di Maurizio Degl’Innocenti |

Gaetano Pilati nacque nel 1881 a San Lazzaro di Savena (Bologna). Primo figlio di una famiglia mezzadrile, a cui seguirono i fratelli Alfonso, Alfredo e Maria. Nonostante il basso livello di istruzione il padre era tra i pochi che leggeva le riviste. Gaetano coltivò la lettura, e si fece una preparazione personale sui manuali Hoepli. La sua scrittura manifestava una sufficiente sicurezza grafica, ma con un disinvolto uso della sintassi e della grammatica. Manifestando una precoce attitudine alla intraprendenza creativa, con un amico prese in affitto terreni vicini al podere paterno e cominciò ad adattare gli arnesi dei campi e i telai di cui si servivano i contadini in casa. Sembra che si costruisse da solo uno strumento musicale imparandolo a suonare, fino a mettere su un’orchestrina. Comunicativo e sociale, scrisse e recitò zirudele, storielle per le feste e le veglie, in campagna. In tali occasioni incontrò Amedea, la futura compagna della vita, anch’essa di povera famiglia contadina.

Insieme decisero di crearsi un mondo nuovo, abbandonando quello patriarcale e tradizionale della campagna, e nel 1907 si trasferirono in città, a Firenze. Una città “altra” rispetto alla più vicina Bologna. Fu una scelta anticonformista. Gaetano e Amedea si sposarono nel 1908, e nel luglio 1909 nacque Bruno. A Firenze prese domicilio nel vicolo Morosi, dove risiedeva anche Augusto Mingozzi, compaesano. E mentre Amedea faceva la stiratrice, Gaetano intraprese diversi mestieri prima di essere assunto come manovale dall’impresa edile Donini, che aveva l’appalto della caserma della cavalleria sul Lungarno Pecori Giraldi. Il passaggio dalla condizione di lavoratore dei campi a quella di operaio edile era un passaggio tradizionale, il più semplice. Nella periferia popolare di Firenze Gaetano ricreò un mondo proprio, innanzitutto intorno agli affetti famigliari, e poi coltivando solide relazioni interpersonali: qui potette realizzarsi finalmente nel e con il lavoro. Insomma, sia sotto l’uno sia sotto l’altro profilo fu protagonista di se stesso, al di fuori di vincoli tradizionali, pregiudizi, subordinazioni come quelli che legavano il mezzadro al “padrone”. Gaetano era e si sentiva libero.

Dalla corrispondenza con il fratello si evidenziava lo scontro tra due mondi: quello patriarcale del padre, mezzadro, che avrebbe voluto tenere riunita a sé la famiglia, diffidente verso l’innovazione e il futuro; e quello del giovane Pilati, già animato dal desiderio “di combattere le paure e le superstizioni dei contadini”, e che nulla temeva (“io lasciai Bologna mi buttai in Firenze senza amici né conoscenti ma senza paura”). Scrivendo al fratello il 14 aprile 1908, prevedeva le difficoltà di riunire la famiglia nell’eventualità che anche i fratelli si ammogliassero, e comunque negava per sé l’ipotesi di tornare alla condizione di contadino “avendo avuto ora l’esperienza che in qualsiasi mestiere si sta meglio di molto e si guadagna di più”. Fu invece lui a esortare i fratelli a compiere il suo medesimo passo (“io non vi voglio sforzare, pensateci voialtri due che è questo il momento di farmi una posizione”), tanto più che la prospettiva di riscatto politico nelle campagne gli sembrava di lungo periodo (“prima che tra i contadini si sia costituita una Lega cosciente da poter lottare sarà ancora lungo lo sperare e poi in ultimo il contadino deve sparire per potere liberamente lottare contro il capitalismo”).

Che cosa rappresentava per un ex-mezzadro il lavoro dipendente, da muratore, in una città? Ricorrendo alle parole dello stesso Pilati: entrate più abbondanti, “tranquillità e mondo più semplice, più bello e comodo di vivere”, ospedale in caso di bisogno, assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, “festa e sera di libertà senza paura del secco e della grandine”. L’accenno ai “comodi” e alle entrate più certe, ma anche ai “nuovi” bisogni di sicurezza sociale sembrava preludere alle motivazioni che avrebbero portato nel secondo dopoguerra i giovani rurali all’esodo dalle campagne. Il successo personale e in pubblico non ne modificarono tuttavia la mentalità e il carattere schietto e semplice dei comportamenti, che rimasero quelli di un lavoratore, dei campi o muratore. Quando finalmente abitò in una casa di proprietà, essa venne ammobiliata con gusto ma in modo sobrio, con gran parte dei mobili costruiti da sé medesimo. E’ significativo che già residente in città scrivendo al fratello mostrava di non avere dimenticato “il linguaggio dei campi”, scandendo i tempi con le stagioni dei lavori campestri.

Il 29 maggio 1908, dopo avere assicurato piena salute per sé e la moglie, scriveva: “qui splendida campagna uva abbondante; hanno fatto ora la prima annaffiatura di solfato”. E il 28 giugno 1908: “Qui fa caldo la mietitura è al temine”. Collocandolo all’interno dell’ambiente antifascista fiorentino, così si espresse Salvemini: “L’uomo certamente più notevole, per intelligenza e carattere era Gaetano Pilati. Aveva cominciato la vita dalla cazzuola… quando andava a Roma per le sedute parlamentari, neppure desinava in trattoria; comprava in rosticceria un po’ di frittura, che mangiava in piedi, come quand’era muratore. La probità e competenza gli avevano assicurato la fiducia delle banche, e costruiva interi blocchi di case”. Non meno significativa fu la volontà di ricreare a Firenze, presso di sé, l’unità famigliare: il retaggio contadino! Sopra il magazzino del cantiere di proprietà in Via Aretina, si tirò su da solo, un po’ alla volta, i locali dove via via chiamò i famigliari.

Alfredo e Alfonso entrarono in società con Gaetano nel 1914, Maria fece la domestica e magazziniera in uno scatolificio di Via Masaccio. Infine anche i genitori si ricongiunsero con i figli. La prospettiva sempre perseguita di indipendenza personale e di auto-emancipazione, la spinta verso l’innovazione, il culto del fare e del lavoro come valore, il costante rapportarsi agli altri, la percezione di un destino condiviso, la frequentazione di un ambiente già predisposto alla acculturazione sociale e politica costituirono il terreno favorevole per il suo passaggio al socialismo, fino all’adesione convinta e sempre più partecipata. Così scriveva al fratello il 1° maggio 1908: “Oggi primo e unico primo Maggio che io abbia avuto il piacere di festeggiare con vera soddisfazione. Qui ad occasione della giunta comunale popolare ha avuto una straordinaria manifestazione benché le classi siano meno organizzate di Bologna.

Alle ore 9 dopo l’inaugurazione dello stendardo della Camera, della lega tranvieri e un altro non so quale, un imponente corteo ha mosso dalla Camera del lavoro con banda dei tranvieri e fanfara dei repubblicani e un centinaia di bandiere tra le quali una nera degli anarchici che portava il nome del libero pensiero e si è portato al palazzo Comunale (Palazzo della Signoria) ove era esposto il gonfalone municipale e sono entrati nel grande salone storico del Cinquecento ove ha parlato un consigliere, il sindaco illustrando gli storici monumenti che avevano attorno i quali rappresentavano tutti le tirannie della vecchia signoria. Esso è stato acclamatissimo per la concessione di tale permesso, poi ha ceduto la parola all’onorevole Berenini deputato socialista che ha parlato un’ora applauditissimo. Dopo è stata approvata la domanda di amnistia ai detenuti politici che il Sindaco presenterà al Governo; quindi usciti e come prima il corteo composto percorrendo le vie principali si sono recati ad inaugurare la nuova sede dei tranvieri che io poi non ho seguito essendo le 12.

E’ veramente glorioso, come ha detto l’oratore che nel cortile del municipio ove gli anni scorsi era come accampamento delle guardie e dei carabinieri che nel 1898 bagnarono di sangue le piazza per impedire e soffocare la dimostrazione oggi sfilano i vessilli del popolo e il popolo stesso e poche guardie stazionano sulle porte calme e rispettose come a rendere gli onori ai vittoriosi”. Erano i tempi della giunta comunale popolare del radicale Francesco Sangiorgi, con la partecipazione dei socialisti: un evento epocale per la città, o almeno così venne percepito. Il primo maggio del 1908 fu carico di significati in una ritualità già sperimentata, tale da trasmettere “il piacere di festeggiare”: l’inaugurazione dello stendardo alla camera del lavoro, il corteo di massa, la fanfara, lo sfilare di centinaia di bandiere, l’arrivo in Palazzo Vecchio, il saluto del sindaco e il discorso “politico” del deputato socialista Berenini nel Salone dei Cinquecento, il riformarsi del corteo in uscita per percorrere le principali vie cittadine. Un modo di ritrovarsi, di contarsi, di ribadire l’appartenenza. Se per l’ex-mezzadro Pilati questa rappresentò una delle prime “rivelazioni” fisiche e evocative del socialismo (fu comunque il “primo e unico” I maggio a cui aveva partecipato), ebbene lo fu in grande spolvero.

In realtà, l’acuta valutazione della difformità organizzativa del ceto operaio a Firenze e a Bologna ne attesta una precedente esperienza politica di un certo rilievo, se non altro in veste di osservatore niente affatto sprovveduto. E che tale non fosse lo dimostrano ancora altre lettere al fratello del 29 maggio 1908: “Ieri sera fummo a ricevere 30 bambini del Parmense come quando giunge il Re. Una folla enorme una quarantina di bandiere 4 bande musicali e i bimbi caricati su due splendide automobili che ancora non so da chi offerte. Fu una scena commovente”; e del 28 giugno 1908: “Delle notizie di Parma ne sarai al corrente anche tu; ed è da prevedere poco di sollevante. Lo sciopero generale non mi è sembrato generale, ma nemmeno caporale”.

L’iscrizione al Partito socialista avvenne però solo nel 1910: una scelta dunque meditata. In contemporanea si fece socio dell'”Andrea del Sarto”, una società di mutuo soccorso nel quartiere operaio, alla periferia della città, del Madonnone-San Salvi. Non trascurando neppure di dedicarsi all’organizzazione delle leghe, acquistò una popolarità crescente, fino ad essere eletto nel 1913 Presidente di quella Società, al cui risanamento finanziario contribuì personalmente. Nella impresa Donini aveva messo a frutto l’esperienza maturata negli anni precedenti, facendo il falegname, il fabbro, il cementista. Di fatto, il carpentiere. Sempre dimostrando grande capacità organizzativa e innovativa, e autentica passione per il lavoro. Diventò capo-muratore, intuendo allora le possibilità del cemento armato precompresso. Nel 1910 finirono i lavori al Palazzo della cavalleria, e Pilati si licenziò dalla Ditta Donini per dedicarsi in proprio alla piena applicazione dei propri felici esperimenti. Inventò così il tabellone di cemento armato, prefabbricato. Con il sistema del solaio Pilati furono costruiti gran parte degli edifici in Via Fiume, Via Nazionale, Via Zara, Via Lupi, Via Abba, Via Crispi, Via Nievo.

Nel 1914 la primitiva Ditta Pilati si trasformò in Ditta F.lli Pilati e A. Mingozzi, a cui si unirono per alcuni lavori anche i Donini e l’ing. Cassi di Arezzo. In guerra andarono tutti i fratelli Pilati: Gaetano, Alfonso e Alfredo. Tra il 1915 e il 1919, per quattro anni, l’attività della Ditta fu sospesa, e lo spettro della miseria tornò ad apparire. La moglie e il figlio si trasferirono presso la famiglia della sorella, di contadini. Vi era rimasto un solo uomo, con 9 figli, su un podere povero, pietroso e in ripida collina: l’alimentazione consueta non andava oltre alla polenta e ai fagioli, conditi con olio pessimo e soprattutto scarso, e al radicchio selvatico. Gaetano, che aveva già prestato servizio nel 1902-3 come caporale, fu richiamato come sergente di fanteria al 206 Reggimento, senza mai avvertire l’inconciliabilità tra patria e socialismo. In guerra si distinse per doti di coraggio e di inventiva, tanto da conquistare 1’11 febbraio 1917 una trincea nemica, il che gli valse la medaglia d’argento e la promozione sul campo ad aiutante di battaglia. Successivamente lo scoppio di una granata gli procurò l’amputazione dell’avambraccio sinistro: una corazza a scaglie di acciaio, che egli stesso si era costruito, lo difese da ulteriori e ancora più gravi ferite.

Fu ricoverato all’istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, dove il Prof. Putti dirigeva un’officina per la costruzione di protesi. Qui ebbe modo di dedicarsi al progetto di diversi brevetti per arti artificiali e protesi meccaniche, da un tipo prensile di mano artificiale, di impiego generico, ad una “pinza a ganasce mobili”, adatta a artigiani e operai, ad un’altra più idonea per manovali e contadini. Studiò anche il prototipo di una gamba artificiale. Ma soprattutto si dedicò alla istruzione/formazione per l’uso delle protesi. Egli avvertiva fortissima l’esigenza di assistere il portatore di handicap non in modo generico, ma al fine di reinserirlo nella vita civile e nel lavoro, con ciò confermando forte senso civico e patriottico, e sentimenti di solidarietà nei confronti dei deboli, in questo caso i feriti e mutilati. Al termine della guerra tutti i fratelli-soci Pilati si ritrovarono a Firenze. La Ditta riprese l’attività con crescente successo in relazione alla forte domanda di case. Gaetano inventò e costruì lastre a camera d’aria stagna per la copertura dei tetti e blocchi forati di vari spessori per le pareti. I brevetti Pilati ebbero premi e riconoscimenti in Esposizioni nazionali e internazionali. La ditta si espanse al punto di dar vita ad una rete di concessionari. La ditta Gaetano Pilati, Impresa per lavori in Cemento e Cemento armato, con sede in Via Aretina 203, vantava ora “brevetti propri e acquistati”, e la “specialità in Solai a camera d’aria e Tettoie incombustibili”, ma si dichiarava atta alla messa in opera di tubazioni per fognature e pozzi, decorazioni, pietre artificiali, vasche, tini, serbatoi, pile, scalini e lavori in granito.

La Ditta costruì grande parte dei nuovi rioni popolari fiorentini, con soluzioni antisismiche e antincendio all’avanguardia, che gli valsero riconoscimenti e notorietà anche a livello internazionale. Fino al 1922 la ditta si limitò alla produzione di composti in cemento armato; poi costituì la CEIPS, cioè la Cooperative Edificatrice fra Impiegati e Pensionati dello Stato. Insomma, la Ditta diventò appaltatrice, con rapporti di lavoro privilegiati con le Cooperative edificatrici. Costruì per le Cooperative fra statali i villini di Via Scipione Ammirato e si impegnò per lo più per la SEI (Società Emancipazione Inquilini), fondata da Pilati nel 1923, con caratteristiche cooperativistiche, al fine di permettere l’acquisto dell’appartamento a riscatto. Le case costruite andavano dalla zona di Via Dati e Via Villari, a Via Speri, Via Fratelli Dandolo, Via Ramazzini, Via Lungo l’Africo. Realizzò il complesso della Rari Nantes e il Velodromo di Via Bellini, ampliò 1″‘Andrea del Sarto”. La Ditta SEI costruì 300 abitazioni nella sola Firenze, un terzo delle nuove costruzioni, dando lavoro a 300 operai.

Nel 1925 Pilati si trasferì in una casa SEI in Via Dandolo, al n. 10. Nella stessa via si trasferì Alfredo con la famiglia e i genitori. L’attività imprenditoriale di Pilati, così proiettata sull’edilizia popolare, in stretta connessione con le società cooperative, si accompagnava ad un impegno assiduo nell’associazionismo, il cui sviluppo accompagnava la più generale crescita del movimento operaio all’indomani del conflitto mondiale. Un polo associativo tipico della Firenze operaia e popolare fu proprio l'”Andrea del Sarto”, in Via Manara 8, di cui Pilati restò presidente fino all’esproprio fascista nell’ottobre 1922. Vi era un’intensa attività ricreativa, con il ballo, il pattinaggio, il biliardo e il giuoco delle carte: per Pilati e i famigliari forse riproponeva, ampliata, la veglia contadina, nella quale, più giovane, era stato così attivo. La Società vantava anche un coro e una banda, allestiva perfino opere liriche o operette, ma anche commedie o “lavori sociali” a fondo politico. Possedeva una biblioteca e organizzava conferenze di divulgazione scientifica o di natura politica. Di fatto era il polmone sociale, culturale e politico del quartiere, e un riferimento organizzativo per tutta la città.

Nel 1919 la funzione sociale della Società di mutuo soccorso trovò importante conferma in occasione delle manifestazioni e dei tumulti contro il caroviveri. Pilati, che era animatore dell’Alleanza cooperativa fiorentina, fece aprire una sede in Via Manara e prese a distribuire alla popolazione a prezzi calmierati quei viveri che erano stati consegnati dietro ricevuta dagli stessi negozianti. Furono così evitati saccheggi e eccessi. Il simbolo di tale ruolo era tutto racchiuso nel grande salone il cui soffitto era affrescato e decorato con le immagini dei grandi compositori lirici (Verdi, Rossini, Bellini, Puccini), con al centro figure simboliche che si stringevano la mano e la scritta “Lavoratori di tutto il mondo unitevi”.

E ancora simbolicamente, il crollo di questo mondo fu nell’ottobre 1922, in preparazione della marcia su Roma, con l’irruzione della squadra fascista “Luigi Loy” nel salone dove il coro stava provando le arie del Nabucco: tra bastonature e schiaffi, gli squadristi sfogarono la loro rabbia contro il soffitto decorato. Il consiglio direttivo venne immediatamente “dimissionato”. Un’epoca di graduale emancipazione e di libera socializzazione di masse operaie e popolari stava finendo, e se ne inaugurava un’altra di sopraffazione e di violenza. L’impegno politicamente più rilevante di Pilati restò senza dubbio la cura dei problemi aperti di quelli che chiamava “i sacrificati”, “i martoriati”, “i deteriorati” di guerra, anche dopo che il 1 maggio 1918 aveva lasciato la collaborazione con l’istituto Rizzoli per tornare a Firenze. Erano quelli i mutilati, gli invalidi, i reduci, gli orfani, le vedove e i genitori dei caduti in guerra: problema sociale di enormi dimensioni, ma anche e sempre più politico, poiché interessava -si disse- circa 12 milioni di italiani. L’impegno di Pilati si spese tutto all’interno della Lega proletaria fra mutilati, invalidi, vedove e genitori di caduti in guerra, di cui fu tra i fondatori a Milano nel novembre 1918 insieme agli onn. Maffi, Beltrami, Palmiotta, Mezzadri, Locatelli. La Lega era promossa dal Partito socialista per contrastare la politica strumentalmente assistenziale tra gli ex-militari (“umiliante elemosina”) attribuita agli ambienti governativi e ai nazionalisti tramite l’Associazione nazionale combattenti, manifestando invece l’ambizioso intento di farsi interprete di un diritto avanzante in stretto collegamento con il mondo del lavoro.

Vi era anche un elemento politico di fondo: contro la tesi del disfattismo (e quindi della viltà o peggio del tradimento) dei socialisti per la posizione contraria assunta da essi contro l’ingresso in guerra nel 1914-5, si voleva così affermare che tra socialismo e nazione non era affatto inconciliabilità. Del resto, Pilati rivendicava orgogliosamente i propri trascorsi, non disdegnando di firmare, nei momenti di accesa polemica, “un mutilato di guerra”. Pilati portò una sezione della Lega all'”Andrea del Sarto”, facendosene apprezzato propagandista in tutta la provincia di Firenze al punto che al I Congresso nazionale della Lega a Milano il 28-30 giugno 1919 ne fu eletto segretario generale organizzativo. Gli associati crebbero fino a raggiungere, secondo i promotori, circa 400.000 unità. Organo della Lega era “Spartacus”; e presso la “Andrea del Sarto” è oggi ancora conservata una grande bandiera rossa, con tale scritta. Le vicende della Lega si andarono intrecciando con quelle interne al Partito socialista, subendone i contraccolpi di natura frazionistica, e non fu sufficiente che essa proclamasse infine l’indipendenza dai Partiti cercando di spostarsi sotto l’ombra della CGdL, risultando anche quest’ultima tutt’altro che immune dalle lacerazioni, soprattutto dopo la scissione comunista a Livorno nel gennaio 1921 e quella riformista a Milano nell’ottobre 1922.

Pilati aderiva alla componente massimalista, che rappresentò ai congressi nazionali di Bologna del 1919 e di Livorno del 1921, quando fu eletto nella Direzione del Partito. Proprio in virtù della rappresentanza della Lega e della vasta popolarità nel 1919 fu eletto deputato nella circoscrizione Firenze-Pistoia con notevole successo personale, risultando terzo tra gli otto candidati socialisti eletti (Smorti, Caroti, Pilati, Pacchi, Targetti, Fortini, Garosi). Alla Camera fu membro della Commissione permanente esercito e marina, e della Commissione governativa per le pensioni di guerra. Il suo intervento più importante fu pronunciato l’8 luglio 1920 per provvedimenti a favore dei mutilati, invalidi, vedove, orfani e invalidi di guerra. Fu acclamato segretario generale della Lega in occasione del II Congresso nazionale che si tenne a Bologna nel giugno 1920: la sede venne spostata da Milano a Firenze. Ma le polemiche interne con i comunisti lo indussero a presentarsi dimissionario al terzo congresso nazionale già nel settembre 1921.

Nel novembre 1920 fu anche eletto consigliere comunale di Firenze. In Consiglio si segnalò per le proposte di costituzione di cooperative di gestione dei servizi pubblici comunali fra i dipendenti, in particolare perché fosse affidato “ad una costituenda cooperativa sindacale dei dipendenti il servizio municipale della pubblica nettezza” (8 dicembre 1921); di agevolazioni per la costruzione di case della Cooperativa ferrovieri; di un piano comunale per la promozione dell’edilizia popolare. Più volte intervenne per eliminare l’accattonaggio in città, una sollecitazione che si accompagnava alla richiesta di potenziare asili e ricoveri notturni per gli indigenti. Non fu rieletto alla Camera nelle politiche del 1921, ma fu nominato segretario della Federazione socialista fiorentina nel momento del contrasto più aspro con i fascisti, e in questa veste siglò il patto di pacificazione del 25 agosto 1921. Al XVIII Congresso nazionale del Partito socialista a Milano il 10-15 ottobre 1921, fu eletto nel Consiglio nazionale, schierandosi a fianco di Nenni e di Vella nel Comitato di difesa socialista. Fermo oppositore del fascismo, non mancò di tenere in vita una sorta di “soccorso rosso” per quegli antifascisti che si trovassero in difficoltà economiche, dando loro lavoro sia nella sua ditta sia nella collaterale SIBEP (Società italiana brevetti edilizi Pilati).

Non c’è da stupirsi dunque che diventasse tra i maggiori diffusori del “Non Mollare”, dopo che era entrato in contatto con Ernesto Rossi, giungendo a distribuirne 1500 copie per numero tra gli operai della città e della provincia. Con ciò, si può dire che fosse l’unico contatto, o comunque il più importante, tra la redazione clandestina del “Non Mollare” e le masse popolari. Pilati era diventato un obiettivo importante per lo squadrismo fascista fiorentino, sia sotto il profilo politico e simbolico, sia sotto quello organizzativo. I fatti del 3 e 4 ottobre 1925 furono conseguenti. Dopo avere perpetrato l’omicidio del repubblicano massone Giovanni Becciolini e davanti alla moglie e ai figli del socialista avvocato Gustavo Console, il cui studio in Via Roma era frequentato dagli antifascisti, i sicari del console fascista Tamburini, capo dello squadrismo fiorentino, aggredirono Pilati nel suo letto la notte tra il 3 e il 4, ferendolo a morte. Si compiva così la parabola del fascismo squadrista. Il processo contro i presunti sicari venne celebrato a Chieti nel maggio 1927. Inutili furono i tentativi di fare desistere la vedova dal costituirsi parte civile e di testimoniare. In aula, vincendo i clamori e gli ostacoli procedurali frapposti, Amedea Pilati riconobbe i sicari.

Ciò non impedì ai magistrati di mandarli assolti. Ma il gesto di Amedea entrò vivido nella memoria dell’antifascismo italiano. Nel 1993 le venne conferita la medaglia d’oro al Valore Civile. Arrivati, esuli volontari, in Argentina il 7 luglio 1927 a Buenos Aires, Amedea e Bruno Pilati trovarono aiuto presso un altro emigrato socialista, Guido Ronconi, di Codigoro, autodidatta e contadino, perseguitato e minacciato dai fascisti. Questi fondò una fabbrichetta di calze, che col tempo diventò una fabbrica con 300 dipendenti. Lì la vedova e il figlio Pilati trovarono lavoro e calore umano. Riaperto il processo dopo la guerra, la Corte di Assise di Macerata, il 5 gennaio 1952 ritenne provato contro sette imputati solo di avere agevolato la consumazione del delitto, essendo rimasto ignoto l’omicida, così come ignoti rimasero i tre giovani assassini di Console.

Nella vicenda umana e politica del protagonista, pur così straordinaria e irriducibile, si rifletteva quella di un’intera generazione. Ai tempi biologici dell’individuo si sovrapponevano quelli del “divenire sociale”, come allora si diceva. Dietro il comportamento e l’attesa del singolo, anche quando fosse apparentemente casuale, era il lento, ma possente pulsare dei processi di trasformazione della società, tra resistenze e adattamenti, e con forti accelerazioni ma anche con rallentamenti. La generazione di Pilati conobbe e partecipò ai primi esodi dalla campagna in un’Italia ancora prevalentemente rurale, ma che già conosceva i primi fermenti industriali e fenomeni accentuati di urbanesimo, lottando sempre e comunque contro la miseria e per l’occupazione. Percepì chiaramente il tramonto dell’epoca dei notabili e l’esigenza trionfante dell’allargamento della cittadinanza politica e sociale, riconoscendosi in nuove realtà di appartenenza lungo e tramite le quali correvano inediti processi di politicizzazione e sindacalizzazione.

A tali fenomeni l’idea socialista dette espressione, creando una propria simbologia e ritualità, e dando vita a istituti destinati a durare nel lungo periodo. I trasferimenti umani alla periferia delle città e il concentrarsi in determinati luoghi della manodopera contribuirono a dare una fisionomia popolare, se non proletaria, agli insediamenti, rispetto alla quale assunsero un valore emblematico autonome sedi di acculturazione e di intrattenimento. Tale fu l'”Andrea del Sarto”. Si andava, a rapidi passi, verso una società di massa, senza quasi mai dimenticare, però, i sapori e le voci dell’antico. Sullo sfondo, apparentemente ancora più lontano perché meno disponibile rispetto alla scelta individuale tanto da apparire caso o destino, eppure sempre così drammaticamente vicino ai singoli e alle famiglie, era il respiro profondo della “grande” storia, con eventi epocali e universali come la guerra mondiale. In anni di sconvolgimenti epocali, come la guerra europea, la rivoluzione bolscevica e il fascismo, quella generazione si trovò ad affrontare il difficile passaggio da un’Italia liberale e elitaria ad una democrazia parlamentare di massa: il passaggio, in tutta evidenza, non riuscì, ed essa ne subì le conseguenze, anche in modo tragico.

Sarebbe un errore di prospettiva, non lecito allo storico, guardare con gli occhi di oggi agli uomini della generazione di Pilati, confinandone in un ambito di ingenuità e di velleità utopica il mondo affettivo, le attese, gli sforzi compiuti. Tanto più che essi, più di altri, furono uomini di idee e di fatti. Ma può essere controverso se, complice il fascismo, scomparissero non lasciando eredi diretti; oppure se il seme da essi gettato non andasse perduto e nel secondo dopoguerra tornasse a germogliare in un contesto diverso, e anzi, nel legame tra antifascismo e Resistenza, si costituisse a fattore identitario e costitutivo della Repubblica. E’ una ragione di più per tornare a studiarli ricorrendo al consolidato genere biografico, l’unico, del resto, in grado di cogliere l’intrecciarsi misterioso dei tre livelli sopra ricordati: il tempo biologico dell’individuo, il vitale pulsare della società e il respiro profondo della “grande” storia. Rispetto ai precedenti studi di Pietro Costantini del 1978 e Paolamaria Ballardin del 1998, il saggio di Guido Bonsaver, intitolato Vita e omicidio di Gaetano Pilati, è costruito tra indagine storica e racconto: due aspetti niente affatto conflittuali, quando, come in questo caso, sia condivisa la formalità biografica di un personaggio, ricostruita non solo nei passaggi fondamentali, ma anche, per quanto possibile, nella quotidianità dei comportamenti, delle abitudini, degli affetti in un intreccio costante con le vite di altri, fino a dare corpo e colore a figure che altrimenti rimarrebbero nell’ombra, in un grigiore dai contorni indefiniti.

Il risultato è che dalle pagine più riuscite del saggio di Bonsaver esce uno spaccato sociale vivace al cui interno il protagonista si muove finalmente restituito “a vita”, per certi versi resa esemplare, ma anche originalmente “personalizzata”. Il primo profilo, quello della ricerca storica, si accompagna ad un uso rigoroso delle fonti, dirette o parallele, queste ultime per opportuno riscontro, ma anche utilizzate in via surrettizia quando la testimonianza sul protagonista sia assente o lontana. In questo caso, Bonsaver non manca di prolungare la valenza della fonte nella dimensione della verosimiglianza, cioè dell’ipotesi verosimile, ma lo fa sempre con equilibrio e comunque dandone conto al lettore. In un taglio siffatto, viene positivamente riscritta la gerarchia delle fonti consuete per la saggistica storico-politica, con la rivalutazione di particolari, altrimenti destinati alle “curiosità” e alle semplici note di colore. E già così si entra nel secondo ambito, più prettamente narrativo, con il ricercato supporto del mezzo visivo. Grande rilievo vi assumono infatti le immagini, sia di ambiente sia famigliari. Nella sua impostata fissità, la fotografia del nucleo famigliare rivela, anche nei particolari dell’abbigliamento del figlioletto Bruno, una cura e una solidità, di cui le vicende successive daranno ampia conferma. Il confronto tra l’immagine dei vecchi genitori e quella dinamica e indaffarata dell'”imprenditore” Pilati, impegnato tra le maestranze con i disegni sotto il braccio, è di particolare eloquenza circa la distanza tra il mondo rurale-mezzadrile e quello urbano del cantiere e del laboratorio. Le foto dall’Istituto Rizzoli tendono a trasmettere un sentimento di serena fiducia circa il reinserimento degli invalidi nella vita produttiva e nella società, in coerenza con i propositi di Pilati.

La foto di una gita familiare all’Abetone di Pilati e Ernesto Rossi fornisce più che una prova sui reciproci rapporti. Le immagini delle commemorazioni forniscono le tracce della memoria collettiva di Pilati: tracce sempre più lievi, tanto più che nel 2006 scompare anche Bruno che al ricordo ha dedicato tutta la vita, come se nella sua mente di testimone sedicenne la vigliacca aggressione al padre nella notte tra il 3 e il 4 ottobre 2005 sia rimasta scolpita per sempre. Al pari del foro delle pallottole impresso sulla parete della camera da letto dei genitori, non più rimosso, con gli arredi, fino a tempi recenti quando infine l’appartamento è stato alienato. Bonsaver rilegge con attenzione la ricostruzione consegnata dai precedenti studi, operando una rigorosa puntualizzazione dei punti meno convincenti, ma aggiunge altresì molte pagine originali con una scrittura agile che certamente il lettore apprezzerà. In particolare ci piace segnalare quelle dedicate all’ambiente mezzadrile dell’infanzia e dell’adolescenza e alle ragioni del distacco, sul cui sfondo si intravedono anche i probabili contrasti famigliari e tra vicini; all’attività imprenditoriale che non si disgiunge dalle iniziative solidaristiche e associative; all’esperienza indelebile della guerra, così forte da indurre Pilati a portare i famigliari in visita del teatro delle operazioni militari; all’agguato fascista delle squadre agli ordini di Tamburini e ai successivi processi, a cui viene contrapposta, in una sorta di controcanto, la lezione di dignità e di civiltà lasciata da Amedea e Bruno.