I MOVIMENTI FEDERALISTI

Ernesto Rossi, economista, storico e giornalista d’inchiesta, è qui ritratto in una fotografia risalente agli anni dell’esilio svizzero a Ginevra (Archivio privato della famiglia Rossi, Firenze). di Piero S. Gragliadi | I movimenti federalisti fanno la loro comparsa, in tutta l’Europa, negli anni della Resistenza al nazi-fascismo e delle lotte nazionali di liberazione. Mentre precedentemente le idee federaliste – tranne poche eccezioni – si trovavano strette nella dimensione nazionale della lotta politica, che non ne permetteva lo sviluppo autonomo, durante gli anni che vanno dal 1940 al 1945 esse acquistano una fisionomia più definita e orientata principalmente verso la dimensione internazionale (federalismo europeo) e verso quella interna (federalismo infranazionale). Questi due aspetti del federalismo si trovano talvolta accoppiati in alcune formazioni politiche, e talvolta elaborati indipendentemente, ma tutti i movimenti che si sono definiti “federalisti” hanno finito per confrontarsi con le due facce del federalismo. Non si riscontra d’altronde un’omogeneità sul piano dei riferimenti ideali: i modelli preesistenti sono principalmente l’esperienza anglosassone del federalismo, che trova negli Stati Uniti d’America la sua realizzazione più solida sul piano istituzionale; nonché il pensiero federalista francese (da Proudhon in poi), più attento alla dimensione “sociale” e che porterà alla nascita anche di una corrente federalista detta “integrale” (Alexandre Marc, Denis De Rougemont). L’idea fondamentale del federalismo (la cessione di parte della sovranità delle istanze inferiori ad una istanza superiore, in determinate materie, nel rispetto delle rispettive sfere di autonomia) trova quindi un’applicazione diversificata, a seconda che si parli di federalismo applicato ai rapporti tra gli stati e di federalismo applicato all’interno dello stato. La problematica della riduzione del potere statale per ridare vigore alle “autonomie primarie” (comuni e regioni e, in Italia, anche le provincie) è stata affrontata in vario modo dalla grande maggioranza dei movimenti di sinistra che si opposero ai totalitarismi, ma non venne considerata invece dal movimento comunista internazionale. Dopo il tentativo di Trotskij, nei primi anni Venti, di immettere nel dibattito comunista internazionale la parola d’ordine degli “Stati Uniti d’Europa”, in funzione della rivoluzione antiimperialista europea, l’opposizione di Lenin e poi quella, ben più determinata, di Stalin, eliminò ogni traccia di dibattito sul federalismo tra le file dei partiti comunisti. Molto più attivo il dibattito invece nel seno del movimento libertario e anarchico, dove esso fiorì sin dagli anni Ottanta dell’Ottocento in una prospettiva istituzionale per poi affievolirsi e riprendere vigore con il sorgere dei totalitarismi. Il caso italiano, in questo senso, è particolarmente indicativo della ricerca di una sintesi tra i due aspetti del federalismo ora sottolineati, ricerca spesso alimentata dalla polemica contro il centralismo statale caratteristico prima del regno sabaudo e poi del fascismo. Non mancarono ad esempio motivi federalistici all’interno della stampa del movimento socialista italiano prima dell’avvento del fascismo (Filippo Turati, Claudio Treves, Ugo Guido Mondolfo su “Critica sociale”), intesi sempre in funzione della lotta contro il centralismo fascista e per la pace tra gli stati europei; e su un piano più maturo si posero il movimento socialista liberale di Carlo Rosselli e di Gaetano Salvemini, “Giustizia e Libertà”, che recuperava anche motivi polemici contro il centralismo statale avanzati già alla fine dell’Ottocento da Gaetano Salvemini, e il movimento “Libérer et Fédérer” animato dal veneto Silvio Trentin e attivo nelle file della Resistenza francese. Nel caso di Trentin, che elaborò anche un disegno costituzionale per una repubblica federale da applicarsi all’Italia e alla Francia, si cercava di contemperare il controllo pubblico dell’economia con il rispetto delle “autonomie primarie”, costituite dalle formazioni “naturali” del vivere sociale (famiglia, comune, consigli di fabbrica, cooperative agricole) che erano depositarie dell’autogestione e dell’autocontrollo dell’economia. Nondimeno, ancora notevole è il peso attribuito da Trentin allo “stato”, seppure federale, che egli immagina, in un difficile tentativo di sintesi tra attività regolatrice del “centro” e libertà di iniziativa delle autonomie primarie. La scomparsa di Trentin prima della fine del conflitto ha impedito ulteriori sviluppi del suo pensiero, che attingeva spunti e suggestioni anche dalle posizioni del movimento di Carlo Rosselli “Giustizia e Libertà”. In particolare “Giustizia e Libertà” mostrò di essere in grado di effettuare una sintesi felice tra polemica contro il centralismo burocratico fascista e la richiesta degli “Stati Uniti d’Europa” come modello per la ricostruzione europea; tali posizioni vennero espresse in particolare dalle pagine del settimanale “Giustizia e Libertà”, edito a Parigi, e sui “Quaderni di Giustizia e Libertà”, che ebbero una limitata diffusione anche in Italia, in articoli comparsi tra il 1931 e il 1936. Bisognava però attendere il 1941 perché l’idea federalista trovasse una sua definizione teoricamente coerente e un movimento espressamente ispirato ad essa. Nella primavera di quell’anno infatti comparve il documento fondamentale del federalismo europeo, il Manifesto di Ventotene, scritto materialmente da Eugenio Colorni (1909-1944) Ernesto Rossi (1897-1967) e Altiero Spinelli (1907-1986), due antifascisti confinati dal fascismo sull’isola di Ventotene, che avevano già scontato lunghe pene detentive (Spinelli venne arrestato nel 1927, Rossi nel 1930). Alla base del documento stava una riflessione sui limiti dell’organizzazione dell’Europa in stati nazionali sovrani e sulle conseguenze del protezionismo economico tra gli stati. Tale riflessione, maturata sulla base di letture di autori anglosassoni e tedeschi (in particolare l’economista britannico Lionel Robbins, e gli altri autori del gruppo Federal Union, attivo a Londra sin dagli anni Trenta; nonché Philip Henry Wicksteed, Arthur Cecil Pigou, Ludwig von Mises, Friedrich Meinecke), trasse spunto dalla lettura delle riflessioni di Luigi Einaudi, fatte all’indomani della fine del primo conflitto mondiale, sull’impossibilità di far sorgere una “Società delle Nazioni” in Europa tra stati rimasti formalmente sovrani. Il documento scritto nella primavera del 1941, segnava un cambiamento notevole nel panorama del pensiero europeista in Europa: per la prima volta l’idea della federazione europea diveniva un valore prioritario della lotta politica, non un elemento accessorio di visioni politiche più generali. Solo attraverso l’abbattimento del mito della sovranità statale assoluta poteva essere possibile raggiungere la giustizia sociale e la libertà politica. Altri punti che Spinelli e Rossi sottolineavano erano il superamento della dicotomia marxista tra borghesia e proletariato, individuando le forze “progressiste” in quelle favorevoli all’unificazione europea, e quelle …

Gutenberg Sample Post

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ILVA-ARCELOR MITTAL «LA DRAMMATICA STORIA DELLE PRIVATIZZAZIONI»

  di Silvano Veronese* – Vice Presidente Socialismo XXI | Quando la classe politica, sia essa di governo o all’opposizione,  esprime tutta la sua pochezza ed incompetenza, non ha in testa  un disegno strategico in grado di affrontare le gravi emergenze del Paese e per delinearne una prospettiva di rinnovamento e di crescita anche perché  impegnata in una permanente campagna elettorale, l’evolversi di un economia in affanno ci  presenta il conto. La vicenda ILVA è emblematica, purtroppo per la gravità della situazione sia produttiva  che sociale non è la sola. Se la sua situazione di crisi non verrà risolta rapidamente, non è solo il suo indotto che ne pagherà le conseguenze ma anche le aziende della filiera. La motivazione per la quale la multinazionale ARCELOR MITTAL ha disdettato l’accordo concordato con Il  Ministero dello sviluppo economico l’ottobre dell’anno scorso e con esso l’impegno di acquisto di ILVA al termine di  due anni di gestione in affitto puo’ essere respinta dall’attuale Governo che vorrebbe  impugnare legalmente l’atto – certamente grave politicamente e per gli effetti sociali –  ma non è detto che l’esecutivo riesca ad ottenere  il ritiro della scelta anche perché dalla sua il gruppo siderurgico franco-indiano ha qualche freccia per trascinare la vicenda in un lungo iter processuale. Infatti, il “tira e molla” di piu’ governi nel concedere e togliere (piu’ volte) per cause ambientali uno “scudo penale”, che oggi graverebbe sia sul Gruppo siderurgico sia sull’Amministrazione commissariale anche per responsabilità di gestioni precedenti, è un fatto alquanto singolare, superficiale per la  sua strumentalità e non previsto nelle clausole del  contratto, tanto piu’ che Arcelor Mittal si è impegnata  – proprio in base al contratto stesso –  in un programma di risanamento ambientale, impiantistico e di bonifica del sito di rilevante impegno finanziario (circa 1,2 mld in aggiunta al resto dell’investimento di 4 mld). Le complesse prescrizioni emesse poi della magistratura tarantina per  sistemare la situazione dell’Alto forno 2 (operazione certamente necessaria) da terminare però entro il 13 dicembre prossimo (tecnicamente un tempo impossibile da rispettare) viene vissuto dalla multinazionale come un’altra condizione di criticità per la gestione dell’impianto che motiva ulteriormente la scelta di  “sfilarsi” dall’impegno sottoscritto nell’ottobre dell’anno scorso. Certamente, come è emerso nel confronto a Palazzo Chigi dell’altro ieri, vi è ben altro nella grave scelta di Arcelor Mittal ed appare fondata  la sensazione che gli aspetti delle “responsabilità penali” siano usati per coprire strumentalmente altre ragioni inaccettabili. La multinazionale franco-indiana ritiene, anche dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio Conte di ripristinare lo “scudo penale”, di non poter piu’ rispettare gli impegni del piano sottoscritto con il Governo italiano sia per quanto riguarda i volumi produttivi da ridurre per quasi la metà, sia per quanto riguarda i livelli occupazionali con la richiesta di ben 5.000 esuberi, sia per quanto riguarda l’ampiezza anche finanziaria del programma di bonifica e di risanamento ambientale, obiettivo inderogabile  per recuperare un rapporto compromesso  con il territorio colpito da danni, anche mortali, di inquinamento pluriennale. Allo stato è difficile immaginare una soluzione rapida e positiva della vicenda, anche perché con queste intenzioni Arcelor Mittal si riporta alle condizioni di partenza contenute nell’offerta iniziale presentata a suo tempo e rigettata dai Sindacati contenente tagli del personale rilevanti, molto piu’ alti di quelli presentati dalla cordata concorrente. Se dette condizioni  furono rigettate allora perché dovremmo subirle oggi? Tanto piu’ dopo la lunga successiva trattativa ed un faticoso accordo raggiunto al Ministero per lo sviluppo economico.   Secondo A.M. questi esuberi dovrebbero essere gestiti con una massiccia dose di ammortizzatori sociali (CIG, prepensionamenti, etc.) il cui costo sarebbe a carico del Governo italiano! Strutturalmente poi, la produzione si dovrebbe attestare a non piu’ di 4 milioni di tonnellate di acciaio contro le 6/7 previste dal piano industriale. Già ora, contrariamente agli impegni presi un anno fa, l’impianto sta lavorando a scartamento ridotto con 1.300 circa lavoratori in CIG. Non si riesce a capire come i Governi (quello precedente e l’attuale) non abbiano potuto seguire e valutare subito l’andamento contradditorio di questa gestione e di capire che – forse come hanno sempre detto alcuni analisti – l’intenzione di Arcelor Mittal, fin da subito, era di intervenire su ILVA  non per rilanciarla ma per impedire che andasse in mano a temibili concorrenti. Si ripete – con questa drammatica vicenda –  la storia delle “privatizzazioni” di pezzi significativi e campioni industriali di IRI ceduti a privati, per lo piu’ stranieri,  senza scrupoli o senza dovute caratteristiche di serietà e capacità imprenditoriali con gli esiti negativi che ben conosciamo. Di fronte al pericolo che il gruppo franco-indiano si “sfili” irrimediabilmente, da piu’ parti (compreso il Presidente Conte) si è parlato di “ri-nazionalizzazione” preceduta da un ritorno di tutti i 10.700 dipendenti in carico all’Amministrazione straordinaria con un pesante carico finanziario per il Tesoro in attesa di una nuova gara, ovviamente per gestire industrialmente  il gruppo e portando avanti il piano di bonifica e risanamento ambientale,  rinnovando anche il “pool” di commissari con personaggi di alto profilo e professionalità  del mondo industriale del settore. Una prospettiva non facile, piu’ semplice a dirsi che ad attuare,  anche perché tra riacquisto della società  ed investimenti su ammodernamento  impianti e per il piano di disinquinamento e bonifica servono non meno di 4.200 miliardi. La negativa congiuntura del settore, la crisi del settore auto grande utilizzatore della materia prima, la concorrenza cinese lasciano poche  speranze di un rapido ritorno all’utile di esercizio. Si paga oggi una non recente colpevole assenza di una seria  politica industriale e si capisce ora, di fronte a queste necessità, quanto stolta sia stata la demagogica decisione di destinare non poche risorse pubbliche alla “quota 100” ed al sussidio del “reddito di cittadinanza” che la recente manovra di bilancio  di questo governo ha riconfermato. *Silvano Veronese – già Segretario Nazionale Metalmeccanici NOTA AGGIUNTIVA in risposta alle dichiarazioni del Presidente di Confindustria Boccia Non siamo stati e non siamo certamente teneri verso le responsabilità di certe parti  politiche, ma al Presidente di Confindustria Boccia, che scarica ogni responsabilità al Governo e …

RINO FORMICA: «ANCHE L’ILVA FINIRA’ COME BAGNOLI, CHIUDERE CON UNA LITE CONVIENE A TUTTI»

di Claudio Marincola | Intervista a Rino Formica su Il Quotidiano del Sud Otto volte ministro, Rino Formica, ha partecipato da protagonista assoluto alla politica del secolo scorso. Classe 1927, deputato e senatore in varie legislature, Formica è la trasfigurazione pietrificata di cosa è stato il socialismo al tempo di Nenni e Craxi. Ha coltivato una sua spiccatissima autonomia, è sempre sfuggito al codice della narrazione ordinaria. Dote, quest’ultima, molto apprezzata dai giornalisti. Tra le battute e gli aforismi che lo hanno reso celebre resta scolpita la frase di cui conserva tutt’ora il copyright: «La politica è sangue e merda». Mai come in questo in caso quell’espressione sembrerebbe fare al caso dell’ex Ilva, onorevole. «Si sta consumando una situazione nata male che impone ormai una scelta obbligata. Conviene a tutti chiudere con una lite. L’azienda cercherà di ottenere il massimo, succhiare ancora quel che c’è da succhiare mentre lo Stato interverrà in vari modi. Un giorno si farà un accordo per tenere buoni i sindacati; un altro si tenterà di accontentare gli ambientalisti, un altro si chiuderà un reparto, assumendo alla fine una cinquantina di dipendenti da qualche parte. Andrà come a Bagnoli, tutto già visto». Che cosa poteva fare che non ha fatto, questo governo? «La trama era già stata lacerata, bisognava avere la pazienza di ritessere i fili. Rammendare, filo per filo, a questo serve l’arte della politica». Invece? «Non si è capito il trauma sociale ed economico che la chiusura comporta. Governo gialloverde e governo giallorosso dimostrano anche in questo una continuità. Non per le persone bensì per la filosofia di fondo: vivono alla giornata. Rinviare, metterci una pezza per passare la nottata, che vuol dire arrivare alle prossime elezioni regionali in Puglia. La posta in gioco non è una scelta tecnica ma l’occupazione, la salute e lo sviluppo di un territorio abbandonato a un destino traumatico. Non siamo più al pluralismo delle idee ma al pluralismo dei reggimenti elettorali. I problemi vengono compressi finché alla fine esplodono». Per il Mezzogiorno sarà la mazzata finale? «È la punizione che ricevono le classi dirigenti degli ultimi 25 anni. Non hanno goduto della protezione della memoria. E la memoria è quella che ti consente di non ripetere gli stessi errori, che te li fa correggere. L’Italia repubblicana nacque su un progetto chiaro, che aveva memoria del passato. Le nuove classi dirigenti hanno ignorato la storia, hanno detto “la storia comincia da noi”». Il ministro per il Mezzogiorno Beppe Provenzano ha annunciato un grande Piano per il Sud. «Provenzano è un ottimo giovane che viene da una fucina importante come la Svimez, ma non è una situazione semplice. Il contesto politico è asfissiante». Il clima, però, è cambiato. «Con voi è partita l’operazione-verità. Va benissimo ma non basta. Per ora è solo un sentimento diffuso, fiammelle che si accendono. Servono forme organizzate. Le regioni meridionali si comportino come macroregioni. Stabiliscano alcuni punti sui quali intervenire congiuntamente, lavoro, sanità, formazione professionale, scuola. Serve una mobilitazione delle forze sociali e politiche. E un referendum che stabilisca una volta per tutte che un cittadino del rione Tamburi di Taranto avrà le stesse risorse di uno di Treviso». Partiti e sindacati non godono di ottima salute «Il sistema è degenerato. L’idea che non ci sia più una destra e una sinistra vuol dire la morte della politica. Il Sud rimarrà stretto tra assistenzialismo governista e ribellismo. Tra ascari in Parlamento e proteste alla boia chi molla! E poi c’è questa idea che la politica debba essere la professione dei nullafacenti. Vero il contrario. La politica non va fatta per professione ma con la passione della professionalità. La vita democratica è pulsione continua. Va ricreato lo spiritò che negli anni ’60 portò lo sviluppo nel Mezzogiorno, ci fu una vera e propria ondata culturale e politica. Intorno al compromesso Nenni-Moro si costituirono i comitati regionali per la programmazione. Poi arrivò l’ingresso nella Ue e quel processo rimase incompiuto. L’Italia è entrata nella globalizzazione senza una vera unificazione sociale, economica e politica. È l’origine di tutti i mali». Lei non crede che ora i tempi siano maturi per una reazione? «Non so… le dico però quello che rispose a noi giovani Ignazio Silone. Gli chiedemmo qual è il momento della rivoluzione. Con vezzo da letterato lui ci rispose: “Quando la vita di un uomo non conta più”». SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

INTERNAZIONALE SOCIALISTA

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA SCUOLA DI DOTTORATO Humane Litterae DIPARTIMENTO Scienza della Storia e della Documentazione Storica CORSO DI DOTTORATO STUDI STORICI E DOCUMENTARI (ETÀ MEDIEVALE, MODERNA, CONTEMPORANEA) CICLO XXVI La questione della politica estera nel dibattito interno al Partito socialista unificato. Dal progetto di unificazione alla nuova scissione: 1964 – 1969 M-STO/04 Tesi di dottorato di: Eleonora Pasini Matr. n. R09045 ANNO ACCADEMICO 2012-2013   CAPITOLO SECONDO 2.3 Internazionale Socialista L’unificazione socialista stabilì il definitivo ritorno del Partito socialista  italiano nell’organizzazione dell’Internazionale socialista. Il lungo e tortuoso percorso, iniziato nel 1956 con l’incontro di Pietro Nenni e Giuseppe Saragat a Pralognan, si concludeva nell’ottobre del 1966, in seguito alle decisioni stabilite  dalla Costituente socialista che portarono alla costituzione del Partito socialista unificato. Durante i lunghi anni che videro il Psi fuori dall’organizzazione internazionale che radunava tutti i Partiti socialisti europei,  esclusi  quelli dell’Europa dell’Est, furono numerosi i tentativi effettuati da parte di alcuni  esponenti socialdemocratici volti a favorire un riavvicinamento dei socialisti italiani all’Internazionale. Il lungo processo che si concluse con il ritorno del Psi nell’organizzazione internazionale fu strettamente legato al progetto  dell’unificazione dei due partiti socialisti. In sede internazionale, infatti, le due questioni erano considerate collegate e, quindi, la formazione di un unico grande partito socialista italiano era la premessa necessaria per far tornare il Psi in casa socialista. L’unificazione socialista fu vista, dunque, in modo favorevole dagli altri partiti socialisti europei e ricevette dalla fine degli anni Cinquanta un forte appoggio in ambito internazionale149. La politica frontista seguita dal Psi sin dalla metà degli anni Quaranta condizionò ed ostacolò la ripresa dei rapporti internazionali dei socialisti italiani con  i membri degli altri partiti socialisti europei. La scelta di legarsi al Pci ebbe, quindi, conseguenze profonde anche al livello internazionale prima fra tutte l’espulsione del partito dal Comisco150. L’organizzazione internazionale aveva posto, infatti, come condizione non negoziabile la rottura del patto d’unità d’azione stipulato con il Pci. La politica del frontismo, seguita dal Psi, non poteva, infatti, essere accettata dal Comisco che, essendo condizionata dalle dinamiche della guerra fredda, aveva effettuato una determinata scelta di campo di tipo occidentale. Il mancato strappo  con il Pci provocò, quindi, la definitiva rottura. Nella primavera del 1949 il Partito socialista italiano fu, quindi, espulso dal Comisco. Tale decisione fu comunicata al Psi con una lettera ufficiale del 20 maggio del 1949151. I primi anni Cinquanta furono caratterizzati da una profonda cautela nei  rapporti tra i socialisti italiani ed i partiti  membri  dell’organizzazione internazionale. L’Internazionale socialista osservava con attenzione, però, le dinamiche ed i cambiamenti che stavano avvenendo all’interno del Psi, attendendo  da Nenni e dagli altri esponenti autonomisti una revisione ideologica e politica che potesse riaprire l’ipotesi di un ritorno dei socialisti italiani nell’organizzazione internazionale. Al congresso di Torino del 1955 Nenni aveva compiuto un primo importante e significativo passo verso questa direzione. I socialisti, accettando la NATO, seppur nell’interpretazione difensiva e geograficamente delimitata, presero, in parte, le distanze dalla politica estera del Pci152. Il nuovo orientamento socialista emerso dai risultati del congresso, ricevette un’accoglienza positiva in sede internazionale e favorì, inoltre, la ripresa dei contatti tra i socialisti italiani ed alcuni membri dei partiti socialisti europei.  Il  XX  congresso del Pcus del 14 febbraio del 1956, con la lettura del “Rapporto segreto”  nel quale veniva attaccata e criticata la figura di Stalin,  facilitò il nascente dialogo. Le considerazioni espresse da Nenni, in seguito alla denuncia operata da Cruscev, furono riportatele in una serie di articoli pubblicati su “Mondo Operaio” che contribuirono in modo considerevole a migliorare i rapporti con i partiti dell’Internazionale153. Nel corso del lungo ed intenso 1956, quindi, la questione dell’unificazione dei due partiti socialisti italiani aveva attirato l’attenzione dell’ Internazionale socialista  e dei principali partiti socialisti europei, in modo particolare del partito socialista francese, interessato ad approfondire i rapporti con il Psi anche per motivi di  carattere nazionale154. Tale interesse fu testimoniato dalla missione di Pierre Commin, vicesegretario della SFIO, che giunse in Italia nel luglio del 1956 con l’appoggio del presidente del consiglio Guy Mollet. L’esponente socialista francese che aveva, infatti, il compito di indagare sullo stato del progetto di unificazione, incontrò alcuni esponenti dei due partiti socialisti italiani con i quali affrontò tale questione. Commin, avendo ricevuto un’impressione positiva dai lunghi colloqui avuti con i socialisti e socialdemocratici italiani, giudicò possibile la realizzazione dell’unificazione socialista su basi democratiche. Il vicesegretario della SFIO, una volta ritornato in Francia, riferì sulle conversazioni a Mollet che lo spinse ad inviare una lettera al presidente dell’Internazionale socialista Morgan Phillips  per metterlo  al corrente delle informazioni e delle impressioni acquisite in Italia.“J’ai acquis la conviction que le problème de l’unification  socialiste sur des bases démocratiques   se trouve posé et qu’il peut étre résolu conformément aux aspirations des militants socialistes des diverses tendances si l’Internationale Socialiste, comme c’est son devoir, prend les initiatives les plus hardies”155. Iniziative più ardite ma soprattutto autonome, non furono più prese; il presidente dell’Internazionale stabilì, infatti, che ogni proposta volta in tale direzione sarebbe dovuta essere prima richiesta al livello ufficiale solo dal Partito socialdemocratico italiano, contrario a qualsiasi iniziativa autonoma nella vicenda dell’unificazione156. Il viaggio di Commin in Italia fu di rilevante importanza poiché ottenne l’effetto sperato di interessare e coinvolgere l’Internazionale socialista, inserendola così definitivamente nelle  dinamiche connesse all’unificazione socialista italiana. La conseguenza più importante del viaggio di Commin fu l’incontro di Pietro Nenni e Giuseppe Saragat a Pralognan il  25 agosto del 1956, suggerito dallo stesso dirigente francese. Durante il lungo colloquio tra i due leader socialisti, venne affrontata, anche, la questione dell’unificazione, considerata, però, ancora un tema delicato da affrontare apertamente. L’incontro di Pralognan non ebbe, però, l’effetto sperato e sia Nenni  che Saragat cercarono di ridimensionarne l’importanza all’interno dei loro partiti157. In ambito internazionale l’iniziativa era stata preparata ma soprattutto fortemente voluta e l’Internazionale socialista da quel momento diventò una spettatrice attenta ma anche partecipe delle vicende legate all’unificazione. Il 20 settembre del 1956 a Londra i membri del Bureau stabilirono, quindi, di istituire …

TARANTO «NOTA SULL’ARCELOR MITTAL»

  di Silvano Veronese* – Vice Presidente Socialismo XXI | In una situazione di perdurante stagnazione dell’economia reale nazionale, dopo l’annuncio della fusione FCA-Peugeot (che la stampa francese definisce invece come acquisto da parte della Casa francese di quella italo-americana) che potrebbe riservare amare sorprese per la sopravvivenza di qualche stabilimento in Italia della ex-Fiat, è ri-scoppiata in questi giorni la “grana” dell’ILVA, che  assume  i  connotati del dramma per l’economia tarantina e del Mezzogiorno più in generale ma anche, con buona pace degli “autonomisti” leghisti lombardo-veneti-emiliani, di un serio colpo alle prospettive dell’industria italiana. La comunicazione di recesso da parte di Arcelor-Mittal (affittuari in attesa di divenire proprietari del centro siderurgico ILVA) è certamente un fatto di estrema gravità di cui –a giudizio di alcuni esperti giuridici– mancherebbero persino i presupposti legali. Esso è motivato dalla compagnia franco-indiana dalla decisione governativa di togliere “lo scudo penale” per le responsabilità manageriali (risalenti a precedenti gestioni) per inquinamento e danni ambientali. Tra l’altro, in contrasto –secondo Arcelor-Mittal– con il contratto sottoscritto al Ministero dello Sviluppo Economico l’anno scorso. In realtà, a molti la motivazione puo’ apparire un alibi per sfilarsi da un “affare” che la società franco-indiana sperava potesse garantirle risultati positivi che non maturano -anche per la crisi di mercato del settore-. Ma, bisogna dire con franchezza che i comportamenti del precedente governo gialloverde continuati con la recente scelta dell’attuale esecutivo (sempre a presenza antindustrialista del M5S) hanno dato –con la loro inaffidabilità– un serio pretesto ad Ancelor Mittal per sfilarsi da ILVA. Certamente fin dalla sua costruzione (a metà degli anni ’60) FINSIDER ed ITALSIDER, cioè la proprietà ed il gestore statale del grande impianto siderurgico tarantino, non hanno mai pensato di dotare la più grande acciaieria d’Europa con il suoi altoforni di un moderno ed efficace sistema di disinquinamento e di tutela ambientale dentro e fuori il Centro siderurgico, in particolare per il quartiere popolare adiacente di Tamburi. Purtroppo a quei tempi, ma anche negli anni immediatamente successivi mancavano una cultura ed una sensibilità di tutela ambientale e di protezione della salute dei cittadini, veniva trascurata l’esigenza di uno sviluppo ecocompatibile da parte di tutti, politici, aziende, amministratori locali ed anche di cittadini disoccupati per i quali ad una Azienda -che garantiva (come nel 1980)- in un Mezzogiorno disastrato – una occupazione a ben 43.000 lavoratori tra diretti ed “indotto” – non si chiedeva altro, ad esempio un piano di investimento in risanamento ambientale e di bonifica continua del sito come è stato invece giustamente chiesto ad Ancelor Mittal con l’accordo in sede ministeriale  dell’anno scorso. Per questo obiettivo, che Ancelor Mittal sta attuando, ma non ancora completato, la società franco-indiana ha stanziato 1.200 mld nel quadro di un investimento complessivo di 4 miliardi. Italsider, prima della dismissione dell’impianto ai privati e costoro, in particolare Emilio Riva, hanno fatto poco o niente in materia e sono essi i responsabili delle morti e dei malati causati dall’inquinamento del quartiere Tamburi ed anche di vari operai interni. Non mi sembra che queste morti possano essere penalmente addossabili ad Anceler Mittal, salvo che il programma di risanamento ambientale -per il quale si è impegnata contrattualmente-  non proceda. Questo dramma non puo’ essere argomento di campagna elettorale, anche perché le responsabilità sono plurime e non solo recenti. Il Governo verifichi con puntualità ed immediatezza le reali intenzioni del gruppo siderurgico franco-indiano e decida –sulla base del contratto firmato in sede ministeriale l’anno scorso– di imporre al gruppo  la continuità dell’impegno produttivo (ovviamente accelerando gli investimenti di risanamento e bonifica dell’impianto) oppure, diversamente, impegni i commissari a ricercare una soluzione  imprenditoriale alternativa che non puo’ –però – essere affidata a imprese  –come è stato nel caso di Riva, del tutto inadeguate a gestire con profitto ed impegno sociale un impianto di quelle dimensioni. Chi pensa, invece, che l’alternativa possa essere la chiusura dell’impianto per surrogarlo con improbabili attività sostitutive, purtroppo anche nel recentissimo passato vi sono state anche responsabilità a livello istituzionali che profetizzavano queste scemenze, va messo a tacere o ricoverato in clinica. Un Paese che si considera una grande realtà manifatturiera non puo’ permettersi di desertificare quel poco che rimane di produttivo nel Mezzogiorno, in questo caso la piu’ grande acciaieria d’Europa! La ricerca del massimo  sviluppo produttivo e dell’occupazione non vanno disgiunti da un impegno serio e di scelte concrete di  tutela ambientale: come dimostrano certe soluzioni di eccellenza sono perfettamente compatibili. Servono solo investimenti e volontà politiche. *Silvano Veronese – già Segretario Nazionale Metalmeccanici   SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

SOCIALISMO DEMOCRATICO E L’INTERMEDIAZIONE NELLA SOCIETÀ COMPLESSA

Per conquistare un destino comune di opportunità ed equità, di libertà e giustizia, di esaltazione della Dichiarazione universale dei diritti umani, per allargare e difendere i diritti civili, sociali, economici di tutti i cittadini, per realizzare gli indirizzi progettuali e programmatici della Costituzione Repubblicana, per una nuova internazionalizzazione capace di rispondere mondialmente alle esigenze poste dalla Rete globale, per una democrazia rappresentativa che ricomponga la “frattura sociale”, accompagnata da “secessione sociale”, e che metta fine alla disqualità sociale in Europa e nel mondo, sono necessari nella società complessa il Socialismo Democratico e l’Intermediazione Documento-appello elaborato e scritto da Giuseppe Scanni, studiato, analizzato, approvato con l’arricchimento dei contributi del COORDINAMENTO NAZIONALE DELL’ASSOCIAZIONE SOCIALISMO XXI composto da: Aldo Potenza (Presidente), Silvano Veronese (Vice presidente), Giuseppe Scanni (Vice presidente), Vincenzo Lorè (Responsabile Comunicazione e Coordinatore Italia meridionale), Alberto Leoni (Coordinatore Italia del nord), Luciano Vita (Coordinatore Italia centrale), Mauro Scarpellini (Coordinatore attività tecniche ed amministrative). Il documento è stato ulteriormente presentato il 3 novembre 2019 in un Seminario di studio e proposte del Coordinamento Nazionale allargato ai Coordinatori regionali del Lazio, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria che si è tenuto a Roma; nel corso del Seminario sono stati presentati un certo numero di nuove valutazioni. La stagione politica che stiamo vivendo è spesso definita come “Terza Repubblica”; disgraziatamente è soltanto la quinta fase della Prima Repubblica, considerando la seconda quella che va dal 1994 al 2011 (l’illusione del maggioritario), la terza quella aperta dal governo Monti e terminata con le elezioni del 2013 (il salvataggio dal default) e la quarta quella dei governi Letta, Renzi e Gentiloni (la seconda bis). Il primo nodo da affrontare è quello attorno alla natura locale, europea o mondiale della crisi. Noi affermiamo che, nonostante una peculiarità italiana e tedesca, la crisi che siamo chiamati ad affrontare e sanare è planetaria. La peculiarità tedesca italiana è legata al lento processo di formazione di uno Stato unitario, a fronte di quanto è accaduto in Europa. Gli storici definiscono la Germania e l’Italia le “nazioni in ritardo” dell’Europa, perché, nonostante le apparenze, sono nazioni che hanno conseguito più o meno negli stessi periodi e nello stesso tempo la loro unità statuale.  Il nostro paese “in ritardo” affronta un periodo di destrutturazione -che ci auguriamo breve- assai somigliante alla Seconda Repubblica francese (febbraio 1848-dicembre 1851), con la speranza che non si affacci alla ribalta un Napoleone III. C’è il rischio che la destrutturazione del sistema peggiori in decomposizione del sistema politico; c’è anche la possibilità, però, che finalmente si affaccino sulla scena italiana forze che abbiano almeno l’obiettivo della ricomposizione e del rilancio, se non proprio del Rinascimento. Insomma, la stagione che dopo aver celebrato e sperimentato al potere il populismo, lo archivi essendosi sufficientemente spaventata delle conseguenze. A favore della seconda ipotesi è possibile argomentare che il raggiungimento del potere ha corrosivamente contaminato una forza anti-politica come i 5stelle, con la conseguente crisi di consenso che ne è velocemente derivata, e che il modello nazional-populista proposto da Salvini si è platealmente svelato fragile e di impalpabile consistenza, attivando una attenzione critica e preoccupata per la irritualità di atti governativi basati spesso sulla omissione delle regole imposte dalle Leggi e dalle norme in materia di gestione dei pubblici affari; e pur tuttavia non è possibile ignorare che nonostante la plateale irrisione delle Leggi il leader della Lega gode ancora di un forte favore.   Il governo Conte2 è stato lo sbocco possibile, seppur non eccellente e tuttavia migliore rispetto a quelli che si erano profilati, della crisi dell’alleanza tra 5stelle e Lega, prodotta con incredibile imperizia sua, e fortuna nostra, da Salvini. Tuttavia anche il Conte 2 è corso, con i suoi vari componenti, ad insediarsi nel centro politico, che, con tutte le sue declinazioni: centro destra, destra centro, centro sinistra, centro nostalgico dei bei tempi che furono, occupa in Italia  uno spazio enorme, superiore al 70% dei voti espressi; chi non si riconosce nel centro è facilmente individuabile nella Destra dell’onorevole Meloni che si avvicina al 10% di consensi espressi; un area non di centro della sinistra è difficilmente quantificabile e si ri è rifugiata nell’astensione. Il tanto agognato spazio di centro, da occupare per dimostrare di saper governare o pretendere di essere ammessi al Governo, non permette la mediazione tra netti e diversi programmi, anzi, è divenuto, come dimostra la trasformazione dei 5S, un serio corroborante alla desertificazione ed alla fuga degli elettori, prevalentemente verso l’astensione, aumentando il disprezzo per un sistema politico che premia gli opportunismi, i personalismi, mentre il così agognato centro espone gli elettori alle sirene della demagogia e del populismo, mitigando qua e là la cultura della gramigna con la falce della mediazione pubblica esercitata del Presidente. Quanto ci sia di ritardo storico sulla acquisita coscienza di partecipare alla vita dello Stato, che significa (lo spirito repubblicano) comprendere ed accettare limiti, mezzi, obiettivi della nazione che agisce in quanto Stato, cioè trasformare con impegno e generosità il progetto politico in una coerente attività quotidiana, e quanto invece le interrelazioni mondiali abbiano imposto scelte che ictu oculi appaiono demotivanti e che sembrano spingere  verso sponde populiste, termine generico ma intuitivamente espressivo. La destrutturazione in corso, è nostra opinione, non può ricomporsi con furbizie tattiche; è necessaria una analisi coraggiosa delle reali motivazione della crisi mondiale e di forti ricomposizioni istituzionali su valori condivisi, chiari e non generici, di rispetto ed esaltazione dei diritti dell’uomo e del cittadino alla libertà, alla dignità del lavoro, alla parità di genere, alla eguale soddisfazione dei bisogni sociali, al comune rispetto dei diritti e dei doveri che -pur nella diversità generata dal merito- consentono l’esercizio di una effettiva eguaglianza. È evidente la necessità di rianimare e rinnovare culture politiche che hanno radici solide nella storia europea, per garantire la selezione rigorosa delle classi dirigenti. Oggi effimeri partiti personali, votati al culto del leaderismo o, peggio, al ricatto della cinica speculazione suscitata dall’indispensabilità dei loro numeri nel gioco parlamentare o, sempre peggio, entrambe le motivazioni, impediscono una coerente ricostruzione del sistema …

EMILIO LUSSU «LA NASCITA DI GIUSTIZIA E LIBERTA’»

RICORDO QUEI GIORNI Ecco la mia breve testimonianza. Bisogna riandare a qualcosa come trenta e più anni fa: estate 1929. Contrariamente a quello che credono molti anche tra quanti si occupano di problemi politici, Giustizia e Libertà, cioè il movimento rivoluzionario antifascista repubblicano e democratico, come si definiva, non fu costituito a causa della fuga da Lipari. Sì, la fuga da Lipari, della quale il freddo e perfetto organizzatore tecnico dalla Francia e dalla Tunisia è stato il qui presente Tarchiani, è stata certamente un fatto clamoroso, nel suo genere direi unico, ed ebbe in quel periodo molto stagnante all’interno una immensa ripercussione e in Italia e all’estero. Peraltro, tirate le somme, una fuga è una fuga e, per ispirarmi al re Borbone, a scappare siamo buoni tutti. La fuga non servì che a liberare alcuni di quelli che saranno fra poco i protagonisti di una più vivace attività politica, fra cui il grande scomparso Carlo Rosselli. Ma Giustizia e Libertà, in realtà, esisteva già in formazione un po’ sparsa in varie parti d’Italia. A Firenze, attorno al gruppo “Non mollare” di Salvemini, erano i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Nello Traquandi e altri. A Milano, attorno a Ferruccio Parri e Riccardo Bauer che avevano avuto già un’attività democratica culturale, erano alcuni giovani intellettuali e socialisti provenienti dal partito socialista. A Torino, attorno ai giovani venuti con “Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti, fra cui il più in vista Carlo Levi, erano quelli che erano stati allievi di Augusto Monti al liceo D’Azeglio, e qualche altro intellettuale e operaio. A Roma, era notevole anche numericamente, il gruppo giovanile repubblicano, con Baldazzi, Gioacchino Dolci, Fausto Nitti, Giuseppe Bruno, Dante Gianotti. E poi la parte più attiva del Partito Sardo d’Azione, di cui Piero Gobetti parlava già nel manifesto di “Rivoluzione Liberale”, che aveva, con Francesco Fancello e Stefano Siglienti, un centro continentale a Roma, collegato a Firenze e a Milano. E infine qualche isolato liberale o democratico, come A. Tarchiani e A. Cianca già in esilio, e qualche altro isolato in più parti d’Italia. V’erano certamente, e in città e in provincia, centinaia di isolati o piccoli gruppi, ma si ignoravano tra di loro e noi stessi li ignoravamo. Giustizia e Libertà come noi la costituimmo dopo la fuga da Lipari nei mesi di agosto, settembre, ottobre del 1929, si riferiva a questi vari gruppi e ad essi si legava. Ci univa tutti una comune totale rivolta morale, ideale, politica e sociale contro il fascismo e i suoi sostegni. Eravamo, può darsi, animati da quello spirito che traspare dalla esposizione sintetica politica che ci ha voluto fare oggi il professor Bobbio. Mentre a Parigi la Concentrazione, già costituitasi nell’aprile del 1927, si poteva considerare attraverso gli elementi che la formavano – i due partiti socialisti, uno riformista, l’altro massimalista, il partito repubblicano, la Confederazione generale italiana del lavoro, la Lega dei diritti dell’uomo – una specie di continuazione dell’Aventino, noi di Giustizia e Libertà non lo eravamo. E questo è fondamentale. Questi gruppi che ho elencato cosi affrettatamente poc’anzi, pur avendo partecipato all’Aventino e avendo riconosciuto all’Aventino una superiore e utile intransigenza morale di fronte al fascismo, avevano sempre negato all’Aventino stesso la giustezza della sua posizione polemica verso il fascismo. Mentre l’Aventino giocava tutte le sue carte antifasciste sul re, noi era sul popolo, e solo sul popolo, che fondavamo le speranze della liberazione. Mentre i continuatori dell’Aventino, uomini e maestri di vita morale a tutti noi di qualunque partito – cito fra i massimi, Turati, Treves, Modigliani, Buozzi, Baldini -, credevano, anzi ne erano sicuri e il presidente Nitti rafforzava questa fiducia, che Mussolini sarebbe caduto fra un mese o fra due, noi calcolavamo ad anni: cinque, sette o dieci, “se ci va bene”. Noi credevamo solo ed esclusivamente nella coscienza e nell’azione del popolo: solo il popolo sarà il protagonista della liberazione. E demmo a Giustizia e Libertà la definizione di movimento rivoluzionario antifascista, per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale. Eravamo, cioè, la stessa espressione conciliativa e riassuntiva delle correnti politiche che avevano dato vita all’Aventino, ma potevamo esserne considerati come il superamento, non la continuazione. Eravamo socialisti, repubblicani, democratici, liberali, l’avanguardia, per i quali la lotta al fascismo continuava, ma con altri mezzi: l’Aventino era stato legalitario, Giustizia e Libertà era rivoluzionaria. I comunisti erano usciti dall’Aventino poco dopo la sua formazione e dopo le leggi eccezionali; in Francia, formavano un partito a sé, staccato dalla Concentrazione con cui non avevano che rapporti polemici. Io non saprei dirvi quale sarebbe stato il corso degli avvenimenti se dell’Aventino, prima, e della Concentrazione dopo, avessero fatto parte i comunisti. Eravamo due formazioni staccate, autonome, di cui quella comunista tendeva permanentemente all’organizzazione in Italia. Per definire il movimento di Giustizia e Libertà credo che dobbiamo fare uno sforzo di memoria. Discutemmo quasi due mesi a contatto con tutti i gruppi d’Italia e, a Parigi, non avevamo che riunioni permanenti. Si deve dire “Giustizia e Libertà” o “Libertà e Giustizia”? Sembra una cosa da nulla, eppure fu un continuo scambio di lettere clandestine, inchiostri simpatici, cifre, messaggi, tutti i nostri gruppi in Italia in movimento, e discussioni vivacissime a Parigi o a Saint-Germain-en-Laye, dove abitava Gaetano Salvemini, per breve tempo in Francia. “Giustizia e Libertà” o “Libertà e Giustizia”? A nessuno di chi si occupa di cose politiche sfugge la differenza. La corrente liberale democratica era per “Libertà e Giustizia”, la corrente socialisteggiante era per “Giustizia e Libertà”. Dopo lungo discutere, finalmente – e mi pare di ricordare che vi fu una manovra per ottenere la maggioranza – trionfò “Giustizia e Libertà”. Ora io non rido più, e neppure sorrido, quando leggiamo che, durante la presa di Costantinopoli, i saggi erano riuniti in assemblea a discutere impassibili da che parte giusta venisse la luce sul Monte Tabor. Eh, c’è una bella differenza, perché se sul Monte Tabor la luce viene dall’oriente, si ha una civiltà, ma se viene dall’occidente, se ne ha un’altra. Una parola messa prima o …

Testing the Elements

This is some dummy copy. You’re not really supposed to read this dummy copy, it is just a place holder for people who need some type to visualize what the actual copy might look like if it were real content. If you want to read, I might suggest a good book, perhaps Hemingway or Melville. That’s why they call it, the dummy copy. This, of course, is not the real copy for this entry. Rest assured, the words will expand the concept. With clarity. Conviction. And a little wit. In today’s competitive market environment, the body copy of your entry must lead the reader through a series of disarmingly simple thoughts. Gallery Fullscreen Image Cras justo odio, dapibus ac facilisis in, egestas eget quam. Aenean eu leo quam. Pellentesque ornare sem lacinia quam venenatis vestibulum. Donec ullamcorper nulla non metus auctor fringilla. All your supporting arguments must be communicated with simplicity and charm. And in such a way that the reader will read on. (After all, that’s a reader’s job: to read, isn’t it?) And by the time your readers have reached this point in the finished copy, you will have convinced them that you not only respect their intelligence, but you also understand their needs as consumers. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it

APPELLO DEGLI STUDENTI CILENI «STOP ALLA VIOLENZA »

Siamo un gruppo di studenti del Cile che insieme alla popolazione chiede maggiore democrazia. Il Governo cileno non solo ci ignora, ma da giorni ha schierato i soldati che ci stanno massacrando. Non accadeva nulla di così grave dai tempi del dittatore Pinochet. Siamo un gruppo di studenti cileni e crediamo che sia della massima urgenza fermare la violenza in Cile. La popolazione cilena si trova ad affrontare un drammatico scenario di crisi dovuto a tanti fattori. Il rifiuto di accettare gli aumenti del costo dei trasporti pubblici – su cui molti media si sono soffermati – è solamente la punta dell’iceberg che cela, in realtà, decenni di ineguaglianze sociali e una costante perdita di credibilità del sistema politico cileno. Lunedì, 12 ottobre, un gruppo di circa 200 studenti ha iniziato a protestare. Subito hanno ricevuto il supporto di altre parti della popolazione e sempre manifestando in modo legittimo e pacifico. Il Governo ha risposto, ancora una volta, con fredda indifferenza e irridendo le richieste dei cittadini – “dovete svegliarvi prima la mattina” ha dichiarato il Ministro dei Trasporti. Per questo motivo nei successivi 4 giorni le manifestazioni sono aumentate, coinvolgendo via via diversi strati della società cilena, diventando una enorme e spontanea mobilitazione nazionale e trasversale nelle sue rivendicazioni. Alla luce di tutto questo il Governo ha deciso di passare all’azione. La risposta è stata tornare alla Costituzione del 1980 – quella scritta ed emanata sotto la dittatura di Pinochet – e mandare i soldati fuori dalle caserme e contro il popolo. La mattina del 19 ottobre il Presidente Piñera si è presentato in tv per lasciare i poteri nelle mani del Capo dell’Esercito cileno con l’obiettivo di “ristabilire l’ordine sul territorio nazionale”. Dopodiché il Presidente è sparito fino a tornare di nuovo sulle scene per dichiarare al mondo intero: “Siamo in guerra”. Fino a questa dichiarazione incendiaria, il Presidente non si è fatto vedere pubblicamente e gli unici interlocutori dei cittadini cileni sono diventati le autorità locali e soprattutto il Capo dell’Esercito, Gral. Javier Iturriaga. Mentre non si sta facendo nulla per discutere delle richieste dei cittadini, giorno dopo giorno monta la repressione. Da sabato 19 il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza in 2 regioni cilene e oltre 10 comuni con l’aggiunta del coprifuoco in diverse zone dalle 6 di sera. Sui social media ci sono numerosi video che mostrano polizia e soldati sparare ad altezza d’uomo, utilizzare droghe prima di andare a reprimere i manifestanti, colpire giovani e bambini, compiere raid nei negozi e utilizzare armi contenitive durante manifestazioni pacifiche dove sfilano famiglie. Dopo 7 giorni di dimostrazioni e le strade militarizzate, in Cile non è stato riportato l’ordine né si è avviato alcun dialogo. Utilizzando soldati e polizia, il governo ha radicalizzato un conflitto che non aveva nulla a che fare con l’ordine pubblico ma che era di esclusiva natura politica. Questa situazione può essere risolta solo con il dialogo e permettendo ai cittadini di interagire con il governo. Per questo chiediamo che i soldati rientrino nelle loro caserme e sia posta fine alla repressione e che sia data possibilità ai cittadini cileni di partecipare attivamente alla vita democratica del loro Paese. SocialismoItaliano1892E’ un progetto che nasce con l’intento “ambizioso” di far conoscere la storia del socialismo italiano (non solo) dei suoi protagonisti noti e meno noti alle nuove generazioni. Facciamo comunicazione politica e storica, ci piace molto il web e sappiamo come fare emergere un fatto, una storia, nel grande mare della rete. www.socialismoitaliano1892.it