunga. Ma contro la ipotesi di una invasione armata sovietica, diretta ad eliminare con la forza il gruppo dirigente stretto intorno a Dubček e a porre fine alla sua politica rinnovatrice, militavano obiezioni precise: in primo luogo la differenza (sulla quale avevano in particolare insistito i comunisti italiani nei loro colloqui con i dirigenti dei Pcus) tra l’esplosione ungherese del 1965 e l’andamento controllato della evoluzione cecoslovacca. Più in generale, un certo ottimismo (diffuso sia in Occidente che nella stessa Cecoslovacchia) nasceva dall’impossibilità di credere che nel 1968, dopo anni di insistenza sui temi della coesistenza pacifica e di un nuovo assetto continentale (fondato sullo slogan paragollista: “l’Europa agli europei”), i dirigenti di Mosca potessero nuovamente ricorrere ai metodi della tradizione zarista per richiamare all’ordine quelli che essi (oggi non meno che all’epoca di Stalin) considerano gli Stati vassalli e satelliti dell’Urss, la fascia protettiva esterna della grande madre Russia.

Queste speranze sembravano fermate dall’improvvisa diminuzione degli attacchi contro la Cecoslovacchia, da parte della stampa sovietica, tedesco-orientale e polacca, avvenuta nella prima metà di agosto. Il periodo di tregua non era però durato a lungo. Già da una settimana i giornali e le riviste di Mosca avevano ricominciato il loro martellamento, aggiungendo alle vecchie accuse contro gli intrighi dei “capitalisti” e dei gruppi antisocialisti interni nuove “rivelazioni” a proposito dei progetti dei “revanscisti di Bonn” per staccare l’ex regione dei Sudeti dal territorio cecoslovacco.
Questa ripresa della polemica costituiva, evidentemente, un fenomeno preoccupante. Dopo che Dubček e Breznev avevano chiarito nei quattro giorni di colloqui di Cierna le rispettive posizioni, gli attacchi continui contro la Cecoslovacchia non potevano infatti essere più visti come un mezzo di pressione e di minaccia, sulla cui efficacia non ci si poteva più fare molte illusioni, ma potevano solo costituire la premessa per un intervento armato. Ed in effetti è proprio sul motivo di un pericolo esterno, oltre che sul preteso appello degli stessi dirigenti di Praga, che Mosca ha insistito per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale la sua aggressione.

Un comunismo primitivo
I motivi sostanziali sono altri. Essi vanno ricercati innanzi tutto nel fatto che in Cecoslovacchia il regime comunista non solo, come in tutto il resto dell’Europa orientale, ha radici precarie, ma non ha neppure quella forma di giustificazione storica che gli si può riconoscere invece in Romania, in Bulgaria, e perfino in Ungheria e in Polonia, per aver contribuito ad eliminare situazioni arretrate e spesso dichiaratamente feudali. Usciti dal lungo periodo di compressione dello stalinismo e del novotnismo (periodo che ha assunto a Praga caratteri particolarmente tetri e biechi, proprio nel tentativo di cancellare con la violenza la realtà profonda del paese), i cechi e gli slovacchi hanno cominciato un moto evolutivo, di ricerca della propria identità nazionale e culturale, destinato evidentemente ad andare oltre ad ogni schematismo e ad ogni disciplina di partito. Se a tal moto fosse stato permesso di proseguire è certo che, in un tempo più o meno breve, un popolo che prima della seconda guerra mondiale era tra i più moderni e civili di Europa avrebbe finito per rigettare in ogni sua forma quel comunismo autoritario e primitivo che, nato trenta anni prima in un paese infinitamente più arretrato, alla fine della seconda guerra mondiale era stato imposto anche a Praga, in base alla logica della guerra fredda e dei blocchi militari.
In un simile sfondo, era difficile che Dubček e i suoi amici potessero offrire a Breznev garanzie esaurienti e credibili. Anche se nelle scorse settimane il Patto di Varsavia non è stato mai in discussione, e non vi era alcun motivo di dubitare del desiderio di Praga di non mutare il sistema di alleanze nè di alterare l’equilibrio continentale, era inevitabile che questi temi sarebbero venuti, col passare del tempo, in primo piano.

L’equilibrio di Stalin
Né si poteva credere che il germe revisionista, una volta che ad esserne intaccati non erano paesi periferici come la Jugoslavia e la Romania, avrebbe risparmiato gli altri Stati satelliti: in primo luogo l’Ungheria e la Polonia. Infine, in ogni momento, il processo avrebbe potuto avere ripercussioni incontrollabili in Germania orientale, che ancora oggi costituisce il pilastro del cordone protettivo sovietico ma che, per il suo carattere di Stato artificiale, ne è al tempo stesso il punto più debole. Anche al di là delle loro intenzioni, insomma, i leader rinnovatori di Praga mettevano in crisi l’intero equilibrio europeo, concepito e realizzato da Stalin quasi 25 anni fa. Equilibrio la cui lungimiranza e astuzia è stata da molti tanto spesso lodata ma esso, come tutte le costruzioni imposte con la forza (la Germania spaccata in due, le frontiere polacche spostate di cento-duecento chilometri verso ovest, in territori almeno in parte da tempo legati alla storia tedesca, in modo da creare una permanente ragione di dipendenza di Varsavia da Mosca, ecc.), ha una ineliminabile fragilità interna.
Affrontando la crisi cecoslovacca, quindi i dirigenti sovietici si sono ben presto accorti che la posizione da assumere nei riguardi di Dubček e dei suoi sostenitori dipendeva da decisioni più vaste e complesse, che andavano ben oltre la funzione del partito comunista a Praga, l’esistenza nel suo seno di frazioni e correnti. Esse riguardavano il futuro dell’Europa e obbligavano ad una difficile scelta tra due opposti pericoli: o accettare un’evoluzione “revisionista” del socialismo oppure tentare di congelare, a tempo indeterminato, la situazione attuale. Tutti i dati sembrano convergere nell’indicare che un acceso dibattito su questi temi si è svolto quasi ininterrottamente a Mosca nell’ultimo mese (e la voce non confermata delle dimissioni di Kossighin ne sarebbe una prova). La vittoria della tendenza conservatrice si è tradotta immediatamente nell’ordine ai carri armati della Santa Alleanza dell’Est di marciare su Praga.

Le conseguenze di questa scelta, che per il momento riporta a Praga e in tutta l’Europa orientale l’“ordine sovietico, si faranno sentire in tutti i settori della scena internazionale: negli Stati Uniti, dove è prevedibile un rafforzamento delle posizioni di Nixon; in Vietnam, dove si attenuano le già scarse speranze di una soluzione negoziata; in America Latina, dove la dottrina Monroe e il diritto di ingerenza e di controllo diretto di Washington ricevono, dai russi, una conferma clamorosa (e dove il regime castrista si trova di nuovo in immediato pericolo), in Germania occidentale, dove le correnti estremiste o comunque interessate a seppellire la politica di apertura all’Est vedono improvvisamente salire le loro quotazioni. Più in generale, dovunque nel mondo saranno le tendenze che puntano sulla forza dei fatti compiuti a trarre conforto e vantaggio dal crimine compiuto dai sovietici ai danni del popolo cecoslovacco.

Infine, ripercussioni inevitabili e gravi si avranno certamente all’interno dei partiti comunisti, in primo luogo di quelli occidentali. Nei giorni difficili della seconda metà di luglio, alcuni dei massimi dirigenti del Pci, affermarono in conversazioni private (tra l’altro con chi scrive) che, nel caso si fosse giunti ad un intervento armato sovietico, i comunisti italiani non si sarebbero tirati indietro di fronte alla responsabilità di condannare pubblicamente una simile iniziativa; e che agendo così essi non avrebbero rinnegato i loro ideali unitari, ma al contrario avrebbero accusato l’Urss di distaccarsi dai comuni principi dell’internazionalismo operaio.

La prudenza del Pci
Ora che le previsioni più pessimistiche sono state confermate, il comunicato del Pci, che parla di “grave dissenso” e non arriva ad esprimere (come fanno i comunisti francesi) la propria “riprovazione” per l’intervento sovietico, né tanto meno ad usare i termini di chiara condanna contenuti nel comunicato della Cgil, non può lasciare soddisfatti. D’altra parte, questa ambigua prudenza non potrà reggere alla prova dei fatti. Di fronte ad una situazione della gravità di quella cecoslovacca, le formule diplomatiche non resistono a lungo. Un paese che agisce come il 21 agosto ha agito l’Unione Sovietica non è infatti né comunista né capitalista. È semplicemente imperialista. Una posizione chiara sugli avvenimenti cecoslovacchi non può essere presa se non riconoscendo questo fatto, e riaffermando, contro ogni confusione, il significato non contingente ma di conquista storica di alcuni valori che troppo a lungo si sono definiti come “borghesi”, quale quello del rispetto della indipendenza nazionale.
I democratici occidentali (in primo luogo quelli americani) hanno precisato da tempo il loro atteggiamento critico nei confronti della guerra in Vietnam. Lo stesso compito tocca oggi ai comunisti che si trovano al di qua di quella che rischia di tornare ad essere una cortina di ferro. La posta in gioco è, né più né meno, la loro credibilità e quindi la loro futura efficacia come forza politica nazionale.

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