di Stefano Betti
Alcuni sostengono che il declino dello Stato sociale nel nostro paese, cosi come fu costruito nei decenni successivi al dopo guerra, quelli della guerra fredda tanto per intenderci, iniziò di fatto con la separazione fra Banca Italia e Tesoro. Un divorzio, sugellato all’inizio del 1981 da uno scambio epistolare fra Ministro e Governatore.
Saltando il Consiglio dei ministri. Eludendo il Parlamento.
Cosa accadde, in realtà? Staccandosi dal controllo del Ministero, la Banca d’Italia non era più costretta a ricorrere a operazioni di mercato aperto, acquistando i titoli invenduti e, di conseguenza, immettendo moneta nel sistema e generando inevitabilmente inflazione, ma a tassi bassi. I titoli di Stato sarebbero stati acquistati da quel momento in poi da investitori privati, che avrebbero determinato l’interesse.
E così, fra l’uovo oggi della spesa contenuta degli interessi, ma ad inflazione galoppante, si preferì la gallina del debito pubblico domani, pigiato dalla spesa per interessi crescente. D’ altro canto, il mondo occidentale dieci anni prima era entrato a vele spiegate nel sistema dei cambi flessibili. Il Mercato reclamava la sua indipendenza dalla politica.
Ai socialisti non piacque tutto questo. Anche perché privandosi della capacità di programmare, che l’intervento della Banca centrale avrebbe garantito, come avrebbero potuto dare corso a una politica economica ispirata da principi socialisti? La crisi delle Comari, che vide Rino Formica affrontare Mino Andreatta nel 1982 ne fu l’epilogo visibile.
Dunque, il debito cresce con una sempre maggiore incidenza della spesa per interessi. Ma questo non ci esime dal riflettere sul volano sconsiderato della spesa pubblica di allora, come per molti aspetti di oggi, condizionata da sprechi, operazioni poco lecite, pressapochismi, disorganizzazione evidente.
Oggi siamo nelle mani dei possessori del debito pubblico, in larga misura esteri. Questa è la realtà.
Altri ancora, invece, vedono nelle privatizzazioni degli anni 90 il colpo di grazia allo Stato sociale. Bettino Craxi più volte dichiarò che i socialisti non sarebbero stati certo contrari alle privatizzazioni, ma non senza dubbio favorevoli a una cessione indiscriminata di tutti i gioielli di famiglia. Come qualcuno pensava di fare. Il 1991 è l’anno del braccio di ferro coi liberali e con settori della DC. E con buona parte dell’imprenditoria italiana, ingolosita dagli asset pubblici che avrebbe potuto acquisire.
La fine è nota.
La sinistra che emerge dalla fine della c.d. Prima Repubblica è in larghissima misura erede del disciolto partito comunista, alleata con le terze linee della DC. C’è una grande voglia di affrancarsi dall’essere considerati figli di un dio minore. Quale migliore garanzia quella di affidarsi di fatto al neo liberismo?
E così, costituendo e distruggendo un partito in media ogni otto anni, la sinistra, che tutto è stata meno che socialista (e quindi non è stata vera sinistra), invaghitasi di Blair, un paradossale Tatcher labourista, chiusa nel recinto dogmatico che si era autoimposta, è stata certo più efficace del centro destra nel privatizzare.
Nelle macerie di un fallimento, quello della sinistra ex comunista post Tangentopoli, occorre riprendere il filo interrotto allora. Come socialisti.
E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete.