IL GRANELLO DI SABBIA
di Fulvio Papi | Per tradizione le analisi di cultura politica socialista hanno sempre privilegiato spazi politici nazionali o eurocentrici. Oggi questa limitazione non è più possibile perché, se pure in maniera indiretta, ciascuno è collegato ad uno spazio economico politico molto più vasto. Un bambino che manipola un qualsiasi giocattolo si può trovare in relazione con un mercato molto più ampio di quanto lo scarso valore dell’oggetto non possa far pensare. L’esempio è molto povero, ma il flusso dei capitali e del capitale non è differente se non per i mezzi di transito. Per il resto noi abbiamo nozioni molto importanti: per esempio possediamo inquietanti modelli di incremento demografico, così come la certezza che la terra in cui viviamo, a causa di tutte le conseguenze dei mezzi di produzione subirà, per l’innalzamento delle acque dei mari una catastrofe che colpirà direttamente mezzo miliardo di uomini, ma indirettamente non potrà non avere ripercussioni più o meno rilevanti su tutto il pianeta. A questo proposito non si può fare alcuna teoria scientifica valida, ma una buona immaginazione può suggerire che vi saranno una nuova distribuzione delle classi sociali, un nuovo senso storico degli stati, un conflitto violento intorno ai poteri sociali, politici e tecnologici. Una molto parziale anticipazione l’abbiamo anche oggi con la costruzione dei muri, con i quali, anche al di là della contingente migrazione, essi sembrano segnare un mondo che vuole restare identico a sé anche di fronte alle drammatiche aspettative future. Se esaminiamo, con uno sguardo lungo, la politica sostanzialmente isolazionista di Trump in tutte le sue iniziative, non possiamo non ritrovare un simile criterio di difesa dell’area nord- americana. I dazi all’importazione, il disimpegno ecologico e quello militare, a livello mondiale, hanno lo stesso segno. Quello che accadrà non lo possiamo sapere, quello che vediamo è che la storia, a livello mondiale, è mutata dal tempo dell’enfasi della “globalizzazione” che ha lasciato conseguenze molto gravi in quella che possiamo dichiarare zona eurocentrica. Il mercato americano, alla luce di famosi principi neoliberisti della Scuola di Chicago, non ha alcuna conseguenza rilevante. A livello europeo il dominio del mercato come un dio capace di creare nel proprio funzionamento il migliore dei mondi possibili, ha messo in crisi una civiltà che aveva trovato, dopo la tragedia storica dei nazionalismi di massa, un equilibrio sociale che certamente aveva i suoi problemi aperti, come sempre capita nella storia, ma, come disse un importante leader di sinistra, aveva assimilato nel proprio corpo sociale alcuni elementi di socialismo. Di solito, a questo proposito, si parla di un compromesso tra le classi sociali di tipo keynesiano, ma il suo vero senso sociale di quel periodo andrebbe esplorato nella sorte dei singoli bilanci dello stato di cui farò cenno. E credo che si possa dire già ora che, a livello del debito pubblico, non si sarebbe potuto sostenere a lungo la situazione sociale che si era creata. Tanto più che a livello mondiale la globalizzazione, come tutti sanno, aveva favorito lo sviluppo (ma anche qui: quale sviluppo?) di paesi come la Cina e l’India e aveva, al contrario, contratto il livello economico-sociale delle classi medi, desiderose fra l’altro, e qui si vede il livello politico, di ripetere il proprio passato. Un abbassamento delle disponibilità economiche e dello squilibrio, precedentemente provocato, secondo un’idea sbagliata di sviluppo, tra ricchezza privata e ricchezza pubblica, ha costruito un modello che, semplificando all’estremo, si potrebbe anche dire che una serie di poteri, di interessi, di arricchimenti, di consumi, di identità collettive, di aspettative, di istanze, hanno condizionato una possibile politica economica dello Stato ed una selezione stessa della classe politica. La vittima, nemmeno più nominata, era la “programmazione economica”, ritenuta un rottame intellettuale che aveva burocratizzato l’economia impedendone la sua originaria capacità di sviluppo, quand’essa fosse affidata all’iniziativa privata. La società mercantile ristrutturava del tutto la figura intellettuale, etica e giuridica, aperta alla iniziativa economica, che aveva costituito il modello costituzionale di Stato. Sono ben lontano dal ritenere che l’iniziativa economica del re (per parlare storicamente) sia giusta ed efficace, ma sono dubbioso che il mercato erediti il potere del re, ed ottenga così i risultati positivi che il sovrano aveva mancato. Il problema è complesso, ma qui mi limiterò a dire che non esiste una economia politica che incarni materialmente l’idea platonica di bene. Esistono politiche economiche che coinvolgono valore sociale e possibilità oggettive e, nella ricerca di questo equilibrio, esiste una politica conservatrice e una politica socialista che, in ogni caso, devono conoscere da esperti la tecnica razionale di conduzione di una situazione economica, privandosi di proclami demagogici che, con la loro ignoranza, provocano un drammatico crollo del giudizio pubblico. Una domanda che non pochi si sono posti è come sia potuto accadere che una cultura come quella tradizionale della sinistra sia stata spazzata via dai luoghi comuni di un neoliberismo tanto banale quanto aggressivo e convincente. La cultura della sinistra era diventata di natura mitico-libresca. Mitica perché aveva diffuso per anni la convinzione che l’URSS fosse un paese guida così come il partito che ne costituiva l’ossatura politica. La sua caduta non solo mostrò le ragioni strutturali dell’economia del paese, le insostenibili spese militari, ma anche uno stile autoritario e violento del potere centralizzato e poliziesco opposto ai desideri di identità della popolazione. L’insostenibilità economica e l’oppressione sociale costituivano una unità insopportabile come forma di vita. Qui non posso andare oltre quelli che sono stati i totali effetti della caduta di un mito che hanno investito tutta l’area della sinistra e, nel gioco delle opposizioni immaginarie, hanno valorizzato come immediata terapia una svolta neo-liberista. Quale che potesse essere l’immagine pubblica socialista, considerando altresì le vicende tutt’altro che corroboranti di questo partito, essa era socialmente perduta. Fatto non secondario fu che un’élite politica transitò con convinzione verso una prospettiva neoliberista proprio perché era un ceto di pura rendita di posizione, privo di qualsiasi capacità di ricostituzione culturale e sociale che, con la ridicola concezione della modernizzazione, adottava comportamenti intellettuali e pratici identici a quelli che avrebbe dovuto contestare, …