LA LEGGE SUI PIENI POTERI E LA RELAZIONE DI MATTEOTTI

Il fascismo come movimento politico fu fondato da Benito Mussolini a Milano il 23 marzo 1919, nel 1921 si costituì in Partito Nazionale Fascista. Nel 1921 (28 ottobre) conquistò il potere con la marcia su Roma. Nominato Mussolini capo del governo, gli furono concessi pieni poteri, con legge 3 dic. 1922 n.1601, per tutto il 1923. In quell’anno fu varata la riforma Gentile della pubblica istruzione, fu creata la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, fu modificata la legge elettorale in senso maggioritario. Con le elezioni di aprile 1924 il P.N.F. ebbe la maggioranza in Parlamento. Nel giugno dello stesso anno veniva assassinato il deputato socialista Giacomo Matteotti, rivelatosi il più intransigente e preparato oppositore del regime che si stava costituendo.

Tra il 1925 e il 1928 fu soppressa la libertà di stampa, furono sciolti i partiti e i sindacati non fascisti, fu istituto il Tribunale speciale e la polizia segreta OVRA. Furono create organizzazioni fasciste come l’Opera Nazionale Balilla, poi Gioventù Italiana del Littorio, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia. La scuola fu utilizzata come strumento di propaganda fascista. Nel 1929 furono firmati i Patti Lateranensi con la Santa Sede. Negli anni trenta, ottenuto il consenso interno e con l’affermazione del Nazismo in Germania, il governo fascista aggredì l’Etiopia (1935-36), intervenne militarmente in Spagna contro il legittimo governo repubblicano (1936-39), occupò l’Albania (1939), si alleò con la Germania Nazista (patto d’acciaio 1939), intervenne in guerra a fianco di essa nel 1940, fu travolta dalla sconfitta militare (25 luglio 1943). Il Duce, imprigionato e poi liberato dai tedeschi, fu a capo ancora per venti mesi della Repubblica Sociale Italiana (13 settembre 1943 – 25 aprile 1945).

Dal punto di vista istituzionale la prima legge che diede al Fascismo modo di cambiare le istituzioni del Regno fu quella “dei pieni poteri”.

Legge 3 dic. 1922, n. 1601, concernente la delegazione di pieni poteri al Governo del re per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione. (G. U. 15 dic., numero 293)1. 

 1. Per riordinare il sistema tributario allo scopo di semplificarlo, di adeguarlo alle necessità del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte; per ridurre le funzioni dello stato, riorganizzare i pubblici uffici ed istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese, il governo del re ha, fino al 31 dicembre 1923, facoltà di emanare disposizioni aventi vigore di legge. 

 2. Entro il mese di marzo 1924 il governo del re darà conto al parlamento dell’uso delle facoltà conferite dalla      presente legge. 

3. La presente legge andrà in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. Nello stesso giorno cesseranno di aver vigore la legge 13 agosto 1921, n. 1080, la proroga della legge stessa accordata dall’art. 2 della legge 22 agosto 1922, n. 1169, e ogni altra disposizione contraria alla presente legge.

L’opposizione parlamentare a questa legge fu principalmente dovuta al deputato socialista Giacomo Matteotti (1885-1924) che poco dopo pagò con la vita la sua critica intransigente e documentata all’affermarsi del Regime. Riportiamo per esteso la relazione di minoranza di Matteotti alla legge sui pieni poteri.

La minoranza della commissione si sarebbe potuta limitare a una pregiudiziale generica avversa a una delega di pieni poteri, o specifica contro il governo cui i pieni poteri si propongono affidati, sotto l’aspetto politico o sotto l’aspetto della capacità di attuazione. In tale caso non avrebbe neppure redatta una relazione di minoranza, affidando piuttosto le ragioni intuitive della sua opposizione alla stessa relazione della maggioranza. Ma, contro il progetto che ci è presentato, stanno tante altre e tutte fondamentali ragioni, che non ci possiamo esimere dal darne esposizione più larga al parlamento.  Anzitutto, da un punto di vista più generale, quali sono le ragioni che possono indurre il potere legislativo a rimettere i pieni poteri al potere esecutivo?

Per «la crisi dello stato» afferma la relazione del governo, perché «l’autorità dello stato si era ormai progressivamente indebolita». – Ma sarebbe facile obiettare che la ragione cade nel momento stesso in cui il nuovo governo sale al potere, con la presunzione di riaffermare, perciò solo, l’autorità dello stato, fino al punto di ritenere di poter governare anche contro la camera e contro ogni diversa opinione o corrente politica.  Altri avverte piuttosto che la delegazione dei pieni poteri «discende come conseguenza dal modo quasi rivoluzionario per il quale una parte si è impadronita del governo». – Ma anche sotto tale aspetto, o la rivoluzione continua e non ha bisogno di chiedere i pieni poteri, o la rivoluzione è già legalizzata e consentita dalla maggioranza della camera, e non vi è più bisogno di una legge eccezionale.  Si dice anche che «la camera si è dimostrata incapace di risolvere i problemi più gravi dell’economia e della finanza». – Ma o la incapacità è ritenuta costituzionale, organica, dipendente dallo stesso modo di funzionamento dei parlamenti moderni, e allora la vera legge attendibile sarebbe quella che ne riformasse la costituzione o il modo di funzionare 2; o la incapacità è di questa sola camera, e, a parte la dimostrazione che manca, l’unica risoluzione da prendere sarebbe quella che la camera fosse immediatamente sciolta e sostituita da un’altra capace di riprendere subito ed esercitare il suo potere e la sua funzione. 

La verità è che il disordine amministrativo ed economico attuale non tanto dipendono da difetti del parlamento, ma traggono inizio proprio dal momento in cui il parlamento cessò di funzionare normalmente, e la legislazione, anziché conforme alle norme costituzionali, fu tutta affidata, dalla dichiarazione di guerra in poi, al potere esecutivo, all’alta burocrazia e alle altre forze che sulle prime due hanno agito. 

La farragine dei decreti sovrapposti, l’abitudine degli organi esecutivi ad agire ormai senza controllo né preventivo, né consuntivo, la protratta liquidazione delle gestioni straordinarie di guerra, costituivano tanti ostacoli alla ripresa della normale funzione legislativa e al riassetto amministrativo dello stato. Ma è allora più che mai strano che, proprio nel momento in cui il parlamento ha ripreso in parte il suo funzionamento, ricominciata la discussione dei bilanci, ristabilito il severo controllo della sua commissione di finanza, proprio ora il governo arresti il ritorno alla normalità e ci riporti alla nefasta legislazione per decreto.  Non saremo certamente noi che vorremo negare i difetti delle ultime tre legislature, delle maggioranze e dei governi che le hanno presiedute. Non saremo noi che in tutto questo tempo siamo stati costantemente all’opposizione, abbiamo rilevati e descritti i mali dell’amministrazione, dell’economia, della finanza statale, contro coloro che di quei mali furono allora la causa o gli autori o i sostenitori e che oggi, nella commissione e nel parlamento, si dispongono, invece a deplorarli invocando dal nuovo governo il rimedio straordinario. 

Ma è anche vero che i difetti della camera sono anche i più soggetti a controllo pubblico, i più facili a rilevare, e perciò solo sembrano i più gravi. La democrazia anche migliore mostra tutte le sue infermità, anche le più piccole; la dittatura più nefanda nasconde al popolo anche le più gravi. D’altra parte, se la camera attuale è disposta nella sua maggioranza a riconoscersi incapace ad abdicare ai suoi diritti e ai suoi doveri, che le furono deferiti liberamente dagli elettori, essa non può e non dovrebbe assolutamente cedere al potere esecutivo anche i diritti della camera futura, e implicitamente quelli degli elettori e del parlamento in genere. Quando il governo chiede i pieni poteri fino al 31 dicembre 1923, si riserva di darne conto solo entro il 31 marzo 1924, e minaccia frattanto il prossimo scioglimento della camera, esso non usurpa soltanto il potere della camera attuale, che può piegarsi e consentirglielo anche per timore del dissenso e in vista della minaccia; ma usurperebbe, con la complicità della camera attuale, anche il potere della camera futura e del parlamento 3. Noi non sappiamo neppure comprendere come mai soltanto nel 1924 la camera ridiventerà capace di compiere le funzioni che oggi le sono tolte.

Non sappiamo neppure intuire quale sarà per essere la condizione, la dignità, la funzione del parlamento, cioè della camera e del senato, da oggi a quella data. Il parlamento non dovrebbe più discutere bilanci, poiché essi potrebbero quando che sia essere mutati ad arbitrio del governo; non potrebbe votare leggi che il governo può sostituire a sua posta con altre; non potrebbe accingersi ad esercitare il controllo, poiché questo è sotto la raffica dei decreti che ne possono mutare l’essenza o quanto meno a inficiarlo. Il parlamento sarebbe per un anno e mezzo ridotto a miserabile giocattolo, di cui il popolo italiano dovrebbe anzitutto chiedersi se mette conto di pagarne la spesa. 

Non questo per lo meno volle il popolo italiano quando liberamente scelse e volle, con maggioranza legittima, i suoi rappresentanti, per un regime di democrazia e di libertà. E non questo ha osato chiedere il governo, se ha dichiarato che nelle leggi riformabili non sono quelle che toccano la costituzione e il potere legislativo. In particolare, la nostra opposizione alla delegazione legislativa non vuole tanto insistere sulla legislazione burocratica-amministrativa, quanto su quella tributaria e quella che potrebbe involgere l’esistenza e la efficienza di importanti funzioni dello stato. Per la parte burocratico-amministrativa, noi eravamo già in regime di pieni poteri, ma con precise indicazioni e delimitazioni «a unificare, ridurre e rendere più spediti i controlli di ogni specie, ad attuare un largo decentramento amministrativo con una maggiore autonomia degli enti locali», con l’obbligo di «non superare la spesa totale derivante dagli ordinamenti in corso», con la limitazione della materia dalla quale erano, per esempio, esclusi, l’ordinamento dell’esercito, le funzioni giurisdizionali del consiglio di stato e della corte dei conti, l’istruzione pubblica, ecc.; e in ogni caso con il controllo di una commissione parlamentare (legge 13 agosto 1921).

Anche nel 1894 il governo Crispi ebbe a proporre una legge di pieni poteri con scopi analoghi; ma la commissione, che pure era allora formata esclusivamente di deputati della maggioranza, seppe opporsi nettamente alla delega pura e semplice, affermò i limiti della delega «al di là dei quali la camera avrebbe abdicato alle sue prerogative», e diede in una serie di articoli le linee sintetiche «e precise della riforma amministrativa, dentro le quali soltanto il governo avrebbe potuto agire» 4. Nel nostro caso invece nessuna limitazione, nessuna indicazione, nessun indirizzo ideale o pratico. L’arbitrio più completo, e più ciecamente concesso, in quanto quasi nessuna dichiarazione o per lo meno nessun impegno formale volle prendere il governo davanti al quesito più generale postogli con ordine del giorno unanime dalla commissione, e davanti ai quesiti concreti postigli dai singoli commissari. 

Alla stessa domanda nostra se il criterio della economia, cioè della riduzione di spesa, fosse quello dominante e immanente, il ministro non ha escluso che uno speciale ordinamento potrà essere riformato anche in un modo più costoso, e ha quindi convalidato le diffidenze che possono sorgere dal discorso del sottosegretario del tesoro il quale non si perita di affermare che «è sorta una nazione guerriera e dominatrice». Ben altrimenti nel 1894, di fronte alle richieste generiche del ministero Crispi, la commissione affermava nella sua relazione la necessità di «limitare le facoltà del governo» di «specificare la facoltà da delegarsi con una chiara e precisa determinazione degli scopi, dei limiti e delle condizioni», di «porre come condizione assoluta, indeclinabile, il presidio di vere e proprie guarentigie giurisdizionali» ravvisando «nello stato giuridico dell’amministrazione il solo vero baluardo della libertà» 5.

Tanto meno il governo ha voluto fare dichiarazioni intorno alle «funzioni dello stato da ridurre». Dalla relazione governativa sembrerebbe che esistessero già nella mente del governo una serie di funzioni «essenziali» allo stato e una serie di «estranee». Dalle dichiarazioni fatte alla camera dall’attuale presidente del consiglio nel 1921 le funzioni da mantenere erano solo «la polizia, l’esercito, la giustizia e la politica estera». Ma non abbiamo potuto sapere se il governo oggi mantenga un’eguale opinione, e se quindi ritenga funzioni secondarie da abbandonare quelle della scuola elementare e professionale, quelle delle assicurazioni contro la disoccupazione e la malattia, le leggi protettrici del lavoro, i sussidi alla marina mercantile, alle bonifiche, alle strade, ai ponti, alle costruzioni edilizie, agli impianti telefonici, ecc. Non si tratta di una richiesta o disquisizione teorica che possa essere lasciata nel vago, ma di una necessità concreta di determinare entro quale ambito si chiudano le funzioni che il governo ritiene passibili di eliminazione nel preciso periodo di tempo che va da oggi al 31 dicembre 1923, senza possibilità per il cittadino o per il rappresentante di appellarsi al giudizio del parlamento. Lo stesso concetto di «gradualità» affermato dal governo per il passaggio di servizi all’industria privata, ripugna dal limite di tempo, di fronte al quale il governo dovrebbe precisare quello che abbia intenzione di contenervi; e ripugna soprattutto alla economicità del trapasso che per certi servizi come quello ferroviario, non potrebbe essere che organico e non graduale.

Anche rispetto alle funzioni da cedere, la camera dovrebbe chiedere al governo categoriche garanzie, se lo scopo della riduzione o cessione sia puramente economico, per modo che, per esempio, ai deficit attuali non si sostituiscano equivalenti o maggiori sussidi al servizio privato, o altri impegni gravosi per lo stato, o prospettive di deperimenti e trascuranze di impianti, o abbandoni di diritti di riscatto, ecc. Così che la nostra avversione ai pieni poteri, oltre che fondarsi sulla difesa delle classi più povere e delle regioni più povere d’Italia, per le quali la iniziativa e la capacità privata devono ancora essere integrate dall’aiuto degli enti pubblici, pena l’abbandono e il regresso – è accresciuta dal sospetto che la riduzione delle funzioni statali serva soltanto a scopi di speculazione privata, assecondando gli entusiasmi di certi gruppi capitalistici o bancari che non sono i più noti per disinteressato patriottismo. Quanto ai pieni poteri tributari noi non conosciamo alcun parlamento che in regime costituzionale li abbia concessi, poiché essi formano la prima e fondamentale prerogativa senza la quale un parlamento non esiste. La relazione governativa afferma che essi «furono chiesti in ore assai meno gravi di questa».

Neghiamo. Nel 1859, nel 1866, nel 1915 essi furono chiesti esclusivamente per un tempo di guerra; cioè di fronte a una situazione non soltanto e genericamente eccezionale, ma estremamente e continuamente mutevole, in quanto ogni mese, ogni giorno di guerra può mutare tutta la situazione economico-politica-finanziaria di una nazione. Per quanto invece si voglia dire che anche oggi è un momento eccezionale, questo è però, precisamente valutabile in tutti i suoi elementi, nel disavanzo, nelle necessità future, nella continuatività di certi carichi o entrate, ecc., per cui ogni rispettabile uomo di governo deve sapere e manifestare un programma adeguato, e ha il tempo sufficiente per provvedere celermente ma con i mezzi normali. Perciò anche il nuovo governo Crispi nel 1894, quando chiese i poteri amministrativi non li estese affatto ai tributi, ma fece presentare dall’onorevole Sonnino non una generica, ma la più dettagliata delle esposizioni finanziarie, ed insieme ad essa i più precisi progetti di legge tributari. E’ stato detto da qualcuno, che è urgente confidare i pieni poteri al governo perché «siamo sull’orlo del fallimento». – Non bisogna esagerare. Noi abbiamo ritenuto nostro dovere di cittadini, per reagire contro le illusioni diffuse, e contro le cifre reticenti dei governi successivi, e per incitare a provvedimenti adeguati, di presentare sempre la situazione finanziaria nel suo aspetto più reale e pessimista. Ma anche attenendoci alle più controllabili cifre ufficiali, e a quelle da noi presentate alla commissione finanze e tesoro, la realtà è la seguente:

Il disavanzo del 1920-21 è stato calcolato in milioni
16,570  
Il disavanzo 1921-22 sembra salito definitivamente a milioni
8,275  
Il disavanzo 1922-23 può prevedersi in milioni
4,600

Se non si calcola il disavanzo ferroviario, e se si eseguono per contro tutte le leggi di spesa votate o presentate, compreso il latifondo, le ferrovie secondarie, le seimila scuole elementari, i prestiti ad ospedali e comuni, ecc. Se non si eseguiranno queste leggi e se il disavanzo ferroviario si computa non superiore al miliardo, il disavanzo complessivo supererà ancora i 5 miliardi, supererà i 4 secondo il ministro del tesoro. Comunque, il nostro bilancio presenta una rapida deflazione, dovuta alla cessazione delle spese eccezionali di guerra e dopo guerra; per modo che quando abbiamo voluto calcolare quello che sia il vero disavanzo ordinario permanente, cioè quello destinato a rimanere anche nei bilanci futuri, se non si prendessero provvedimenti, la cifra è scesa (pag. 58 delle bozze relazione sulla entrata 1922-23) a milioni 3600, oltre il disavanzo ferroviario. Nella stessa relazione noi abbiamo indicata una serie di provvedimenti concreti e ordinari, per i quali, anche senza nuove imposte, ritoccando alcune tariffe, unificando e anzi riducendo le aliquote vigenti per i redditi, ma procedendo a rigorosi e giusti accertamenti, si potrebbe in breve giro di tempo coprire più della metà dell’indicato disavanzo permanente. A quale scopo, quindi, i pieni poteri? Se il governo vuole provvedere d’urgenza, non ha che da applicare i decreti già emanati fin dal 1919 e che provvedevano alle imposte dirette e al loro nuovo accertamento. Quando il governo ha voluto abolire qualche imposta, ha emanato un decreto (abolizione della nominatività) perfino prima di avere avuto il voto della camera, ma almeno riservando ad essa diritto di ratifica. Se il governo vuole infine introdurre nuove imposte, esso sa di potere contare sul patriottismo della maggioranza della camera, la quale anche nel 1920 approvò a grande maggioranza e rapidissimamente una serie di imposte che pure sembravano deplorevoli! Noi siamo lieti che su nostra specifica domanda «se convenisse che la massima riforma tributaria sia quella degli accertamenti», il governo abbia risposto confermando.

Ma non basta. Per chiedere al parlamento l’abbandono della sua massima prerogativa, dovrebbe almeno il governo indicare secondo quale indirizzo esso intenda «meglio distribuire il carico delle imposte»; poiché il capitalista trova che sono meglio distribuite, abolendo quelle che colpiscono il capitale e aggravando quelle sui consumi; il commerciante trova inopportune le imposte sugli scambi; l’erede grida alla spogliazione; eccetera. Il potere esecutivo esimendosi dallo indicare, sia pure in sintesi, ma specificatamente, le sue intenzioni, si riserva l’arbitrio in ogni campo. Il parlamento – eletto dai cittadini per rappresentarne e difenderne gli interessi collettivi e privati – votando la legge di delegazione, li abbandonerebbe invece all’arbitrio di un governo, che nessuno ha conosciuto ancora alla prova della capacità di operare e della coerenza coi più diversi principî in varie occasioni affermati o negati. Sotto un altro aspetto sarebbe ancora dannosa e pericolosa la facoltà lasciata al governo, senza limiti di materia e di indirizzo e per un così lungo periodo di tempo; sotto un aspetto che verrebbe proprio in contrasto con quelle finalità economiche e morali, che alcuno potrebbe attribuire alla legge.

Quando infatti si lascia al governo l’arbitrio di sconvolgere a sua posta le più delicate norme tributarie, per più di un anno, tutti i cittadini, produttori e capitalisti, lavoratori e imprenditori, sono mantenuti nello stato d’incertezza più deleterio nei confronti delle loro industrie, dei loro commerci, delle loro iniziative. Chi sa se le tariffe doganali saranno mutate? chi sa se le nuove costruzioni edilizie saranno ancora esenti da imposta? chi sa se un prodotto qualsiasi non sarà toccato da una imposta speciale? Mentre sembrava finalmente cessato il pericolo continuo della legislazione di guerra e ripristinata la tranquillità economica più produttiva, una legislazione straordinaria ricaccia i migliori nel dubbio e nell’inerzia. L’unica assicurazione è stata data per i titoli di stato; ma non è certo quella che più importa per la produzione nazionale. E altrettanto si dica rispetto all’ordinamento funzionale e amministrativo dello stato; poiché le rinnovellate incertezze intorno al trattamento degli impiegati ne deprimono il rendimento; le incertezze sulla gestione dei servizi ne fanno trascurare il miglioramento; le aspettative meno legittime si mettono in azione e in contrasto improduttivo.

E tutti questi continui passaggi, ai quali da tanti anni assistiamo, dei servizi telefonici, di ferrovie ecc., dall’una e all’altra gestione, non giovavano in definitiva che agli speculatori; così come i continui mutamenti burocratici non portano in complesso che degli aggravi maggiori, per impiegati licenziati o riassunti magari ad arbitrio, indennità, spostamenti di cose, di uffici, ecc. Noi siamo convinti per i primi, che esistono notevoli economie da realizzare, che vi sono uffici da abolire, energie intorpidite da svegliare, organi parassitari e ingombranti da resecare. Ma tutto ciò può essere compiuto senza minacciare lo sconvolgimento, senza usurpare i poteri del parlamento, con tanta minore apparenza di grandi parole, quanto maggiore è la sapienza, la fermezza nell’operare, la coscienza del bene. Perché per esempio il governo non ha cominciato modestamente a economizzare su se stesso in fatto, sopprimendo almeno i ministeri per i quali era già prevista la riunione dei bilanci, mantenendo il numero dei gabinettisti dentro i limiti di legge, abolendo o trasformando i sottosegretariati inutili? Riassumendo: tutte le ragioni concorrono a confermare la nostra avversione più netta e precisa alla legge dei pieni poteri. Chi non voglia distrutti o diminuiti i diritti e le funzioni del parlamento, chi non voglia compromesse le autonomie comunali o locali, chi si preoccupa dell’ordinamento dell’esercito al disopra dei partiti, e della funzione morale della scuola, chi non vuole abbandonare a se stesse o allo sfruttamento le regioni e le classi più povere e bisognose di integrazione, chi tiene alla libertà individuale e alle garanzie giurisdizionali, non può abdicare nelle mani di un governo che non ha ancora presentato un programma e proposte specifiche.

Noi riconfermiamo la necessità che i servizi pubblici siano tenuti o controllati da quei soli enti che possono rappresentare e difendere il consumatore e il contribuente; siamo quindi d’accordo che i servizi devono essere ordinati nel modo più economico e più redditizio, e semplificata l’amministrazione; ma ciò non può significare mai l’abbandono all’arbitrio di un governo o alla speculazione privata. E tanto meno è possibile abbandonare il sistema tributario, che investe i rapporti più sostanziali tra i cittadini, categorie di cittadini e stato. Sembra a noi che chiunque abbia ferma coscienza dei propri diritti e doveri di rappresentante della nazione che lavora e produce, non possa rendersi complice della concessione dei pieni poteri, la quale segnerebbe nella storia della nostra vita nazionale il precedente meno degno, e più pericoloso.                                                                                                                                                                                               

Note

1 Le Leggi, anno 1922, Roma, Società Editrice del Foro Italiano, pp. 1309-1315.

2 Riassumendo per esempio le numerose discussioni dei bilanci in una sola; affermando in seduta plenaria soltanto i principii fondamentali e direttivi di ciascuna legge o questione, affidando la conseguente formulazione a commissioni; e simili. (Nota della relazione).

3 Nel 1894 la commissione parlamentare introdusse il seguente articolo 9: «Nel caso di scioglimento della camera, con la pubblicazione del relativo decreto, cesseranno le facoltà straordinarie concesse al governo con la presente legge». (Nota della relazione).   

4 In altri casi, per la formazione dei codici, la indicazione era data da un progetto base e dalla somma delle discussioni sopra quello avvenute. Il governo ha invece dichiarato che i progetti attuali tributari per es., gli serviranno come uno degli elementi, non come criterio di guida. (Nota della relazione).

5 La relazione Bonasi, all’art. 1 del governo Crispi, opponeva quindi i seguenti: Art. 1.- Per provvedere alla semplificazione amministrativa, al decentramento dei pubblici servizi ed alla riduzione delle spese, il governo del re, entro un anno dalla pubblicazione della presente legge, è autorizzato a procedere per decreti reali alla riforma ed al riordinamento delle amministrazioni civili e militari, nei limiti e sotto le condizioni di cui nei seguenti articoli. Art. 2.- Salve le attuali circoscrizioni territoriali dei comuni e delle provincie, il governo potrà introdurre nelle leggi, negli ordinamenti e negli organici di tutti i rami della pubblica amministrazione le riforme e modificazioni necessarie:

1º per diminuire le spese obbligatorie dei comuni e delle provincie;

2º per semplificare e rendere meno costosi la riscossione delle imposte ed i servizi di tesoreria;

3º per procedere alla riunione degli uffici e servizi amministrativi e tecnici, che raggruppati possano più speditamente e con minor dispendio funzionale;

4º per rendere onorarie funzioni amministrative ora retribuite;

5º per deferire, sotto il presidio di guarentigie giuridiche, la definizione di tutti gli affari riguardanti i comuni, le provincie e le opere pie ed i consorzi a corpi o collegi locali, salvo al governo il diritto di annullamento per inosservanza di forme e per violazione di legge, ed agli interessati il ricorso per illegittimità;

6º per demandare, sotto le guarentigie e salvi i rimedi di cui nel numero precedente, alle autorità governative locali, tutte le attribuzioni che per la natura e la importanza loro non siano necessariamente di spettanza dell’amministrazione centrale;

7º per sopprimere o riformare gli uffizi amministrativi centrali ed i corpi consultivi addetti ai singoli dicasteri, che in seguito alle riforme si riconoscano superflui;

8º per estendere e completare le guarentigie di indipendenza della magistratura, e modificare le disposizioni delle leggi vigenti sull’ordinamento giudiziario in relazione ai limiti delle competenze, alle piante organiche ed alle circoscrizioni giurisdizionali; per ottenere tutte le economie compatibili colla retta e spedita amministrazione della giustizia;  

9º per riformare le leggi organiche dell’istruzione elementare, secondaria e tecnica, onde conseguire, col miglioramento degli insegnamenti, un risparmio di spese: per riformare o trasformare gli istituti superiori di pubblica istruzione, conciliando l’interesse scientifico con quello della economia;

10º per modificare le leggi sull’ordinamento dell’esercito e dell’armata allo scopo di ridurne le spese senza pregiudizio della difesa interna ed esterna dello stato. Il governo potrà altresì modificare le leggi e gli ordinamenti per la giustizia amministrativa per coordinarli alle maggiori guarentigie di cui sarà presidiata l’amministrazione. Art. 3.- Nessuna innovazione il governo potrà attuare se non sia coordinata ad una riforma la quale in complesso apporti una riduzione delle spese attualmente stanziate nel bilancio dello stato o che importi, sotto qualsivoglia forma, maggiori aggravi a carico dei comuni o delle provincie. Art. 4.- Il governo per procedere ai riordinamenti ed alle riforme di cui nei precedenti articoli, sarà assistito da una commissione composta di cinque senatori e cinque deputati eletti dalle rispettive assemblee e di cinque altri funzionari dello stato da designarsi dal consiglio dei ministri. Di ciascuna adunanza della commissione sarà compilato processo verbale contenete i pareri espressi. (Nota della relazione).