di Ugo Bertone
Cile, 5 settembre 1970: per soli 39.175 preferenze, alle elezioni presidenziali si afferma il cartello delle sinistre di Unidad Popular, che ottiene la maggioranza relativa. Il socialista Salvador Allende diventa il nuovo presidente della repubblica. In mente ha un ambizioso progetto; portare la rivoluzione nel paese senza uscire dai binari della legalità costituzionale. Ben presto, però, la fragilità della maggioranza e la crisi economica provocata dall’ostruzionismo degli Stati Uniti minano le basi del suo governo, che viene anche abbandonato dalla classe media. Dopo tre anni di lotte, nazionalizzazioni e scioperi, sarà l’esercito a far svanire il sogno cileno, con il colpo di stato di Augusto Pinochet. Gli stadi diventeranno lager e la tortura una pratica quotidiana.
Alle 2.50 del 5 settembre 1970 un terremoto politico investe l’America latina. Lo spoglio delle schede è finito: Salvador Allende, medico, socialista, candidato di Unidad Popular, al suo quarto tentativo, ha conquistato la maggioranza relativa alle elezioni presidenziali cilene. Su quello strano paese, lungo più di 4 mila chilometri ma largo non più di 200, si accendono i riflettori del mondo. Per la prima volta un marxista può diventare capo di un governo nell’emisfero Ovest grazie a una vittoria elettorale e non a una insurrezione armata. Da Roma e da Parigi, capitali del marxismo occidentale, arrivano a Santiago del Cile legioni di giornalisti, analisti politici, semplici militanti ansiosi di capire come reagirà il laboratorio all’inedita formula cilena.
E l’attenzione è tanto più giustificata se si guarda alle ambizioni di Salvador Allende Gossens, 61 anni, marxista e massone, figlio di un avvocato, dal ’52 ostinatamente impegnato a cercare una “via cilena” al socialismo democratica e pacifica, ma non per questo meno radicale. “Caro Allende, tu con altri mezzi cerchi di ottenere la stessa cosa” gli ha scritto Che Guevara, dedicandogli una copia del suo libro “La guerra di guerriglia“. E il Che ha ragione: anche Allende vuole la rivoluzione, la sovversione degli equilibri economici esistenti, la socializzazione dei mezzi di produzione, ma promette di realizzare queste trasformazioni nel rispetto della costituzione e della legalità. Non è cosa da poco e lui ne è cosciente al punto di dire che “il nostro esperimento non sarà meno importante della rivoluzione russa“. Fantasie? Forse, ma ci credono in molti, anche a Washington.
Dieci giorni dopo il voto cileno, il 15 settembre, alla Casa Bianca si tiene una riunione a cui partecipano il presidente Richard Nixon e il direttore della Cia, Richard Helms. “Una possibilità su dieci – avrebbe detto il presidente secondo gli appunti di Helms ma liberiamo il Cile da quel figlio di puttana! Vale la pena di provarci; noi non saremo impegnati direttamente; nessun contatto con l’ambasciata (Nixon era fuori di sé perché i dispacci da Santiago avevano dato per sicura l’affermazione delle destre, n. d. r); dieci milioni di dollari a disposizione e anche di più se necessario; impiego a tempo pieno per i nostri agenti migliori; una strategia: strozzare l’economia; tempo 48 ore per pianificare l’azione”. Un documento, reso pubblico a dicembre ’98 dall’amministrazione Clinton, conferma l’autenticità degli appunti. “Il capo – si legge nel promemoria ha sottolineato che il progetto deve essere pronto per il 18 perché Henry Kissinger in persona vuole avere tutti i particolari della missione CIA”.
L’azione degli Stati Uniti è certamente una delle cause che hanno portato alla fine tragica dell’esperienza cilena dopo mille giorni di governo. Ma questa considerazione non deve far trascurare il fatto che il sogno rivoluzionario di Allende nasce già debole in un paese diviso, sia da un punto di vista politico sia da quello delle condizioni sociali ed economiche. E questa fragilità accompagnerà sempre l’esperimento Allende.
Tanto per cominciare il candidato delle sinistre non dispone della maggioranza assoluta. Per Allende, nel 1970, ha votato poco più di un milione di cittadini (1.070.334 voti), il 36,2% dell’elettorato, contro gli 821. 501 suffragi” (il 27,4 %) raccolti da Rodomiro Tomic, il candidato della Democrazia Cristiana che si è presentato agli elettori con un programma radicale che prevede espropri a vantaggio degli agricoltori e la nazionalizzazione delle miniere di rame. Soprattutto, però, l’alleanza delle sinistre (comunisti, socialisti, radicali e socialdemocratici) ha battuto di misura Jorge Alessandri, ex primo ministro sostituito nel ’64 dal democristiano Eduardo Frei candidato dalla destra, che ha raccolto 1.031.159 voti, ovvero 39.175 in meno di Unidad Popular. Allende è in testa, insomma, ma di poco. E molti attribuiscono il sorpasso ai danni di Alessandri all’infelice conferenza tv del candidato di destra, apparso tanto vecchio da rasentare il rimbambimento (“Vedete che le mie mani non tremano!” disse lo stesso Alessandri davanti alle telecamere il giorno del voto, cercando con poco successo di rimediare alla magra figura).
La grande rivoluzione nasce quindi da una vittoria elettorale risicata, tutt’altro che trionfale a un’analisi approfondita perché le sinistre oltre tutto non sono nemmeno in ascesa. Nelle elezioni del ’70 le sinistre avevano ottenuto infatti, una percentuale di voti inferiore a quella raggiunta nel ’64 (quando Allende ottenne il 38% abbondante nonostante i massicci aiuti della CIA al candidato democristiano) tra i nuovi elettori, nel ’70, Unidad Popular ottiene solo il 13,3 % dei voti. La frana della democrazia cristiana, dopo le delusioni della rivoluzione nella libertà di Edoardo Frei, aveva portato quindi più consensi alla destra che non alla sinistra radicale. Nella stessa Democrazia cristiana, poi, buona parte dell’elettorato e del partito erano senz’altro a destra delle posizioni espresse da Tomic.
Unidad Popular, insomma, non rappresentava la maggioranza nel paese. Non solo: il presidente avrebbe dovuto scendere a patti con il parlamento, cui spettava il potere di ricusare il capo dello stato e i ministri, controllato dai democristiani e dalla destra. Ad Allende, infine, sfuggiva il controllo della Contraleria General de la Republica, cui spettava la supervisione sugli atti amministrativi dell’esecutivo, e della magistratura. Minoritario nel paese e nel parlamento, Allende non poteva contare nemmeno sulla compattezza di UNIDAD POPULAR. La via pacifica e parlamentare al socialismo era apertamente osteggiata a sinistra dal Mir; il Movimiento de Izquieerda Revolucionaria, convinto del primato della violenza; e il Mir, pur non facendo parte di UNIDAD POPULAR esercitava un forte richiamo. La stessa direzione del partito socialista, guidata da Carlos Altamirano, non escludeva la “via violenta” mentre Aniceto Rodrìguez, leader dell’ala riformista era in minoranza. L’alleato più fidato era il partito comunista di Luis Corvalàn, che sosteneva con decisione la “via cilena” di Allende, considerata l’unica strategia possibile in quel momento. Ma Corvalàn nutriva forti perplessità sulle qualità politiche del presidente: “dimostra un certo ristagno – disse durante la campagna elettorale -. Tende a ripetersi, cade nei luoghi comuni e in frasi fatte”.
Anche il panorama economico non è dei più favorevoli. L’avvio della nazionalizzazione delle miniere di rame non ha portato i frutti sperati con i debiti del Cile che sono saliti oltre il livello di guardia, al punto che metà dell’export serve a pagare gli interessi. L’indipendenza economica, inoltre, resta un sogno, visto che il 60% dell’import è legato agli Stati Uniti, mentre la moderata crescita dei consumi della metà degli anni ’60, la chiave del riformismo di Frei, si è tradotta in un esplosione inflazionistica. Intanto la violenza è già entrata di prepotenza nella vita politica cilena. Nel giugno ’69 i servizi di sicurezza avevano scoperto un centro di addestramento alla guerriglia nei pressi di Santiago, in cui si trovano armi e munizioni del Mir. a Melipilla, non lontano dalla capitale, i contadini occupano 44 haciendas agricole e Alessandri, il candidato della destra, non riesce a raggiungere il sud del paese perché i minatori sbarrano la ferrovia al suo passaggio. Anche la destra fa le prime prove di saldatura tra gli interessi della grande borghesia e i ceti medi, ma la vera, ben più inquietante, novità è il maggiore attivismo di un nuovo protagonista, fino ad allora eccezione nel panorama latino-americano, assente dalla scena politica: l’esercito. Il 29 settembre 1969, un anno prima dell’elezione di Allende il reggimento di Yungai, punti di diamante dell’esercito, arriva in ritardo al Te Deum in onore del presidente della Repubblica. È un atto di insubordinazione (che costa il posto a sei ufficiali) presto imitato il generale Viaux, comandante del primo corpo d’armata, occupa una caserma di Santiago per protesta contro le paghe basse dell’esercito. Una rivendicazione sindacale destinata a rientrare, ma anche una inquietante spia d’allarme. È questo il Paese che Allende dovrà governare. Ma prima, poiché nessuno ha ottenuto la maggioranza assoluta, spetterà al congresso scegliere tra i due candidati che hanno riportato il maggior numero di suffragi.
La partita si gioca tra la metà di settembre e il 24 ottobre, data in cui il congresso si riunisce per l’elezione del presidente. E gli Stati Uniti non esitano a praticare, fin da subito, il gioco duro. “Deve sapere – scrive l’ambasciatore USA Korry al presidente. uscente Frei – che non lasceremo arrivare in Cile una sola vite o un solo dado, sotto Allende. Se Allende assumerà il potere faremo tutto il possibile per condannare il Cile e i cileni alle più dure privazioni e miserie. Non si faccia illusioni signor Frei”. Proprio Eduerdo Frei era l’interprete necessario del piano uno: far eleggere Alessandri in parlamento, spingendo i democristiani, contro la consuetudine costituzionale, a favore del secondo arrivato.
Alessandri si sarebbe dovuto dimettere subito dopo per indire nuove elezioni con Frei candidato unico contro le sinistre.È un piano che il presidente uscente rifiuta seccamente, anche se non si fa illusioni sul futuro del paese.”Frei – scrive Carlos Prats, il generale che parteciperà più avanti al governo Allende – ha riunito me, il generale dei carabineros e i comandanti delle forze armate per dirci che l’ascesa al potere di Allende ci farà cadere irreversibilmente nel marxismo”. Ma almeno per ora, regge il filo della collaborazione democratica tra UNIDAD POPULAR e la Democrazia cristiana. Allende accetta un emendamento alla carta costituzionale in base a cui l’esecutivo garantisce espressamente libertà civili, libere elezioni e libertà di espressione e la DEMOCRAZIA CRISTIANA, pur tra contrasti interni, decide di schierarsi con il vincitore delle elezioni, anche perché, a convincere gli incerti, arriva l’esito, disastroso, di “Track II” il piano di riserva della CIA che prevede di sequestrare, con l’aiuto di un paio di gruppuscoli vicini alla destra cilena e alle forze armate, il comandante in capo dell’esercito René Scneider, vicino agli americani, ma colpevole di voler rispettare la tradizione di non intervento dei militari. Il rapimento di Schneider avrebbe dovuto suscitare l’indignazione dell’esercito, l’ammutinamento e la cacciata di Allende. L’operazione deve essere condotta da cileni, ma tutta la logistica è curata dall’addetto militare americano a Santiago Paul Wimert che organizza le riunioni, prepara il piano, fornisce la armi (di fabbricazione cilena, sottolineerà in seguito Kissinger, nel tentativo di sostenere l’estraneità Usa).
L’agguato a Schneider però non riesce. Il generale, quando una mazza sfonda il vetro della sua automobile, estrae la pistola per difendersi e gli assalitori sparano. Schneider morirà due giorni dopo, i cospiratori vengono ben presto individuati e il complotto sortisce l’esito opposto: Allende e Frei, assieme ai generali delle forze armate sfilano per le vie di Santiago alla testa di un corteo funebre. Il congresso, pochi giorni dopo elegge Allende alla massima carica della repubblica. È il 3 novembre 1970, davanti alla Moneda sfila un corteo impressionante di tv e reporter da tutto il globo. Il Cile, per la prima volta nella sua storia, non è periferia del mondo. E Pablo Neruda, il poeta comunista che ha ritirato la sua candidatura alle elezioni per dare spazio ad Allende può declamare: “Dai deserti di salnitro, dalle miniere sommerse di carbone, dalle alture terribili dove si trova il rame che le mani del mio popolo estraggono con fatica disumana è sorto un movimento liberatore di enormi proporzioni che ha portato alla presidenza del Cile un uomo chiamato Salvador Allende, perché realizzi atti di giustizia improrogabili“.
E quell’improrogabile è un pò la nota che caratterizza il primo governo di Salvador Allende, una sorta di patchwork cucito con vecchi volpi parlamentari e volti nuovi. Per la prima volta quattro ministeri chiave (Finanze, Lavori pubblici, Case e Lavoro) vengono affidati a semplici operai. Allende ha fretta, non vuole sprecare la “luna di miele” con il paese. Il primo anno di UNIDAD POPULAR si trasforma così in una baldoria di conquiste quasi impossibili, “una festa e un dramma“, come la definirà il sociologo Tomàs Moulian. Allende lancia, innanzi tutto, il programma dei 40 provvedimenti: primo fra tutti la distribuzione de mezzo litro di latte al giorno ai bambini cileni, che sembra un bel gesto finché non se ne conosce il costo enorme, cento milioni di dollari. Ma il presidente non si ferma. “I nostri proponimenti – replica agli scettici – potranno sembrare troppo semplici a coloro che preferiscono le grandi promesse, ma il popolo ha bisogno di alloggiare la famiglia in case decenti, di far istruire e figli in scuole che non siano solo per i poveri, di mangiare a sufficienza ogni giorno dell’anno; il popolo ha bisogno di lavoro, di protezione nella malattia e nella vecchiaia, di rispetto per la persona “. E sull’onda di queste parole nasce il “Treno della Salute”, mentre l’istruzione primaria diventa gratuita e vengono ridotte le tasse per quella secondaria.
Con una trovata degna di Evita Peròn si annuncia che i migliori alunni della scuola primaria trascorreranno l’estate nel palazzo presidenziale di Viña del Mar, assieme a Salvador. C’è spazio pure per il Palazzo del Matrimonio, in questa stagione di rivincite, culminata nella “Giornata della Dignità Nazionale”, il 15 luglio del 1971, quando il congresso approva all’unanimità la nazionalizzazione del rame affidando ad Allende la questione degli indennizzi: le grandi compagnie americane non avranno un solo dollaro. Nel dicembre 1971 il numero di banche e industrie controllate dallo stato è già raddoppiato da 31 a 62, mentre altre 39 imprese risultano requisite in nome della legge che prevede l’intervento pubblico quando non vengano assicurati servizi essenziali alla comunità. Nelle campagne vengono espropriate 1300 proprietà fondiarie.
È una strategia che funziona, in un primo momento. Nell’aprile ’71 UNIDAD POPULAR stravince le elezioni comunali, ottenendo la maggioranza assoluta, con il 50,86%. Mai, del resto, i cileni si sono sentiti cosi ricchi: grazie a forti stimoli all’economia il prodotto interno lordo cresce dell’8,6% mentre la disoccupazione si dimezza nel giro di pochi mesi e l’inflazione scende dal 34 al 22 per cento. Crescono i consumi e, di riflesso, le importazioni, ma grazie alle alte quotazioni del rame a fine anni ’60, Allende si ritrova in cassa massicce riserve valutarie. Il teorema del ministro del Lavoro Pedro Vuskovic è di una semplicità disarmante: pompare nell’economia tutta la liquidità possibile (il circolante aumenta in un anno del 110%), accrescendo la spesa pubblica (+70%). L’aumento della domanda avrebbe prodotto un aumento della produzione e un parallelo calo della disoccupazione.
Il ciclo virtuoso sembra inattaccabile, ma la luna di miele finisce presto. Già nell’ottobre 1971 gli investimenti sono in caduta libera (-71,3%), nonostante la forte crescita dell’impiego statale. La caduta del prezzo del rame, a causa della congiuntura internazionale (e della pressione delle corporation USA) fa precipitare il valore delle esportazioni proprio quando crescono le importazioni dei beni essenziali: in un anno le riserve crollano da 343 a 32 milioni di dollari, le importazioni di macchinari industriali del 22%. Intanto gli USA sono di parola: grazie alle pressioni sulla Banca Mondiale e sul Banco Interamericano de Desarrollo i crediti passano dai 300 milioni di dollari all’anno dell’era Frei a meno di 30. Non ci sono soldi nemmeno per i pezzi di ricambio: nel 1972 un autobus su tre e un taxi su cinque è fuori uso. Il quadro economico peggiora, inoltre, per l’esodo di massa della borghesia. Nel solo settembre 1970, prima ancora dell’insediamento di Allende, scappano in 12 mila, presto seguiti da altri 17 mila. Negli stessi giorni lasciano le banche cilene 87 milioni di dollari. Semplice paranoia ? Non proprio se, come dirà più tardi un ministro di UNIDAD POPULAR, “l’uso improprio di termini, quale nemico di classe, potere totale, rivoluzione, contribuì a risvegliare reazioni emotive“.
Un modo elegante per ricordare le “prese di possesso” accompagnate dallo slogan “i poveri benvenuti, i ricchi nella merda” nelle campagne del sud del paese dove i vecchi proprietari si stanno dividendo tra i “tuvos” (coloro che avevano) e i “tienes” (coloro che hanno). I primi hanno già perso la terra e meditano vendetta, i secondi liquidano il seminato, svendono il bestiame e si armano. Guai quando questa rabbia si unirà a quella degli industriali e, soprattutto, della piccola borghesia. La riforma dovrebbe riguardare solo le grandi imprese ma, sotto la spinta dei lavoratori, vengono assorbite dalla sfera pubblica circa 200 imprese medie e piccole, creando una sorta di panico nell’imprenditoria privata, con pochi vantaggi, tra l’altro, per le casse pubbliche: a fine ’72 il governo, infatti, si troverà a possedere 318 imprese di tutti i tipi, anche fabbriche di gelati e di bottoni che nessuno, estromessi i vecchi imprenditori, sa far funzionare.
Nel settembre del ’72 un’inchiesta del settimanale Ercilla rivela che l’azione di governo è sentita come una minaccia dal 60% della popolazione e che il 77% della classe media dichiara di avere serie difficoltà ad acquistare beni di prima necessità. Pochi mesi prima, nei giorni di natale le donne dei ceti medi e alti erano scese in piazza organizzando la “marcia delle casseruole“. Assai più insidiose sono le proteste dei ’72: ad agosto i commercianti al dettaglio dichiarano lo sciopero generale poi tocca ai camionisti. La scintilla è “il sospetto dell’intenzione” di creare un apparato pubblico di trasporti nella provincia di Aysen, ma sotto cova la rabbia dei ceti medi. È una battaglia campale, quella che si apre sotto la direzione di Leòn Villarin, segretario del sindacato dei trasporti. Il paese viene spezzato in due. I commercianti abbassano le serrande, i sostenitori del governo assaltano i negozi chiusi. Medici, avvocati, scuole e università scendono in sciopero; gli imprenditori proclamano la serrata. Gli operai replicano con le occupazioni. Di notte nei quartieri alti echeggia il suono delle casseruole, mentre i camioneros c Patria y Libertad, un gruppuscolo di destra, disseminano le strade di bande chiodate. Il Cile è un paese in ginocchio, come volevano gli Usa; che ottengono il risultato con poca spesa grazie al cambio nero e alla svalutazione; è la CIA a finanziare gli scioperanti, i 10 mila camionisti, con oltre un milione di dollari.
Vadano a Miami con le loro zie – recitava Pablo Neruda di fronte all’esodo dei borghesi – . “Io rimango a cantare con gli operai in questa storia e geografia nuove”. Occorrerebbe una forte disciplina rivoluzionaria capace di fornire un’arma al governo per raddrizzare, con una politica di austerità i conti con l’estero e riavviare gli investimenti. Invece si innesca una spirale di nuove rivendicazioni: nei primi due anni di UNIDAD POPULAR, gli scioperi aumentano del 170 per cento. Di fronte alla crisi ci vorrebbe una reazione decisa e chiara del governo. Ma qui esplodono le divisioni della coalizione tra riformisti e rivoluzionari e il dissenso insanabile tra il partito comunista e il Mir. Il paese, intanto, sembra destinato a un assurdo muro contro muro. Nemmeno le elezioni offrono una via d’uscita: il voto per il parlamento del marzo ’73 dà infatti alla coalizione di sinistra la stessa percentuale del ’69. Non è abbastanza per ridare solidità al governo, ma è più che sufficiente per impedire che la destra (comunque in crescita del 4,4%) chieda la destituzione di Allende (per rimuovere il capo dello stato occorrono i voti di due terzi del congresso).
La vera novità della campagna elettorale del ’73 è che essa si svolge sotto l’attenta supervisione delle forze armate. È dall’aprile ’72 che un militare siede nella poltrona di ministro dell’interno. Lo ha deciso Allende di fronte ai conflitti della coalizione, paralizzata per i dissensi legati alla nomina di un ministro delle Miniere. “Qual è la situazione delle forze armate?” chiede a bruciapelo ad Allende il presidente algerino Houari Boumedienne, durante la tappa del capo dello stato cileno verso Mosca. Lui risponde sottolineando la tradizionale neutralità politica dei generali cileni e spiega come li ha fatti entrare nel governo. Se non riuscirete ad estirpare radicalmente quanto vi è di reazionario nell’esercito – replica Boumedienne – non vedo un grande futuro per voi…”.
Da maggio la situazione precipita. In una riunione a sostegno del governo di 800 ufficiali della guarnigione di Santiago, il generale Carlos Prats viene fischiato. Tra i pochi solidali con Prats c’è un generale destinato a diventare tristemente famoso: Augusto Pinochet Ugarte. Nello stesso mese Allende e costretto a dichiarare lo stato di emergenza per arginare gli scontri tra le opposte fazioni. Ma, con i militari fuori dal governo (per loro scelta) dopo il rimpasto di primavera l’autorità di Allende è oramai ai minimi. La Democrazia cristiana ha scelto il suo nuovo segretario. È Patricio Alwin, dell’ala destra intransigente. Anche la chiesa, contraria alla riforma scolastica, si schiera contro il governo. Il 29 giugno si verifica il primo tentativo di golpe con il colonnello Souper che, a capo di un reggimento di blindati, intima la resa della guardia del palazzo della Moneda. Ma il putsch fallisce. Quando Allende arriva alla Moneda c’è solo qualche sparo isolato e, quel più conta, il numero dei generali fedeli è rassicurante. Tra loro c’è anche Augusto Pinochet che, nel suo libro, definisce questo colpo di stato una prova per esplorare la capacità di difesa del governo e lo schieramento delle forze all’interno dell’esercito. E per valutare anche quale fosse la vera popolarità del presidente che, nella stessa sera, venne fischiato dai militanti dell’estrema sinistra che vogliono chiudere il congresso.
Dopo aver formato il nuovo governo Allende assiste, il 22 agosto, alle dimissioni di Prats e di altri militari. Gli alti gradi della Marina e dell’Aviazione stanno intanto preparando il golpe. Sono loro a lanciare l’ultimatum al capo di stato maggiore dell’esercito, ovvero Pinochet: o con noi o contro. E Pinochet, scaltro, alla fine decide di impegnarsi. Quando l’11 settembre 1973 Allende prova a mettersi in contatto con Pinochet, non risponde nessuno. “Avranno già arrestato Augusto” pare che abbia esclamato.
Pochi minuti dopo Salvador Allende Gossens di Valparaiso, dopo avere rifiutato di arrendersi e aver combattuto fino alla fine, si toglie la vita, proprio con quel fucile che gli era stato regalato da Fidel Castro, nel palazzo presidenziale che ha voluto difendere. “Restare qui – disse -, a la Moneda, ha un significato politico molto preciso. Sarebbe terribile se, dopo tutto quel che è successo, il presidente del Cile finisse per scappare come un topo, a morire su una strada o farsi trattare da codardo”.
Fuori, intanto si consuma la tragedia delle torture, delle esecuzioni di massa, dell’esilio di un milione di persone (quasi un cileno su dieci), che brucia ancora alla coscienza del mondo intero, come dimostrerà la richiesta di estradizione del giudice spagnolo Garzòn nei confronti di Pinochet con l’accusa di genocidio.
. . .
Fonte: Partido Socialista de Cile
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.