GRAMSCI E MATTEOTTI PER UNA SINISTRA DI ANTIFASCISMO MILITANTE

di Franco Astengo |

Questa nota mi è stata dettata quasi d’impulso dalla notizia dell’imbrattamento della stele, inaugurata lo scorso 15 aprile, davanti a quella che fu la sede dell’Avanti! in via Visconti di Modrone a Milano per ricordare l’assalto subito dal quotidiano socialista il 15 aprile del 1919. Ha colpito soprattutto che i fascisti di oggi abbiano usato lo stesso slogan di cento anni fa scrivendo “l’Avanti! non c’è più”.

Ho così pensato di riprendere un tema, quella della chiaroveggenza antifascista dimostrata dei due martiri Matteotti e Gramsci.

Un tema, quello del pensiero di Gramsci e Matteotti, sul quale con il compagno Felice Besostri qualche tempo fa avevamo pensato di realizzare un incontro di riflessione funzionale all’avvio di un processo ricostruttivo della soggettività politica della sinistra italiana.

Mi permetto allora di riproporre quel testo denunciando con forza la necessità di riprendere il tema dell’antifascismo militante che deve risultare intrinseco a quello più generale della ricostruzione della sinistra.

Perché si proceda in questa direzione si evidenziano due grandi ragioni:

1)     Ciò che sta accadendo nel sistema politico italiano ed europeo, ben oltre le situazioni di governo. Verifichiamo nei fatti uno spostamento a destra dal chiaro significato razzistico, individualistico, nazionalista;

2)      A questo quadro generale corrisponde ancora, in Italia, una vera e propria escalation di provocazioni grandi e piccole che, in particolare, hanno accompagnato la celebrazione del 25 aprile. Per diverse ragioni la più grave, a mio giudizio, rimane quella compiuta a Milano con l’esposizione di uno striscione inneggiante a Mussolini nei pressi di piazzale Loreto, ma sarebbero tanti gli episodi da elencare.

Emergono complicità e ipocrisie da parte del mondo politico.

Complicità e ipocrisie che altro non rappresentano che il frutto delle tante e delle troppe concessioni fatte non tanto sul piano storico, ma su quello morale e sui cedimenti avvenuti nella definizione dei principi fondativi non solo della nostra Repubblica ma della stessa convivenza civile a partire dal mutamento di segno del concetto aberrante di razzismo.

Il quadro generale è quello di un sistema politico estremamente fragile, di una struttura dello stato che non regge, di un governo basato su di una logica da “voto di scambio” esercitato a livello di massa e su di una società che non riesca a esprimere nulla di più di un corporativismo diffuso e di un “individualismo della paura”.

Con grandi pericoli per la democrazia repubblicana.

Sono questi i motivi che mi hanno indotto a riproporre i tratti comuni del pensiero anticipatore di Gramsci e Matteotti sul terreno dell’antifascismo.

Il testo che segue si propone quale semplice esempio di una base di riflessione per procedere a un’iniziativa che, sulla base di una ripresa dell’antifascismo militante e della piana riaffermazione della Costituzione Repubblicana ,risulti anche utile a verificare tutti gli elementi praticabili per ridefinire un perimetro politico di una sinistra adeguata alle complesse necessità dell’oggi ma posta nel solco delle parti migliori del pensiero espresso dal movimento operaio italiano nel corso del tempo.

Cerco di indicare a questo punto perché, a mio giudizio, Gramsci e Matteotti possono rappresentare il pensiero di base per recuperare una capacità concreta di antifascismo militante:

“Gramsci in un’analisi molto approfondita perché delineata in una prospettiva storica molto ampia (cfr. “Le origini del fascismo” V edizione Editori Riuniti 1971) rintracciava le radici della reazione in questo modo : “Il terrorismo vuol passare dal campo privato a quello pubblico, non si accontenta dell’immunità concessagli dallo Stato. Vuole diventare lo Stato. La reazione è diventata forte al punto che non ritiene più utile ai suoi fini la maschera di uno Stato legale ma intende servirsi di tutti i mezzi dello Stato”.

Così stando le cose si comprende come si dovesse proprio a Giolitti la decisione di quelle elezioni anticipate del 1921 nell’occasione delle quali si realizzò quell’alleanza tra liberali e fascisti che doveva aprire a Mussolini e ai suoi (35 eletti) non solo e non tanto le porte del Parlamento, quanto soprattutto la collaborazione attiva e passiva sempre più accentuata da parte dei più importanti esponenti di tutti i gangli dell’alta burocrazia statale (esercito, polizia, magistratura, prefetti) e della vecchia classe dirigente che le elezioni del 1919, svoltesi con la formula proporzionale, avevano spodestato dalla tradizionale posizione egemonica.

Se già nel gennaio del 1921 (tre anni prima del suo ultimo fatale discorso) Matteotti poteva denunciare, in un suo intervento alla Camera, una così impressionante serie di sopraffazioni e di violenze fasciste perpetrate con la connivenza degli organi che avrebbero dovuto essere preposti all’ordine pubblico, tanto più ciò doveva avvenire dopo che lo stesso presidente del consiglio Giolitti e con lui l’intero governo, avevano dato il segno dell’orientamento politico filofascista attraverso quell’alleanza elettorale.

Da allora lo squadrismo fascista non trovò più ostacolo consistente da parte delle cosiddette “forze dell’ordine”; da allora i capi del liberalismo e della democrazia “statutaria” non ebbero più né la forza né l’intenzione di opporre al fascismo una resistenza valida ed efficace.

Di fatto, attraverso tali complicità e appoggi la via del potere fu aperta al fascismo, mentre da parte delle organizzazioni proletarie si tentava, esaurita la spinta rivoluzionaria, una difesa disperata.

Le ragioni di tali complicità e appoggi risiedevano proprio nei motivi della divisione di classe che erano alla base della lotta tra fascisti e socialisti e che non sfuggivano fin dal 1920 – 21 né a Gramsci né a Matteotti.

E’ questo un punto fermo nella storia del fascismo e dell’antifascismo che non bisogna perdere di vista, perché costituisce ancor oggi una bussola di orientamento non soltanto sul piano storico.

Queste le parole di Matteotti ben prima della Marcia su Roma “La classe che detiene il privilegio politico, la classe che detiene il privilegio economico, la classe che ha con sé la magistratura, la polizia, il governo, l’esercito, ritiene sia giunto il momento in cui essa, per difendere il suo privilegio, esca dalla legalità e si arma contro il proletariato”.

Gramsci, a quel punto, poteva a buon diritto sostenere che “solo la classe operaia non è responsabile all’interno delle condizioni in cui è stata piombata la nazione in seguito alle gravi sanguinanti ferite prodotte dalla guerra nel suo patrimonio umano e nel suo potenziale economico” e Togliatti poteva sottolineare gli “sviluppi inesorabili del fascismo mettendo in rilievo che solo il proletariato avrebbe avuto la volontà di condurre la lotta. In quella fase, precedente alla Marcia su Roma, emergono così le contraddizioni e le debolezze della parte liberale e democratica “statutaria” che risaltano anche nelle prese di posizioni di suoi esponenti antifascisti .” (da un mio testo “Antifascismo e marcia su Roma del 28 ottobre 2017”)

Troviamo così in Gramsci e Matteotti la grande ma inascoltata intuizione della capacità della reazione di farsi egemone.

Abbiamo bisogno della stessa capacità d’intuizione dimostrata allora allo scopo di definire una base teorica per sviluppare una proposta complessiva di progetto, programma, organizzazione: per una vera e propria ricostruzione politica unitaria della sinistra italiana ricordando ancora una volta come insieme al solidarismo, nelle diverse accezioni cristiana e marxista, il cemento più forte che saldò l’intesa costituzionale fu rappresentato dall’antifascismo, così come questo si era espresso nella lotta di resistenza e nella volontà di ripristinare la libertà e costruire una democrazia dai forti connotati sociali.